GIORGIO LINGUAGLOSSA INTERVISTA MARIO M. GABRIELE
Domanda: Nel discorso poetico del tardo
Novecento sono venuti a cadere le grandi narrazioni, restano i piccoli racconti
dell’io solitario che accudisce la reificazione del discorso poetico ad uso
privato del soggetto poetante. Oggi si assiste ad una “poesia” piena di episodi
biografici, si crede ingenuamente che la propria biografia debba entrare nella
forma-poesia. I tuoi libri, invece, si muovono in un orizzonte tematico e
problematico. I tuoi ultimi libri: Le finestre di Magritte (2000), Bouquet
(2002), Conversazione Galante (2004), Un burberry azzurro (2008) e Ritratto di Signora (2014), «non
sono correlati ad un determinato modello, ma ad una galleria di “soggetti” che,
sottostanti il ritratto principale, si fondono in un’unica panoramica, dove la
scrittura poetica si fa pellicola simbolica di microstorie pubbliche e private
nate dalla “metamorfosi dell’oggetto”» (Luca Landolfi). La tua poesia invece
adotta la citazione come metodo di composizione e di collage tra elementi
disparati del mondo e di trasmissione dei valori estetici della tradizione.
Il metodo della citazione che
tu adotti, questo del collage e della citazione, produce un rafforzamento
plurilinguistico della comunicazione estetica; la citazione viene intesa come
contigua alle esperienze denaturate del «valore di scambio» delle scritture
pubblicitarie. Propriamente, la citazione è la costituzione della nostra
biografia, siamo diventati citazione di qukalcun’altro e di qualcosa d’altro.
La tua poesia si nutre di citazioni culte, di cronotopi letterari, di films, di
scritte della pubblicità, etc. come un mostro carnivoro si ciba di carni
insanguinate, non può essere altrimenti e non può tradire il proprio DNA: è un
mostro cannibalico che fagocita i segni e i segmenti semantici della tradizione
ridotta ad emporio di citazioni in libera svendita.
Questa mia lettura ti trova d’accordo?
Risposta: Gli anni Sessanta
hanno determinato la fine della poesia-racconto, come misura unica del testo,
lasciando spazio a Correnti e Gruppi letterari, che si sono alternati nel
tentativo di costituire un valido punto di riferimento, che in effetti non vi è
stato, se si voglia sul piano delle verifiche controllare la loro
sopravvivenza, spesso limitata a qualche decennio e anche meno, mentre una
parte della critica letteraria si occupava
del nuovo percorso linguistico nel segno dello Strutturalismo. Viviani,
Ottonieri, Ramous, Baino, ecc. sono stati i rappresentanti di una poesia
anatomopatologica e dermoesfoliativa, oggi in stato di colliquazione come le
antologie, omissive di nomi e opere, sostituite da quelle indirizzate verso la
periodizzazione repertoriale, con giudizi critici di sopravvalutazione. Si è
lasciato il campo ad autori dal balbettio terminale, fino a quando la loro
stessa voce si è afonizzata. Non esiste ancora lo spazio per riempire il Vuoto
con una poesia alternativa. Ogni poeta opera secondo la propria cultura e
sensibilità. Da qui l’esplicazione di una visione della realtà che è, nel mio
caso, repertorio di memorie, di figure femminili e di luoghi provenienti da un
carotaggio psichico di diversa stratificazione. Non a caso Freud, sul
significato di creazione artistica, riconduce ogni cosa alla sfera intima e
mentale. Ho rifiutato il pentagramma lirico di vecchia classe istituzionale,
per addentrarmi non nella cellula poetica degli oggetti, ma in quella dei
soggetti vivi e morti, entrambi destinati all’oblio, e per questo motivo ne
rivitalizzo la presenza-assenza con la citazione dei loro versi, che formano
una doppia aura all’interno di un’unica cornice. Più in specifico, è l’adesione
a un linguaggio interrelazionale, che ricorda Eliot, ma anche il pensiero
filosofico di Derrida, quando supera il concetto di finitudine dell’uomo, e lo
traspone in un’altra dimensione: quella della scrittura, che rimane l’unica
traccia visibile e duratura di uno scrittore. Da qui la nascita degli Autoritratti
avvolti dalla metafora, come modello biottico di fusione nel testo principale.
E’ ciò che accade un po’ nei miei volumi: Le finestre di Magritte, Bouquet,
Conversazione galante, Ritratto di Signora, Un burberry azzurro e nell’Erba di
Stonehenge, dove ricompongo l’estetica del verso per rinnovare il mito della
vita lungo le strade del mondo, i cui eventi non si discostano molto dalla
nostra sensibilità e cultura, pur essendo espressi con particelle linguistiche
di diversa provenienza, nel tentativo, sempre più difficile, di trovare nuovi
spazi alla poesia. La forma adottata è estranea a qualsiasi concetto di “moda”,
poiché ho voluto ricondurre l’esercizio della scrittura alla libera invenzione
della lingua, anche se poi, qualsiasi mezzo adoperato in poesia si logora da
sé, subendo la contaminazione del tempo.
Domanda: Si parla oggi molto
spesso di esperienze «non-reali», che l’autore non ha mai provato, delle
esperienze del padre, del nonno e così via. Ma allora si scriva un romanzo! Ben
più idoneo alla ricostruzione di una esperienza mai esperita. Nel romanzo
questo è possibile, in poesia, no. Se nell’ipermarket tendono a scomparire i
confini tra le varie tipologie di merci in un susseguirsi di produzione
indifferenziata fondata sulla minima differenza e sul minimo scarto, oggi si
assiste al medesimo fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere,
tra i singoli sotto-generi, de-vitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene
così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di
differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per
trasformarsi in un «contenitore», un «palinsesto», tenda ad un «genere
indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico e
transpolitico. Negli autori di moda si tende alla chatpoetry, al pettegolezzo
da lettino psicanalitico (Vivian Lamarque), pettegolezzo da intrattenimento
ludico-ironico (Franco Marcoaldi), flusso di coscienza reificato e disconnesso,
utopia agrituristica, monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con
qualche complicazione intellettuale per assecondare gli utenti di una cultura
di massa (Valerio Magrelli). Ma il post-moderno non può essere soltanto la
riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza
«di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione.
Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di
preparare un pensiero post-metafisico»,1) afferma Vattimo; ma se la tecnologia
è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, un pensiero
post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del Progresso
e alle istituzioni culturali che in tutto il Novecento hanno svolto il ruolo di
supplenza e di sostegno.
Qual è il tuo pensiero in
proposito?
Risposta: Nel momento in cui
scompaiono i “confini tra le varie tipologie di merci e di generi artistici”,
vengono a decadere anche le ragioni per cui si è creduto a un determinato
modello economico e culturale. È il segno dei nostri tempi e delle mutate
condizioni sociali dovute al consumismo. La verità è che siamo entrati in un
mondo nel quale l’homo faber entra autonomamente in un mercato di merci.
consentendogli di “barattare, trafficare e scambiare una cosa per un’altra”,
assumendo una specie di “sfera pubblica”, ma non politica, nel mercato di
scambio dei rispettivi prodotti. Siamo lontani dalla alienazione marxiana e dal
primo stadio di sottomissione capitalistica, ma molto vicini ad una autonomia
commerciale, dove le cose “compaiono come merci per essere valutate o
rifiutate”. Lo stesso discorso vale per la poesia, anch’essa ridotta a prodotto
di consumo, nella molteplice varietà del linguaggio a servizio di una
diplomazia lessicale, che vuole essere, come in effetti è, deterioramento del
tessuto linguistico e fiches verbali in un gioco senza risultati. La visibilità di questa merce non è il
marchio di fabbrica, ma la proposizione
di versi che hanno un ‘unica direzione: la dissoluzione finale. La poesia di oggi si proietta all’esterno
come esercizio di scena: è teatro, “voice” in permanente esibizione, da cui
partono poi le affiliazioni nel massimo grado della praticabilità e dei
tecnicismi riconducibili alle forme
traslative e disgiuntive, verboiconiche e arcaiche, trasgressive e fono
lessicali. Esistono, è vero, gli strumenti, ma non la ”qualità”. L’avvento
della borghesia ha dischiuso le porte del mercato mondiale, dove le ideologie
hanno perso valore, e l’unica forma che resiste è la merce di consumo. Con il
tramonto della metafisica, e dei suoi valori assoluti, l’Essere “può venire
esperito” secondo Vattimo, soltanto “debolmente”, come una struttura ondulante,
rispetto al concetto di stabilità della metafisica. Una teoresi, scientifica o
filosofica, può essere sempre sottoposta all’azione della falsificabilità nel
momento in cui si riscontrino deduzioni, dichiaratamente incongrue e
asimmetriche. È quanto si verifica nella poesia, esposta a significative
contraddizioni e metamorfosi, di fronte al continuo rapporto-scontro con il
postmoderno, e la metafisica e, infine, con il postmetafisico, Appare,
pertanto, possibile indagare su ogni categoria, con una critica sempre più
revisionista, che propone congetture in continua evoluzione e fibrillazione di
fronte alla trasmutabilità del Logos e dell’avanzamento del Progresso.
Domanda: Nell’odierno
orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è
più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno
quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso.
Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento,
dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre
narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione
narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso
poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione
interna. Il concetto di «contemporaneità» (come il concetto del «nuovo») è
qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è
passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo
Qual è la tua opinione?
Risposta: Credo, in questo
caso, di dover citare J. F. Lyotard a cui va il merito della diffusione del
termine post-moderno, e la conseguente nascita di una stagione filosofica, in
cui il sapere si esterna non più per capitoli interi, ma per appunti di
riflessione, chiari e sintetici, dopo la fine delle narrazioni. L’assenza di
una filosofia della Storia e dell’Arte è da collegare, probabilmente, alla
crisi della critica di fronte alle avanguardie e alle velocizzazioni
tecnologiche, che si sono susseguite come trasformazione del capitalismo. Dopo
anni di sociologismo politico e ideologico, è tempo di restituire all’Uomo più
dignità, non riconosciuta dal comportamento aziendale dell’economia. Il futuro
opera in modo che tutto sia condizionato dal progresso, ma quanto a riportare i
parametri della vita e il decoro poetico a livelli accettabili non sembra facile.
Si ha la sensazione che tutto questo sia il risultato di una alienazione
esistenziale, economica e ideologica. L’uomo non trova più soddisfazione nei
prodotti di consumo da lui creati. Si disarticola nell’accomodamento inerziale
di fronte al progresso, senza alcuna identificazione nei confronti della
Globalizzazione, che in effetti lo immiserisce, lo emargina, abituandolo alla
inconsistenza dell’Essere. La demassificazione delle classi operaie, il
progetto di un Nuovo Ordine Mondiale, e i conflitti geopolitici, con la
costante invasione migratoria, non rendono la dialettica intorno alla poesia,
terreno fertile di ogni discussione. Anzi, la crisi attuale la neutralizza,
tanto che il mondo potrebbe benissimo fare a meno della sua presenza. Non
esiste alcuna possibilità di resurrezione letteraria, perché tutto nasce e si
dissolve non lasciando alcuna traccia, neanche la creatività dell’angoscia. Né
si può dire di trovarci in una zona di attesa perché il crollo della società
contrattualistica, con il sindacato messo alle corde, e l’annullamento del
diritto di fronte alla supremazia del potere finanziario e del carattere
tirannico delle democrazie, rendono astorici e nullificanti tutti i valori
connessi alla poesia, alla narrazione, ad ogni fondamento costitutivo della
Forma. Inoltre, i conflitti balcanici, la guerra in Medio Oriente e il
terrorismo, sono stati gli ostacoli di maggiore frenaggio per la poesia civile, la cui assenza è allarmante, per non
dire sorprendente. Con molta probabilità ai poeti interessa l’IO e
l’autobiografia, il ricorso alle succursali linguistiche novecentesche, la
permanenza in un backstage fatto di maschere, e vuoto narcisismo,
temporaneamente annullati dall’antologia di Ernesto Galli della Loggia in “La Poesia Civile e Politica dell’Italia
del Novecento”, BUR-Saggi, 2011. Tuttavia, esiste un “pendolo della
letteratura”, la cui oscillazione va e viene, anche se bisogna partire da zero,
dando alla poesia infusioni energetiche, in grado di tenerla in vita. Ma come
iniziare questa avventura? Semplicemente prendendo ad esempio il pensiero di
Hans Freyer in: “Società e Cultura,”
quando afferma che “la lingua deve definire, senza però ridursi a un
resto amorfo, deve dominare, e nello
stesso tempo, colma sino all’orlo di significati deve scoppiare di forza
espressiva”. Chi ha voluto la
dissoluzione dell’Origine, della Storia, dell’Arte, della Filosofia e di ogni
altro Edificio culturale, ha tramato contro la stessa civiltà dell’uomo,
conseguita dopo secoli di sacrifici, di rivoluzioni, di guerre, di ricerche
scientifiche, per destabilizzare il pensiero polivalente e della Metafisica di
Aristotele, che riconosce agli uomini il diritto di sapere contro l’ignoranza.
Domanda: Per Vattimo «si può
dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente,
post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…)
riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità
significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro
e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali
soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma
ritenga anche di poterlo criticare». 2)
Risposta: La via di svolta per
l’uomo di tornare al proprio concetto di Essere, di fronte alla sua
temporalità, trova in Heidegger uno dei maggiori sostenitori. Pensare è
archiviare le superstizioni dando validità al pensiero scientifico, come
credeva anche Einstein. Il postmetafisico agisce come un cambio di pagina nella
storia del divenire critico e filosofico, smantellando un sistema culturale non
più propositivo, attraverso l’esercizio del pensiero esplicante una critica
opposta a tutto ciò che prima era istituzionalizzato e accettato. Uscire dalla
considerazione dell’Essere, come soggetto integrato nella metafisica, e da cui
ci si distacca soltanto riducendone i valori assoluti, significa per Vattimo
“progettare” un iter filosofico nel momento in cui l’Occidente si è trovato di
fronte al tramonto della metafisica, per cui l’unica via possibile era
svincolare l’Essere, depotenziandolo dalla sua categoria, per continuare un
discorso interpretativo e logico sulla realtà, dove l’Essere si minimizza in un
frammento in rovina. Non sembrerà un indirizzo teoretico periferico o isolato
se anche altri filosofi si sono espressi con ulteriori concetti critici, legati
al binomio Teoria-Prassi, Totalità e Unità, Staticità e Critica: tutto un
repertorio di temi al vaglio dell’Osservazione, come metodo di “Obiezione”, e
di legittimo senso del superamento della monolitica visione esternalista, dopo
ogni caduta di tensione nella società.
Domanda: Possiamo allora
affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della
verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile
entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero? Se intendiamo in senso
post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del
nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere
appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della
cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo
Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una
fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo
della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via
inautentica» per accedere al Discorso poetico nei termini di cultura critica è
qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità
infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso
l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in accezione di esperienza del
post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei
frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina
stilistica, arrestandone, solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno
e la periferia.
Risposta: La decostruzione
della metafisica correlata al concetto di sostanza-presenza, con i fondamenti
inattaccabili quali: Dio, l’Essere, il Soggetto, porta Heidegger a considerare
l’esistenza nella sua realtà, fatta di angoscia e di nulla. Nel
post-metafisico, vengono a decadere gli equilibri universali, per lasciare il
posto a una logica, che rispecchi la verità, con le sue connotazioni di tipo
socio-politico e culturale. Siamo all’interno di un ordinamento socio-culturale
correlato al “sentire critico”, indirizzato verso varie ubicazioni, non ultima
quella della scrittura poetica che si situa tra il tentativo di consolidamento
e la frantumazione, tanto che alla fine, le giunture provvisorie non portano ad
un impianto duraturo e armonico dell’edificio: il risultato, è quasi sempre lo
sforzo di ricomporre l’unità linguistica e culturale, che dovrebbe essere
riassorbita da una nuova civiltà letteraria e poetica, in assenza della quale
bisognerà, continuamente, fare i conti con le proiezioni del pensiero e della
continua riflessione critica e filosofica.
Domanda: La poesia moderna
parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi
narrazioni. La tua poesia parte da qui, è il tentativo di ripartire dal
significato di una immagine, da una citazione, da un segno come effetto di
superficie ed effetto di lontananza. Che cos’è l’effetto di superficie?
Qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario:
l’essenza, la coscienza, e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né
nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie», relitto
linguistico che galleggia nel mare del linguaggio, il reale subliminale che sta
appena al di sotto della superficie della coscienza linguistica. Non bisogna
con ciò intendere, né vorrei darlo ad intendere, che il senso sia qualcosa di
diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se fosse un segno o un
sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro che ha
contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa); né bisogna intendere la
stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile», ovvero, non
modificabile almeno per un certo periodo. Infatti, mi chiedo, può esistere
qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale? – Ciò di
cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, appartenente al sensorio
(e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il senso
abita l’immagine, il significato, ovvero, il sensorio? Forse. I personaggi
delle tue poesie sono gli equivalenti dei quasi-morti, immersi, gli uni e gli
altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello
spirito (le categorie dello scambio simbolico), essi sì che corrispondono allo
scambio economico-monetario al pari delle pagine di un medesimo foglio bianco
che attende la scrittura. Al pari della moneta anche la parola poetica vive ed
è reale soltanto nello scambio simbolico (ma qui il discorso si allungherebbe).
Anche se è da dire che nel tessuto fisico-chimico della tua poesia penetrano
(osmoticamente, e quindi ideologicamente) lacerti, lemmi e immagini del
linguaggio poetico orfico che si sono sedimentati appena sotto la superficie
del testo, indebolendo (più che rafforzando) il passo della sintassi
(claudicante in quanto non più originaria, non più ordo rerum né più ordo
verborum).
Risposta: Devo ammettere che il
discorso si sta orientando verso un piano di dialettica filosofico-letteraria
nel tentativo di ricomporre un Corpo, restituendogli la sua Forma. Difficile
amalgamare le evaporazioni del Tempo e del Presente riunendole osmoticamente, nella
vita e nella poesia. Ci siamo addentrati non solo nelle terre della
oggettività, ma anche in quelle della soggettività fasciandole di filosofia. La
fine del linguaggio narrativo ha caratterizzato il secondo Novecento,
trascinandosi dietro la deregulation poetica e linguistica, che ha allontanato
l’interesse della critica e del lettore. Ci sono volumi di poesie che sono
pagine bianche, le stesse che si trovano al Centro del Nulla. Si tratta, quasi
sempre, di una poesia priva di latitudini e di cartelli indicativi che possano
indirizzare il poeta e il lettore, verso qualcosa di durevole. che non è
realizzabile perché è nel cromosoma della Natura, fonte essa stessa di vita e
di morte, di senso e contro senso. Ipotizzando, per un attimo, la precarietà
del significato, quando ti poni la domanda: “Esiste qualcosa di stabile
all’interno della fluidificazione universale, almeno per un certo periodo?”, la
risposta scientifica più valida la potrebbe dare il noto astrofisico inglese
Stephen Hawking; ma, da buon Osservatore delle cose e Propositore di progetti
quale sei, già la conosci, ben sapendo che ”l’effetto di superficie”, come lo
definisci, ha una frequenza brevissima, come il Big Ben della Torre di Londra.
Quanto ai lemmi, ai lacerti e alle immagini da te riscontrati nella lettura dei
miei versi, mi richiamo a quanto già detto sulla mia poesia, a inizio del
nostro colloquio, consapevole che anch’essa, quale agglomerato di frammenti,
appena sotto la superficie, rimanga in attesa del dissolvimento, come tutte le
cose inserite nel mondo. Devo qui richiamare Deleuze? Penso di si quando
sostiene che la teoria del senso non è legata in alcun modo a qualcosa di
eterno o al suo radicamento nella profondità della coscienza.
Domanda: «Effetto di
superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze il
senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma è
un evento, sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di
frammento in rovina, ed è il prodotto di una «assenza» costituita (non
originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce
il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei
Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio
elegiaco o la poesia che si aggrappa agli «oggetti» come un naufrago al
salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello
«Spirito», non c’è nessuna «utopia» che ci riscatti dal «quotidiano» o dal
viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che
si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffè, un aperitivo e un
chinotto, o in un improbabile bosco con tanto di margherite e vasi di geranio
ben accuditi). La tua poesia non sfugge a questa problematica, ci sta dentro
come nel suo elemento marino. Anzi, trae da questa situazione la propria forza
di vitalità e la propria giustificazione di esistere. Sbaglio o ho colto nel
segno?
Risposta: Deleuze ha cercato di
creare un pensiero su filosofia e letteratura, positivismo e psicoanalisi,
focalizzando l’attenzione sul senso del pensare, come risulta nel suo volume:
Logica del senso. Il pensiero è l’atto dell’indagare come in altri filosofi:
Nietzsche, Bergson, Kant, Spinoza, Hume e Leibniz. Estraneo alla metafisica,
Deleuze approda ad una distinzione del pensiero per superare l’opposizione fra
due contrasti come può essere ad esempio la staticità e il movimento.
Quindi nessun approccio al
concetto di eternità e al suo radicamento nelle viscere della coscienza e dell’Idealismo.
Secondo Deleuze, è l’imprevedibilità del caso a generare il senso che non si
produce dall’azione di un soggetto. È libero di agire non essendo legato a
nessun vincolo. Si genera da sé, riducendo altezze e profondità, finito e infinito, in un dualismo sottoposto
sempre alla verifica dell’inconscio. Il “senso” come tu dici, Giorgio, “è un evento in forma di
“frammento in rovina”, che può adattarsi a tutti i fenomeni esterni, privo di
approdi salvifici per la poesia nel dissolvimento dell’IO e di tutti i
Fondamenti, senza alcuna possibilità di salvezza a ”portata dello “Spirito”,
per uscire dal calendario giornaliero e dalla marginalità dell’essere qui e
ora, essendo noi stessi frammenti di un Principio (Vita) e del suo controsenso,
rappresentato dalla (Morte).Tranne le argomentazioni religiose, è evidente che
la filosofia del razionalismo ateo non riesca a dare un “Centro” se non quello
di un “polo” negativo, trasformando l’Essere in un non Essere, secondo il
pensiero di Heidegger, così come la poesia che, una volta dissacrati i costumi
dell’estetica, si minimalizza, proiettandosi nel passato e nel presente con i
suoi frammenti in rovina. Ciò porta il poeta a rimanere in una camera buia, in
attesa, che tornino senso, forma e contenuti: ossia la luce. (ma poi mi chiedo,
verrà mai questo bagliore?). Alla domanda se la mia poesia è in sintonia con
ciò che hai esposto, o ipotizzato a chiusura della tua intervista, ti invito a
considerare questa mia similitudine quando paragono la poesia a un cristallo dai
molteplici riflessi, che hai saputo captare con profondo spirito di
osservazione, segno evidente che sottoponi a giusta critica ciò che leggi e
senza tariffario. Ringraziandoti per l’attenzione e la gentile ospitalità, ti
esprimo i miei più cordiali saluti e auguri di buon lavoro. Mario M. Gabriele.
1
Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 p. 114
2
Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21
Dall'Ombra delle parole, aprile 2016
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