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martedì 15 giugno 2010

GIOSE RIMANELLI

Quando si parla di poeti e scrittori esclusi o dimenticati dai circuiti editoriali più importanti, si vuole solo evidenziare uno status di emarginazione culturale che colpisce sia i poeti autoctoni sia quelli residenti all’estero. A ciò si aggiunga la crisi della critica che, dopo l’avvento del poststrutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste e neonichiliste che annientano la testualità letteraria nella sua specificità (1) ha finito col rinunciare al suo ruolo di analisi e informazione, lasciando alle imprese editoriali il giudizio di valore, non sempre attinente alla realtà storica e alle proporzioni poetiche. Più di frattura, credo si debba parlare di divisività, (neologismo che prendo a prestito dallo storico Luciano Cafagna in un articolo di Giuliano Gallo: Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia, apparso su Il Corriere della sera, 2 luglio 2004, pag. 31), che non è nata oggi ma che ci portiamo dietro dall’inizio della nostra storia di Paese apparentemente unito: E’,insomma, quello delle case editrici lo statuto del quarto potere, difficile da accettare da chi fa poesia di ricerca e innovazione. Osservando il panorama editoriale contemporaneo, ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o, addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in case editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. (2)
Non sono pochi i poeti all’estero che non hanno tagliato i ponti con la”madre patria” e che si pongono, rispetto a questa, in posizione dialettica e conflittuale, in vista di un arricchimento plurilinguistico trasgressivo e contraddittorio .(3)
Uno dei casi letterari più emblematici e controversi,che rispecchia la situazione sopra descritta, è quello di Giose Rimanelli, uno scrittore che,sradicato dalla realtà molisana e di fronte ai guasti provocati da una società fortemente industrializzata, come quella americana, nella quale egli vive e opera ormai da molti anni, non esita a denunciarne i dati negativi, con un impegno che ci ricorda quello del gruppo degli angry young men e, più di recente, dei poeti della Beat Generation di cui hanno fatto parte Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs, e Gregory Corso, ma è anche un intellettuale di talento a cui la critica di casa nostra ha riservato un imperdonabile silenzio, come ha fatto rilevare Giacinto Spagnoletti nella sua “Storia della letteratura italiana”-Newton Comptom 1994, pag.856-857,- riferendosi, in particolare, al romanzo “Tiro al piccione” della prima edizione mondadoriana del 53 e della riedizione einaudiana del 92. Ma qui ci interessa, la poesia di Rimanelli scritta in forma di Cantica tra il 1964 e il 1993, attraverso la quale egli tenta di decifrare i segni e i segnali di culture diverse in un mondo visto con gli occhi di ”Alien”.E’ un documento etico-ideologico e linguistico-formale tra i più significativi, che globalizza l’esistente in un canto epico di rara tenuta ed efficacia, unitario nel suo - continuum- poetico dove non mancano gli agganci memoriali con il “crudo Molise”, che riemerge come un fossile nei vari momenti di recupero del passato. La verità è che Rimanelli è rimasto legato alle sue radici molisane e al concetto di una “Meridionalità” che, per sua ammissione,va estesa anche ai poeti non residenti in Italia, ”che hanno però cantato un’unica e comunale pena, un’unica e regionale gioia, unisona e corale nell’antropologica ansia di ritrovare il germe, le radici”, così come dichiarato nella “Rivista di Studi Italiani”, dic. 86 giugno 87, pp.141-142, e riportato da Luigi Fontanella su “Misure Critiche” nn. 68-69 pag.132, anno 1988, e che sta pure a dimostrare come il dato geospirituale e il trapianto dell’io si slarghino su piani territoriali assai diversi tra loro, per un nuovo conflitto dicotomico città-STATES e Regione-MONDO, verificabili nel volume dal titolo: Alien Cantica An American Journey -1964-1993-. edito e tradotto da Luigi Bonaffini - New York -Peter Lang , 1995, con un saggio critico di Alberto Granese e una Postfazione di Anthony Burgess, oltre ad una nota dell’Autore, che è una ministoria intorno ad un sofferto recupero di un magro libro di versi scritti in slangy American, dove emerge la sua condizione di “Alien” in un paese-pianeta nel quale agisce un immaginario personaggio di nome Bambolino o Sonny Boy, ovvero l’altro di sé del poeta che finisce con l’essere il soggetto principale di questa poesia chiamato a misurarsi con l’oggettività delle cose, in uno sdoppiamento di ruolo, di sentimenti e di situazioni varie, anche se a condurre il gioco (e che splendido gioco!) è il poeta stesso con la sua voce, paterna e premurosa, nel monologo-dialogo e scissione dell’io parlante:

XLIV (2^ parte)

Barbugli eretto allo specchio oh Bambolino mio diletto
me stesso sei là che m’aspetti? Questa vita è la mia vita
così sana così piena di carezze di sorprese mi raffina
mi trascina senza fine nella vita questa vita la mia vita
un po’ fragile un po’ facile ora tenera ora tremula ora
petalo ora palpebra ora palpito ora porpora ora turbine
ora cardine ora pettine ora platino ora viscere ora redine
ora polvere ora lampada questa vita la mia vita così
strana così piena può stordirmi può fermarsi può chiamarmi
dove crede nei crepacci nella neve sopra il sole le bufere
questa vita la mia vita è l’amante d’ogni sera m’idoleggia
mi raggira e mi abbraccia lei mi crede questa vita
la mia vita è la sola che possiede: tu non l’ami? Eppure
Bambolino lei ti veglia: è un’ardente lampada di fede.

Se è vero che “ogni emigrazione è una lacerazione”, come ha scritto Rimanelli nell’Elogio per mio padre”, capitolo 2 del suo recente: “Dirige me Domine, Deus Meus”, riportato da Giovanni Tesio nella Postfazione al volume di poesie in dialetto di Rimanelli dal titolo: I RASCENIJE, Edizioni MobyDick-Cooperativa Tratti-Faenza-Giugno 1966, allora è anche vero che i materiali etnici ritrovati in questo viaggio americano, in particolare: qualche zolla del Molise, alcune gocce d’olio di frantoio e l’immancabile rosolio di casa, sono da considerare veri e propri legamenti territoriali dai quali ripartire per capire le utopie, i sogni, gli allarmi psicosomatici e psiconirici come quelli dichiarati a pag.138 , Cantica LII di “Alien “

per Joseph Tusiani
L’aroma giunge a sbuffi dalle scale
angolo di letto, focolare.

Children growing guns in band,
scrisse Ralph sul giornale.
E corrono i vicoli, le strade,
uccidono se stessi, i loro pari.
In fiamme sono i villaggi
in questa Merica di sogno dei miei avi,
tutto è possibile niente è strano.

Io soltanto. E spesso, solo solo al buio,
mi scruto se ho il cancro, mi siedo
accanto al letto o sul divano, di profilo:
penso lontano, oltre il mare oltre i fuochi
i giochi del bimbo che ero, il suo esilio
designato. Niente è più nuovo,
eccetto domani, appeso a un filo.

Da qui il desiderio di ricerca di un paese innocente che rivive nella indimenticabile “Kalena”, dove approdare e ri(nascere) fuori dall’inferno metropolitano, prima che ”l’asma” ritorni pag. 12-, e metta in circolo il meccanismo del disagio esistenziale trasferito su Sonny Boy il quale svolge il ruolo di “passenger”, ora abbagliato dalle insegne al neon delle notti tiepide di Chicago, ora fermo vicino ai fiumi che di reale hanno solo i simboli della civiltà dei consumi, con l’Hudson macchiato d’olio e il Minnesota River, diventato un canale di fango. E’ un viaggio che mette in luce violenza e degrado, paesaggi primordiali come quello del vertiginoso Grand Canyon e visioni di azzurri nerastri come i cieli di Santa Barbara e Berkeley, tra fumo e caos, in una fitta topografia di luoghi come il “ lercio King Midas Saloon”(pag.12), o l’O.K. Corral del Montana (pag.58),tra città e quartieri che bruciano, come Los Angeles e il Bronx (pag.140) e “ vichi camionali “ dove / ragazzi non più teneri crescono armi nelle mani /....” / giustiziano se stessi i loro pari “ / ( LII Ter-pag.142 ) fino al reportage di alcuni eventi di cronaca nera, come quelli sulla “setta di cultisti del Branch Davidians, rinserrati nel loro Ranch Apocalypse, cremati vivi nelle fiamme e nel fuoco delle loro baracche di legna “ ”con quelle loro sofisticate armi, quei mirini pronti, innescati / e cibo, provviste da durare fino alla fine del mondo” : il tutto come in un rapporto informativo intorno alle cose e ai fatti quotidiani , dove il punto più alto è costituito dalle storie narrate ed assemblate in una interazione plurilinguistica, che mette allo scoperto civiltà letterarie diverse, fino al recupero paleografico del “verbum” latino, all’interno di qualche tema squisitamente metafisico (Cantica XVIII pag.48).
Poesia questa di “Alien Cantica An American Journey”, che attraversa il mondo con ampie graffiature chiaroscurali i cui segni si saldano e si fondono all’interno di uno sperimentalismo, che mette in evidenza un lavoro molto controllato, raramente di laboratorio o di pratica oltranzista, già iniziato con “Carmina Blabla”, Rebellato, Padova, 1967 e Jazzymood (1999), fino a “ Alien Cantica An American Journey “, che si differenzia per i diversi tracciati e segnali semiologici e psicoespressivi attraverso i quali, Giose Rimanelli, recuperando gran parte della Neoavanguardia italiana e passando per la Beat Generation, realizza una personalissima poetica nell’ampio panorama della cultura contemporanea euroamericana .
Di questi esiti, Egli ne dà ampia documentazione attraverso il mèlange linguistico, che si colloca tra mondo esterno e mondo interno; non a caso il viaggio di Bambolino o Sonny Boy è uno smarrirsi continuo nella società contemporanea che vive in un Inferno dantesco rivisitato in chiave moderna attraverso Storie o Cantiche, che diventano rappresentazione crudele e, a volte, spietata di tutto ciò che sta davanti agli occhi, per una denuncia anche critica del quotidiano negativo.
“Alien Cantica An American Journey” resta un documento esemplare, unico nella sua eccezionalità poetica ; un vero e proprio “poème en prose” come autentico messaggio lasciato dal poeta nel suo lungo girovagare per l’America. Ma è anche un appuntamento retrospettivo, con ampi agganci mentali agli affetti familiari, che rivivono in pagine “molisane” messe in “Appendice” e nel pieno cuore della “Cantica”, all’interno di un’atmosfera di ricordi e di gestualità indimenticabili, con una pluriscrittura psicanalitica che avrebbe certamente fatto piacere a Jacques Lacan.

Oh va’ via da quel lercio King Midas Saloon sull’autostrada
con le sue sguerce slabbrate minifucks fuggite di casa
e Reverend Spoon pastore di condoms e dildos che sparla
con strazio di AIDS e doomsday nel suo colmo bicchiere.
Ma questo a parte, tu sei stufo di birra di sbirri.
E adesso ascoltami bene, Bambolino: scivola intatto
nello spacco di scalpo che ancor hai un rock o un rap,
metti un piede avanti a quell’altro e se la porta ti sbatte
alla schiena cacciandoti fuori non battere ciglio: hai solo
dopo tutto lasciato mammolette, primroses di sfatti giacigli.

Impala la notte: non vi trovi sbadigli ma maglie di stelle,
e non sbiancare d’orrore nell’improvviso tremore (terrore?)
che ti scaglia fuor del paniere per quel sadico muso di rossa
Corvette che di balzo sbuca dal buio e quasi t’annusa
rincorsa com’è da cops e strida e lampi di corte mitraglie.

Questa è la tiepida notte di Chicago, anni dopo Al Capone.
Non vedi quelle luci blugialle blurosa di pelle carnosa
che abbagliano tagliano visi risate di gente ch’esplode
su strade balconi, e quelle cosce muschiose che sfrusciano
ansiose d’amore? Effluvio di vita di morte nel cuore.
Letti profondi, sensuali guanciali un po’ lustri di bava
palustre aggrumata come quel tempo, ad Amsterdam, in vuote
sere di bile cercando Van Gogh il quartiere degli Albatros
dei mariners affogando sonno libidine nell’acqua lustrale
dei canali per paura che addosso ti crollasse il mattino.

Su su, Bambolino: guarda quel mambo di gambe quelle mani
quei culi quell’oceano ondoso di anche di curve con labili
sibili passandoti accanto, e osserva mano a mano la mista
conserva di coppie con mano nella mano e le altre, spogliate
forse di affetti, annoiate e distratte, domandagli: come mai?

Ma subito il ritmo s’impiglia, il rap è finito ed un frale
vento di mare, perfido australe, ora sale dal lago si mette
ad urlare, ferito animale, nelle valli nevose della tua mente.
Forme d’ombre remote, di ore alterne, ora ruzzolano lente
dalle lanterne del Parco. E’ giorno di nuovo, e l’asma ritorna.

Altre occasioni poetiche Rimanelli le ha formalizzate nel tempo con editori italiani; ricordiamo a tal proposito, il volumetto pubblicato da Caramanica nel 1998, con il titolo Sonetti per Joseph,, fino alla recente plaquette Terzine estorte dal silenzio, Enne, 2004, dell’editore molisano Enzo Nocera, a parte alcuni volumi di narrativa pubblicati presso l’editore Cosmo Iannone di Isernia. Chi ha seguito da vicino il percorso letterario di Giose Rimanelli non può definire questo scrittore e poeta un monolinguista, in quanto sono tanti i referenti a livello di significante assorbiti nell’ambito di più civiltà letterarie, a cominciare dal classicismo medioevale al neorealismo, dalla Neoavanguardia, alla letteratura angloamericana di Charles Olson ed Herman Melville, da Samuel Beckett, a Pound, da Walt Whitman a Ruben Dario, con qualche curiosità metafisica verso George Poulet, come rivisitazione e riappropriazione temporale dei suoi cinque anni trascorsi nel seminario di Ascoli Satriano in Puglia, che gli consentirono una intensa acculturazione dentro un orizzonte occupato totalmente dal medioevo, dalla patristica ai mistici, dalla letteratura religiosa controriformista ai quaresimali di Padre Semeria..(4)
Ma l’elenco delle frequentazioni letterarie è soltanto sbrigativo, e non rende giustizia delle ampie letture dalle quali Rimanelli ha limato i suoi arnesi, per un mestiere, quello dello scrittore, aperto a
tutto campo. Il suo dinamismo linguistico non è mai conclusivo: da qui l’ansia di rimescolare le carte in tavola, per rimettere tutto in gioco e riscoprire la realtà perché il materiale dell’arte, parafrasando Bradley, non è mai lo stesso. Il giudizio estetico di Bradley, che rileviamo,casualmente, da una lettura sul concetto relativo al metodo di analisi della realtà, proprio di questo esponente del neohegelismo inglese, autore, tra l’altro dell’opera Appearence and Reality, Londra, 1893, ci porta indirettamente a ciò che ha scritto Anthony Burgess nella Postfazione al volume “Alien Cantica” e che si collega, per certi aspetti, al pensiero di Bradley: Giose Rimanelli è uno di quei notevoli scrittori che come Joseph Conrad e Jerry Peterkiewicz e, tra i suoi conterranei, Niccolò Tucci, è passato all’inglese dalla sua prima lingua proponendosi di ringiovanirlo in maniera che pochi scrittori, benedetti e appesantiti dall’inglese come loro lingua primaria, hanno potuto fare.In un certo senso ogni scrittore nutre il desiderio di creare non solo opere d’arte nuove, fresche ed originali, ma anche ricreare la medianità del linguaggio. La tesi di Bradley e l’enunciato di Burgess tornano a conforto del nostro giudizio per cui il linguaggio di Rimanelli è una riconduzione agli stadi di una lingua-forma, inconsciamente e volutamente archetipa e inedita, che lo fa apparire, di volta in volta, il maudit di sempre, il camminante sotto cieli diversi, barbaro e angelo insieme, malinconico e Bambolino nei momenti di abbandono o di rivisitazione del passato. La ricerca paleoneometamorfica della parola rimane per Rimanelli autentico materiale dell’arte riproposto sempre come rapporto/confronto con sé stesso e la realtà. La spinta esponenziale del linguaggio fa sì che si apra a ventaglio la maggior parte del dizionarietto dei termini critici (stilistico-linguistici) facendoli confluire e oggettivare come materiale dell’anima. Ci riferiamo al dolore-esilio-rancore, che mettono allo scoperto un insieme di informazioni collegate fra loro come unità centrale. Qui aggiungiamo anche altri aspetti come per esempio l’ortografia psicofonetica, il reiterato uso e abuso della parola inventata o recuperata, le affinità ideologiche con i gruppi culturali più avanzati, che costituiscono solo una pagina dell’esperienza letteraria di Rimanelli, il quale non dimentica né la tradizione né la seduzione linguistica autre, ma neanche l’amore per la sua terra, che rivive in tutte le sue opere di narrativa e di poesia. Non vi è dubbio che a rimarcare il significante sia sempre l’aggancio ad una situazione psicologica tesa a individuare in due patrie, lontane e vicine: l’America e il Molise, due territori di storia e di memoria, di sogno e delusione. Non a caso la silloge Sonetti per Josseph diventa un transito poetico fatto di pensosa meditazione e rievocazione della vita, anche se a prevalere è la religione della morte che entra nelle pieghe spirituali del poeta e ne fa un cantore di calda ironia e fredda lucidità tra presente e passato, mito e realtà: una poesia che accomuna dialetto e lingua, storia e tradizione, innovazione e sperimentalismo, per spaziare in quella zona misteriosa dalla quale è difficile captarne le origini, come quelle che hanno dato vita alla miniplaquette, Terzine estorte dal silenzio, tutte sostenute dal gioco della parola e dall’ironia, dove vanno a collocarsi inserti di saggezza della quotidianità dell’essere, tra sound jazzistico, e un tenero amore per il creato. Ma chi meglio di Rimanelli può descrivere la sua poetica quando afferma: Solo chi è lontano conosce la pena di non essere vicino. E ciò si applica all’amore. L’amore può essere carnale o mistico, amicizia o intellettuale conoscenza, partecipazione in progetti altruistici o richiamo di aiuto. E l’amore si mostra specie quando è mostrato. Il mio amore per il Molise ha sapore di fuga e ritorno, smemoratezza e riconciliazione. So che affonda nella terra, nei suoi fiumi, nel sarcasmo che mi saluta, nel sorriso che m’invade, la stretta di mano sul crocevia. Il mio amore è il fanciullo che è partito ed è l’uomo che ha inventato il mito Molise per potersi risciacquare nei suoi fiumi. Con questa password d’accesso diventa facile per il lettore introdursi nelle opere di questo scrittore, che anche dopo la lacerazione di Ground Zero, rivive la sua storia umana e letteraria tra l’America e il Molise, con l’animo e l’avventura di un viajero en el mundo.

Mario M. Gabriele
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Note
1- Romano Luperini, Breviario di critica, Guida,pag.59.
2- Da una intervista di Valeria Merola ad Alfonso Berardinelli, riportata su sito web, in occasione della ristampa de il Pubblico della poesia
3- Nota di copertina dell’editore Caramanica nella collana di poesia I Transatlantici
4- Sebastiano Martelli



Giose Rimanelli è nato a Casacalenda, (Molise), il 28 novembre 1925. Raggiunse notorietà internazionale con alcuni suoi romanzi e narrative di viaggi degli anni Cinquanta: Tiro al piccione (1953,1991), Peccato originale (1954), Biglietto di terza (1958, 1999), Una posizione sociale (1959), ristampata col titolo La stanza grande (1996). All’attività narrativa ha unito quella della poesia, teatro, giornalismo e critica letteraria, in italiano e in inglese. Di particolare interesse sono le cronache letterarie Il mestiere del furbo (1959), le commedie Tè in Casa Ricasso (1961), Il corno francese (1962), il balletto Lares (1962), l’antologia critica Modern Canadian Stories (1966), i saggi sociali Tragica America (1968), L’antologia critica Italian Literature: Roots & Branches (1976), il romanzo Graffiti (1977), le minimemorie: Molise Molise (1979), i racconti Il tempo nascosto tra le righe (1986), il romanzo inglese: Benedetta in Guysterland (1993), a cui venne attribuito l’American Book Award (1994), la memoria antropologica Dirige me Domine, Deus Meus (1996), il romanzo ugualmente in inglese Accademia (1997), la memoria dell’emigrazione Familia ( 2000), la testimonianza politica Discorso con l’altro (2000), il romanzo Il viaggio (2003). Per quanto riguarda la poesia, Giose si è occupato di poeti latini e provenzali, dai quali ha desunto voce propria con le liriche di Carmina blabla (1967), Monaci d’amore medievali (1967), Poems Make Pictures Pictures Make Poems, (1971), Arcano (1990), il canzoniere in dialetto molisano Moliseide (1990, 1992), Alien Cantica (1995), I Rascenije (1996), Moliseide and Other Poems (1998), volume che raccoglie tutte le poesie in dialetto molisano, edite e inedite. Jazzymood (1999) in italiano, dialetto molisano e in inglese, Gioco d’amore Amore del gioco (2002), poesia provenzale e moderna in dialetto molisano e lingua, Versi persi per S (2004). In collaborazione con Luigi Fontanella, Giose ha pubblicato Da G a G: 100 Son(n)netti (1996), e con Achille Serrao i sonetti di Viamerica/Gli occhi (1999). E’ Professore emerito d’Italiano e Letteratura Comparata all’Università dello Stato di New York )SUNY — Albany. Vive tra Lowell, Massachusetts, e Pompano Beach, Florida. I suoi viaggi in Italia sono frequenti.

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