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martedì 15 giugno 2010

La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea

Terza parte


I LUOGHI DELLA MEMORIA

La questione dell’assenza rimane il tema di fondo di molti documenti poetici tra l’elegiaco e il poemetto colloquiale sulla spinta di un umanesimo esistenzialistico e di un imperante illuminismo.
La testimonianza della vita passata è, se non l’unico, certamente il più importante tra i messaggi privati come dimensione del qui e ora , del dopo e oltre.
L’accesso a un mondo imperscrutabile è soltanto ipotetico, a volte di tipo messianico o medianico e le risposte non sempre riescono a dare significative aperture al quesito esistenziale, tanto è vero che le dichiarazioni del vissuto e il senso dello smarrimento convergono nell’unica direzione possibile : quella della “religiosità” della morte vista come evento eccezionale che viene a rimettere tutto in gioco e ad affermare il suo dominio sul mondo.
L’universo metalinguistico, psichico, teistico, filosofico e quant’altro esistente e circoscrivibile nella sfera dell’illuminismo contemporaneo si confrontano opponendosi l’uno all’altro dando alla fine alcune indicazioni che suggeriscono verità riconducibili a scienza e fede.
La consapevolezza del limite temporale di questa vita richiama tutta una vasta letteratura intorno al tema della morte dove la pietas assume un ruolo egemone e unifica dolore e sentimento, filtrando dal passato eventi e storie che restano alla fine gli unici aspetti peculiari di un momento inevitabile ed eccezional,e che richiama attorno a sé fatti e situazioni di calda commozione attraverso un parlare sommesso, trepido, fortemente emozionale.
In quest’ambito rientrano gli esiti poetici di Francesco De Palma che dà l’esatta misura di una dimensione temporale della vita dove la ferita del dolore si apre a squarci di calda rivisitazione e commento del passato come nei testi “19 Aprile 1972” e” Croce di Campagna”:


19 Aprile 1972

“Sono stanco “ dicevi. Una stanchezza
infinita, segnata dentro l’orbite
degli occhi, ancora vivi nel tuo volto
già distrutto dal male. “Sono stanco”.
“Sai, certe volte, alla finestra….” Al mio
trasalimento soggiungesti in fretta:
“Non tenere, resisto”. La tua mano
ormai tutt’ossa stringeva la mano
che cercava d’infondere al tuo sangue
di fratello minore condannato
il mio vigore anziano ancora valido.
Ma riuscivo soltanto ad intonare
al tuo strazio di carne questo strazio
d’anima torta fino alle radici.
Ora nel volto immobile — retratte
le labbra sopra i denti, il mento aguzzo —

la stanchezza infinita si fa pace.
Dinanzi a te scontate, ormai, pagate
fino all’ultimo spicciolo le vuote
speranze della terra e questa assurda
legge di vita che condanna al mondo
comprendo finalmente, dal profondo
dell’esistenza, il senso della morte.

Della tua morte. Tu, lontano ormai,
libero, e santo di dolore, provi
di me, rimasto indietro in quest’inferno,
pietà gentile, tenera.
E questa terra è ancora il mio calvario.


CROCE DI CAMPAGNA

Ecco, la croce è questa.
Piantata or è molti anni sul tratturo deserto
apre le braccia che l’inverno scrosta.
Quante nevi corrosero la pietra che la regge,
quanti uccelli beccarono al suo piede.

Tu, croce derelitta,
m’insegnasti una legge
che non muta, una fede
che non muore, confitta
nel vivo strazio del mio cuore

Passano i tempi e le bufere,
passò colui che ti piantò: fra breve
(quando non so: che importa?)
anche il mio cuore.

Il gelo di questa sera scrolla i rami scheletriti,
l’erba è fradicia di pioggia sulle fosse,
lontano dalle memorie, lontano dai vivi
i morti si disfano sotto le foglie rosse.

Anche Helle Busacca collocandosi su questa medesima lunghezza d’onda riesce a fissare con notevole intensità il senso della solitudine e dello smarrimento come momenti di “resoconto” esistenziale nel quale passato e presente si fondono, mirabilmente, dando la percezione di qualcosa che è stato e che ora non è più:

TV
(revival anni 40)
Come se n’è andata la nostra vita,
aldo, perduta, sprecata,
eppure sempre meravigliosa
anni “40, “40),
quando era giovane nostro padre
quando eravamo ragazzi noi,
e siamo già nell’ottantacinque,
io qui nel risucchio, tu chi sa dove.

Più sostenuto e sommessamente dialogico è il discorso poetico di Margherita Guidacci che realizza con la sua dialettica autobiografica un intenso canovaccio spirituale dove pessimismo e senso misterioso delle cose (già analizzati in una sua raccolta dal titolo “Il vuoto e le orme”), rimangono gli unici elementi di analisi e di giustificazione di una esperienza lirica al limite della delusione-angoscia.

COME SONO ARRENDEVOLI I MORTI

Come sono arrendevoli i morti.
Da un solo tenero gesto, perduto
nel deserto,
ci lasciano creare un amoroso giardino.

Docili indossano ogni veste
di cui li mascheri un’astuta memoria,
sorridono ubbidienti
inchinandosi lievi alle nostre illusioni,

accettano la parte che attribuiamo loro
per una reinvenzione del passato,
ed a tutto consentono e mai non si ribellano:
indescrivibile la loro calma!

O forse è solo una gran compassione
per noi e le nostre bugie dolorose.
Anche per loro nessun disamore
può reggere alla prova della morte.

A cogliere il vissuto come momento circoscritto al limite temporale di tutto il genere umano con riferimenti anche metafisici che travalicano l’inquietante aspetto della realtà, è la poesia di Ferruccio Mazzariol, che, con “ lievitazioni drammatiche sulla meditazione del destino ultimo dell’uomo, riesce a conservare il delizioso candore delle immagini che germinano come una moderna “laus creaturarum”

I
Su queste mappe,
segnate da acerrimi sentieri montanari,
correrà la morte
sino al paese trentino di Sagron-Mis.

Correrà, lampeggiando,
senza stuolo di consorelle.
Correrà da sola il palio.
Insieme la vedremo,
di quando in quando
portare alla bocca un pugno di lamponi blu,
e masticarli lentamente.

II

Le mappe sono magnifiche,
senza i nostri fortini a ostruire
la corsa.
Neanche una buca
inceppa la dirittura finale
della mulattiera.

I ponti ad arco sono scorrevoli.

La morte correrà
con occhi grossi di lanterna
l’ultimo tratto, spargendo
dal suo cesto mirtilli neri
e acqua benedetta.


ANGELO FERRANTE

Più di un medaglione esistenziale sono le ”raffigurazioni” sul caro estinto di Angelo Ferrante che, recuperando i frammenti della memoria, tratteggia nel suo “Album”, eventi, gestualità e colori di un interno domestico nel quale la storia si accentra sulla figura paterna esaltando valori e sentimenti difficilmente attaccabili dal tempo:

da: ”FRAMMENTO”

Questa pausa nella vecchia casa paterna il rubinetto
non funziona come al solito non credo che gli
possa
attribuire tutto l’umido che impregna le mura.
E non odo presenze di lui se non del suo odore
di tabacco quando mi guardava correre
nella strada gli si inumidivano gli occhi.

Da ”ALBUM”

I
i riflessi del sole nel bicchiere di vino
un incendio di pampani contro l’arco romano
le statue decapitate ancora un soffio nelle
labbra di pietra
tu incantato gli occhi rossi la voce accesa dai ricordi
il racconto al vecchio contadino erede di Tiberio e Druso
la mano tagliuzzata le dita gonfie e l’unghie nere di terra
nella pace del tardo pomeriggio d’ottobre
io ti ascolto ascolto la tua poesia le favole di un tempo
sorridendo in volo sui latrati dei cani giro sereno
il volto e gli occhi alle colonne

II
Il tuo volto di cera come unto di sudore freddo
l’infrenabile pianto agosto è afoso e un lampo
è stata la mia corsa quasi alla stessa ora
una sera d’autunno aspettavi il ritorno il mio
la tua coppola zuppa di pioggia ineludibile
ed io che non capivo

III
mai il senso preciso la misura esatta
del perché di tutto nel tuo sguardo
il gesto della tua mano da lontano
quando mi vedevi stroncato dalla pena
non abbozzavi un grido ti appoggiavi al bastone
disegnavi la bocca alle campane e la voce

IV
sulla finestra la facciata ridipinta per tuo
esclusivo volere tu aspetti affacciato alla finestra
il mio arrivo ti spinge a ritirarti vuoi prepararmi
un’accoglienza diversa così all’incontro
mi abbracci come se non mi vedessi da un secolo
e piangi come al solito

V
nel pomeriggio di luglio la piazza vibra solo dell’acqua
lo zampillo festoso nella vasca e un coagulo di odori
tra il fritto e la vaniglia
discutiamo di lui così diverso che non ci assomiglia
tra lui (convinciti) è il presente e noi il passato
diventato niente

VI
è luglio in una nuvola bionda traccio segmenti
segnalazioni significazioni tu da lontano mi vedi
cambi strada sai che solo questo esercizio mi rimane.


Non abbiamo più tempo per parlarci
io ho i miei impegni di lavoro sempre più pressanti
mai un’evasione, mai un momento di abbandono
nella nostra casa e nell’orto gonfio di ortiche
tu del resto da quel 4 di agosto
non ti sei fatto più vivo
dopo la curva appena dopo quella che tu vedevi
come un palco affacciato sul paese
mi giunge il brivido del viale senza ghiaia
l’ultimo che hai percorso e ogni volta mi manca
come un ritmo o un fiato e un coccio di questa
mia vita abbandonato.


Veri e propri epitaffi sono i versi di Vincenzo Rossi circoscritti in un rapporto dialettico e memoriale sul significato della vita e della morte, all’interno di una atmosfera che ci ricorda Spoon River coi suoi momenti di affettuosa rivisitazione del tempo passato e di “confessioni” al limite della saggezza e della pietà umana.

EPITAFFI

Arresta i tuoi passi e guarda
come la possente gioventù
alzava la mia densa chioma
come questo vasto petto
era diga contro la tristezza

V
Perché mi sgolai
con la bava al labbro
mostrando denti di mastino
e veloci occhi di brace
senza degnare di uno sguardo
questa gelida tomba
cuore pellegrino non passare

IX
Grato ti sono
se nel pallido sole di novembre
ti ha guidato il suono di lenta campana
fin dove io tuo fratello
che brillò in sguardi di fuoco
e feroce avidità sulle cose
sono consumato dal silenzio.

X
O vivo che passi
davanti a questa pietra
guarda le secche braccia
della mia croce
molto io non ti chiedo
uno sguardo
un attimo soltanto
del tuo tempo vivo

CARLO FELICE COLUCCI

Chi approfondisce il discorso sul tema dell’esistenza è certamente Carlo Felice Colucci che, dalla propria esperienza di medico-scrittore, trae le occasioni migliori per radiografare la realtà mettendone in evidenza i segni del male con una anamnesi del Caso e della Storia .attraverso una indagine spietata sul corpus dell’esistenza dove la visione della morte è mascherata o mitigata da soluzioni consolatorie e ingannevoli adottate come “placebo”.
Tutto questo Colucci lo drammatizza con intelligente ironia, in mezzo al “respiro aspro dei morti”, tra ascultazioni di “sistoli e diastoli” e cuori d’infartuati e anginosi, tra mille domande senza risposte: “ chi siamo, dove, perché / aprire gli occhi e chiuderli per sempre / dai nobili ai manovali ai bari / mai fu trovato il corpo, attento, / ma tutti eguali e segnati / la catena degli ossicini i denti / sense nonsense Nord Sud, / solo un ‘incredibile dose / di ricordi nelle pause buie / un filo di fede in extremis / dopo aver chiesto l’ora esatta /. O in odore di santità/ il Signore ha chiamato/ e suiblimando si crepa/ alleluia/.
Da qui lo sforzo nel cercare il movente oscuro dell’esistenza attraverso la lettura dei segni della vita le cui pagine sanno più di epitaffi generali che di speranza..
Questo ”check-up” poetico e scientifico trova nelle “bianche leucosi” una delle cause naturali della fine del “corpo” visto in tutta la sua imperfezione e fragilità , anche se il poeta stesso sa di non poter “rispondere a tutto”, accentuando in “Notturno Cittadino” quella sua dichiarata e allarmante resa di fronte all’assenza di “altri curabili indizi” e andare oltre il lapidario “siamo non siamo” di “Memoria e fuga” , in attesa del “ritorno degli ostaggi”, come disperato e inutile tentativo di riappropriarsi delle illusioni bruciate dalla vita nei” campi di sterminio”.
Le anamnesi sulla realtà diventano alla fine, veri e propri consuntivi di vita che si sfiammano davanti alle pasque di ceneri ravvivate di soffusa luce , con i “ lumini avanti ai cari estinti” , a imperitura memoria del proprio — pater- o — mite patriarca-

EPILOGO

E com’era buia
la tua demenza
pater
com’era lunga impenetrabile
da un buco di memoria
il mondo in un girello
pigra storia e ferma
a un lampione di sapienza
centenaria,
bella di notte
così finiva
la riffa dei longevi
irriducibili
così barando e l’agonia,
ma che potevamo darti
noi vuoti dentro ormai
a guardia d’un sepolcro
che poteva dire
il sangue marcio delle quarantene?
Bandiera gialla ai vaporetti
all’innocenza amuleto vago
d’una età sepolta
e per fiore la rosa dei venti,
le saghe le saghe, invocavano,
variamente crudeli
dalla strada,
musica in piazza
banditore d’ex.

SINFONIA IN BIANCO E CROCE ROSSA

Dal fondo d’un lettuccio d’ospedale
di qua dal bianco intatto
non venni a chiamar giusti,
a luoghi un po’ stranieri guardiamo
dall’unica finestra
a un verde di pinete la vita
ma non si tocca non s’annusa non si può
se giaci ed alla terra aggrappato
per effimera vena per flebo per os
per la pelle per colpa e nessuno,
è presto per sapere dice il dottore
e nulla da toccare oltre il corpo oltre
nessuna breve nuova per crisi per lisi
nessuno che ci sveli se e al dolore
midriatiche pupille se
fissare in viso il male il tuo il mio
un male più di passo che altro
oppure, orrore,
stanziale e un po’ crudele bianchiccio
ribelle ai domatori ai
dottori al grande caso
col forcipe col bisturi l’ago
nessuno poi che turbi dal fondale
i candidi laccati villaggi
e molto bianco intorno con croce
le rosse croci in vena in flebo
scialbate le pareti se duole
con l’ago il silenzio per os
in maschera in guanti la scienza
l’avara mia scienza tesoro
di là dal gran ponte
guerrieri in attesa le febbri ignote
ragazzo che andava per comete
più feste nel cielo al peccatore
che a quei novantanove giusti
così mondo straccione ti guardiamo
da bianche voglie sulle gote di guarire
di qua dalle pinete ospitaliere,
così nascemmo in pochi
orditi cromosomi
coi geni i loci il male i miti
dall’uno all’altro pub a marciapiedi
salotti bari o cresi
e chi già crede siano immuni i santi
guariti e vaccinati trapiantati tra
s’attende quel dottore e
nessuno può svelare prognosi amate
né il tempo immemorabile che manca
nessuno né fedeli al giuramento
la nemesi al bivio Asclepio
con vita la vita con male incurato
affiora l’Atlantide e attende
effimero agisce il rimedio
e taglia e ricuce il cerusico nostro
l’esangue rodeo dei sopravvissuti
profondi giacigli di occaso
qualcuno che chieda la buona morte
per sempre nell’utero mater per amnio
per flebo per vena per sempre
gli infetti no, vanno per legge isolati
per germi con maschera e guanti
monatti ed untori si nasce si muore
un caso assai raro da notti bianche
io qui vi presento e le fobie
il nome diventa numero al letto
salute uno stato precario
dal quale mai nulla di buono mi attendo
curabili casi i sentimenti
sui nostri lettucci laccati
con diagnosi prognosi e cura
la scialba memoria una cisti
accadde che mentre in Gerico entrava
in strada vi fosse un cieco a mendicare
ragazzo che a un niente arrossivi
le date più assurde della tua storia
in pillole e fiale
nessuno sa l’ora il te mpo che manca
aspettano al ponte guerrieri,
liocorni liocorni anch’essi infermi
frammenti di sogno ben custoditi
così inerme e bianca la corsia
annotta in silenzio e croce rossa.

INVECCHIANDO

Col rimpianto amaro degli orti
il pendolo tradito
a Natale papà viveva ancora
attento alla sua digitale in gocce,
caute scommesse di futuro a bocce
noi per fede s’intende, per esempio,
la pelle iridata del mondo
restarvi spettatori a lungo
di amati enigmi paradossi il no
e di tanto in tanto un capogiro
un incidente dentro le mura,
nato a residente a
le piccole attenzioni dovute
ma in resto ci danno caramelle
i misteri della materia
e il telefono sempre guasto
meglio proteine che grassi e non fumo,
la maturità è tutto e crepò
saggiamente votato all’entropia
con soli tre denti e mezzo lato,
così rompo occhiali da presbite
e ci offrono medaglie,
in guerra sono i padri invece
a seppellire i figli e sia,
persone o vecchi personaggi a scelta
e chi a memoria recita giornali
violenza da sovraffollamento
neonato con organi al contrario
chi si converte in zucchero filato,
cercasi un’antica follia:
il giardino dovrà esser venduto
il caro estinto riconosciuto
ma davvero tornare presto
nel gran letto a giocare
e chiuso per ferie il Karma
l’ora esatta
o il codice cavalleresco
di quando ammazzo l’animale
e invecchio,
in attesa del giudizio universale.

IL MIO PAESE

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina,
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Matteo.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per le vie.

CIRCOSTANZA

Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai complici ammiccare
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere,
dita a intrecciarsi per niente
affusolare un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater,
ma a che misteri
nel morire tuo lieve
mi iniziavi
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza

AMATE GRONDAIE

“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre dei bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio alle parole,
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’umile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi

IN VIAGGIO

Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dei lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
nati vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria,
non è dove si nasce la terra
partenze departs qui e là
quasi” rosa la rosa ” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte senpre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici “ passengers
are kindly requested “io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone.


NOTTURNO CITTADINO

Coi giornali freschi di stampa
e tu le gambe lunghe della sera
la popart sui marciapiedi e uno guarda
uno, due se non hanno altro da fare
mormorando strane frasi di niente
come il cinese sfiora l’Occidente
passando in lontani torpedoni,
le facce chiuse in cieli finti
salgono, salgono dal profondo Sud
se non ti va di emigrare sta’ qui
dove non vagano più tra né voglie
sui corpi delle ragazze incinte
una banale emicrania a passeggio,
uno pelato sembra mi somigli
ma non io, non avevamo sosia
io son quell’altro fermo ai quadrivi
miliardi e miliardi di cellule, sai,
facendo amicizia con la notte in giù
fino a vuotarne bene il contenuto
a contarne le insegne sgargianti
e impacchettano statue e monumenti
comprese le mura di cinta e di noia,
alle calcagna d’ansimanti sogni
ancora la ronda dei soldati in tre
o quei brevi marinai allegramente
le navi scritte in oro sulla fronte
né vi sono altri curabili indizi
girotondi magri di drogati e di
bigi topi corrono ebbri, corri
il sangue sprizza dal pronto soccorso
e docile imbocca i tombini, laggiù,
prima ch’io ne riconosca il gruppo
la notte impudica già si denuda,
in ghingheri, fontane del tempo,
con la violenza ci fanno bottoni
quest’ultimo è sdentato e grida forte
mentre io giungo trafelato al portone,
le stesse ombre di ferro e di silenzio
qualche folle tornato dalla guerra
e più o meno il respiro aspro dei morti


GIOSE RIMANELLI

Ad una ampia campionatura di immagini-sensazioni e resoconti autobiografici, dove la sopravvivenza psicoemotiva di profondi soliloqui si alterna con i luoghi della memoria domestica e storica, tra visi, gesti, luoghi geografici diversi, come diverse ma non disgiunte da tutto il corpus poetico sono le due figure rappresentate dalla vita e dalla morte, che tra l’altro appaiono dominanti nella raccolta dal titolo: “Sonetti per Joseph” Caramanica Editore, 1998, s’affida Giose Rimanelli, tutto portato sul versante di un umanesimo illimitato e assoluto nella esaltante dichiarazione di un perduto bene che permane anche quando le rapine della morte mettono a soqquadro cuore e ragione e fanno della generosa illusione dell’esistere un delirio-rovello esplicato attraverso un lessico lirico assai singolare nella operazione di collegamento dei sentimenti , sia se si tratti di discorso neutrale che partecipe dei fatti e degli eventi. “Sonetti per Joseph” lancia messaggi psicoemotivi e linguistici che vanno al cuore della dialettica esistenziale, in una atmosfera familiare fatta di cronache e di racconti, di confessioni e delusioni , che si riannodano in un unico bozzolo dal quale fuoriescono filamenti memoriali, come disperato bisogno di ricucitura del tessuto quotidiano attraverso un’ampia galleria di personaggi, come la figura della madre, del Reverendo Mich ed i suoi cantori, di doppi se stesso del poeta, che riaffiorano come isole nel grande mare delle dispersioni con una febbrile volontà di esistere, anche dentro il “male di vivere”, non importa se poi tutto questo si riduce a uno smarrimento dell’io e a uno stupore delle cose passate e presenti.

RITORNO
LIII
Mia madre muore a Windsor, nell’Ontario,
in una casa abbandonata all’ombra.
L’abbraccio, la vezzeggio, non s’adombra:
lei sa d’esser sola nel suo santuario.

Qui a suo modo ognuno fa il solitario,
come a intrattenersi con la penombra
che a poco a poco invade i vetri, e sgombra
d’ogni residuo d’olio il lucernario.

Nella mia terra abbarbicata ai muri,
mia madre visse un riluttante esilio.
Ora qui siamo, nella sua: duri

da rompere col rimpianto, l’ausilio
dell’incognita, la testa agli scuri….
La Gloria? Passa sotto il peristilio.

Windsor, Ontario
Domenica 5 novembre 1995

MIA MADRE
XLVI
Joseph, non è morta , anche se lo penso.
Ha perso quasi tutte le sue piume
e il gesto, la parola. Già l’incenso
tinge la sua stanza di là del fiume.

Alla sua vita non c’è alcun compenso,
eccetto un pensiero: ci è stata lume,
porta aperta sul mondo in quel suo denso
ipotecare la speranza. Schiume

d’ignoto pianto battono le sponde
d’America, fino alla patria Italia,
e sfumano. Nessuno mai risponde.

Vanno e vengono, aggobbiti d’alia,
figli e nipoti e parlan di Laonde
la mamma/nonna, stelo della dalia.

Pompano Beach, Florida Martedì, 31 ottobre 1995

SALVE REGINA

XLIX
Aspetto la mia morte con lo sguardo
di mio padre, a cui sempre più somiglio:
chiaro, con tutta una sua grazia; il cardo
che pungeva è perso, tra grano e miglio.

Aspetto la mia morte, col ritardo
mitico dei treni, nel ripostiglio
della mia gloria; odorerà di nardo
e farro, vuota quanto uno sbadiglio.

La morte è rito solo per chi resta:
per me c’è il canto del Salve Regina
nella Valletta dove ognuno appresta

una tela sospirosa , in sordina;
e dove incontrerò te pure, in testa,
Joseph, a una brigata d’albaspina.

Pompano Beach, Florida
Giovedì, 2 novembre 1995


LA ROSA
XXXIII
Per i tuoi settanta, sapienza e amore
te ne danno appieno….venti di meno;
e, Dio voglia, ce ne saranno almeno
cent’anni ancora a salutare altre ore

di lieto conversare, di sereno
scrivere nel reciproco pallore;
è questa la vita, è questo il suo odore?
La barca cerca altra sponda, il seno

sempiterno che ci ripaghi a fondo
d’ogni umano dolore — quella spola,
Joseph, che tesse o inceppa il girotondo.
La rosa odora una giornata sola,
(come la nostra vita in questo mondo,)
e Amore canta, ride e se ne vola.

Election Day Pompano Beach, Florida Martedì, 6 novembre 1994

SIS
XVII
Mangiavano peperoni salati
sotto il fusto d’una palma, in un fosso
di fango e rettili, semi affogati
nei loro tatuaggi; e nient’altro addosso.

Uno d’essi si rosicchiava un osso,
ed un altro i capelli insanguinati
d’un terzo che piangeva, “Ummm, yes, ti posso…”
e mormorava un blues di stralunati.

“Yes mama, mama look at Sis, lei è fuori
on the levee, facendo il doppio salto
col Reverendo Mich ed i suoi cantori”.

“Rum in here, you little sow, lo smalto
sulle unghie is bad, girl, you know how? Se muori,
you little sow, mama too vola in alto.

Jacksonville, Florida
Sabato mattina, 17 settembre 1994

PREGHIERA

XXIII
La pioggia che ti sfruscia nel pineto,
e quella che t’affoga nei diluvi
è la stessa che monda e ti disseta,
è la stessa pioggia che carezza e urla.

Sei come il passerotto che si burla
sul filo del giorno giunto a compieta,
e si stordisce al buio negli effluvi
di paludi che vegliano il canneto.

Joseph, aiuto! Sempre stessa storia
on Television, da mattina a sera:
soap opera, politica, violenza.

Questa porosa cosa, la mia scoria,
(permetti?) eleva ancora una preghiera:
che presto arrivi l’ultima partenza.

Jacksonville, Florida
Martedì, 11 ottobre 1994

VENTURA

XXV
Ognuno costruisce la sua casa
nel deserto, ed ara, scava e coltiva.
Poi — passa un giorno passa un anno — arriva
il vento e l’acqua o il fuoco e la travasa.

C’era sempre un fiore sulla cimasa
che ci donò guidogozzano: estiva,
con i colori di Domani, e viva…
come i bei sogni morti in quella casa.

Ora la gente passa e mi domanda:
“Di cosa ti lamenti, la paura?”
Tutta la vita è fatta di chi sbanda,

o arranca, cercando la via sicura.
Ma poi si affonda. Paura? La banda
suona al solito il blues e la ventura.

Jacksonville, Florida
Sabato, 15 ottobre 1994

CATULLIANA V

XLVIII
Godiamo in santa pace il nostro amore
perché la vita è luce che si spegne.
Lo dico a Bimba con aperto ardore
siccome a lei non vanno le consegne,

le morali delle favole, le ore
attorte e un tantino pregne alle insegne
delle scuole, o assorte nel luccicore,
Joseph, di tutte quelle cose degne.

Ho perso sempre tutto nella vita,
Joseph rispose , eccetto la mia croce.
Vi sono entrato come in una gita,

petto in fuori, melodica la voce.
Onestamente, me la son goduta:
godendo anche l’amaro della noce. (66)

Pompano Beach, Florida
Mercoledì, 1 novembre 1995

NICOLA IACOBACCI

Il risultato sorprendentemente più avanzato sul territorio delle immagini-percezioni, (quando l’occasione poetica non è dettata solamente dalla suggestione del paesaggio o dalle relazioni storico-familiari o affettivo-sentimentali), è quello della prefigurazione o rappresentazione del Nulla, come ci viene proposto da Nicola Iacobacci il quale affidandosi a un lessico scopertamente fruibile anche nei termini analogici, riesce a far proprio un messaggio poetico in sintonia con i brividi culturali del nostro Tempo, che sono poi quelli della percezione del trionfo dell’empirico e della crisi del trascendentale.
In quest’ambito il senso profondo del sentimento della morte, recepito come fatto ineludibile, assume nella valenza della denuncia un significato di forte impatto sociologico.
Da qui il recupero tradizionale del “consolo” o della partecipazione al dolore , che poi altro non è che un ulteriore richiamo antropologico all’antico culto dei morti magnificamente descritto ne: “Il cerchio si stringe”, un testo singolare, interamente trasferito sul piano delle impressioni e dei sentimenti: “Attorno al morto vegliano gli amici; / per ingannare il sonno bevono vino di melappia; / tra un sorso e l’altro la consolazione / d’essere vivi:/. Ma dove l’immagine del “viaggio” s’affaccia con più graffiante incisività, portandosi a un livello di prefigurazione del rito funebre , in particolare quello della vestizione, con tradizionali richiami a figure mitologiche è nell’ultimo testo che chiude il volume “La baia delle tortore”, sintesi di una sincera e appassionata rigerminazione dell’amore che va oltre i confini stessi segnati dalla scia della barca di Caronte :”Agghindami a festa. / Il vestito di seta, la camicia, celeste, / come i miei occhi pieni di luce. Sei tu la luce e i miei occhi che vedono oltre la barca / e il fiume di Caronte, l’angolo di cielo / dove aspetterò il cavallo alato che ti condurrà da me./
In quest’ultimo senso la poesia di Nicola Iacobacci toglie all’impietosa presenza del Nulla il suo potere di distruzione e di terrore “accettando anche, serenamente, la morte, come un momento necessario di quel fluire perenne” (Carlo Saggio)

CIV

L’ultimo rintocco spezzerà il volo della rondine
nel gelido cristallo d’alba equinoziale.

Non coprirmi di lacrime e di baci.
Gioia è l’amore, cuscino d’erba e viole,
non pietra nel calco d’un sosia glaciale.

Bianca la veste, fiori d’arancio, fulgida spada
sul velo che copriva il tuo rossore. E ti baciai.
Il miele grondava dai telai dell’arnia
quando la maschera e il fumo allontanano la pioggia
e le api sui poggi di campanule e ginestre
gonfie di polline e profumi.
La vita sembrava eterna. Ed è eterna
nel sorriso delle figlie che nuotano nel grembo
come in un lago d’acqua azzurra e quieta.

Restami accanto, conosci il mio tremore
e la paura di restare solo.
Il mondo schiaccia ogni saggezza, non il pensiero,
fragile specchio che ha la forza di respingere il sole.

Agghindami a festa.
Il vestito di seta, la camicia, celeste,
come i miei occhi pieni di luce.
Sei tu la luce e i miei occhi che vedono oltre la barca
e il fiume di Caronte, l’angolo di cielo
dove aspetterò il cavallo alato che ti condurrà da me.

Non scordare le mie scarpe di vernice, silenziose e comode
Le tue scarpe di raso .
Insieme, sulla scala di vetro dell’eternità.


IL CERCHIO SI STRINGE

Perché dovrei pensare come gli altri
e credere alle cose che durano nel tempo:
è la vita che non dura.

Attorno al morto vegliano gli amici;
per ingannare il sonno bevono vino di melappia;
tra un sorso e l’altro la consolazione
d’essere vivi. Ma il cerchio si stringe,
il filo spinato s’attorciglia intorno al cuore
duro come il cristallo del lago ghiacciato
che cede improvviso al sole che rinnova
la gioia di vivere.


GLI ORECCHINI DI CORALLO

Gli orecchini di corallo
m’incantano più della fonte di maga
nel giardino degli uccelli;

come due bacche rosse
tintinnano sfiorati dalle labbra,
parole dal suono di foglie secche
tritate nella mano e ventilate
senza che resti nulla di ciò che dico
perché non dico nulla di ciò che penso.

Un giorno forse sarò sepolto nella neve;
dalle mie parti fiocca a pelo di gatto
e la campagna diventa un manto
senza strade né foglie;
travi tarlate crollano sotto il bianco peso.

A te non piace il mosto cotto
sulla neve che crocchia nel bicchiere
perché la neve è una lastra
sul tuo cuore di fanciulla
inorridito dal pensiero della morte.

QUANDO MUORE LA REGINA

Quando muore la regina degli zingari
quattro cavalli neri portano la bara
sul manto di garofani steso sull’asfalto.
Anche gli zingari hanno la corona
sul palo della tenda al centro del campo
tra mucchi d’erba
e pietre affumicate dal freddo e dalla fame.

La libertà è la maschera che copre la vergogna.

Libero è chi lavora forgiando con le mani
il metallo per ferrare i cavalli
e correre sulle prode erbose dei pascoli,
non chi ruba il fieno del vicino o la gallina
come cagna randagia per nutrire la nidiata
dalla buca aperta nella rete.

E i figli piangono venendo al mondo,
la pelle scura e il sangue caldo
e la bocca aperta alla gonfia mammella.


IL SONNO E’ LA MORTE DEI VECCHI

L’ala del passero preso alla tagliola
è immobile sul muro rosso del bastione.

Odore di sorbe sui tetti
e di cotogne che il vento gonfia
sul dorso della costa
quando i tordi, a coppie,
scompaiono tra i rovi.

L’ombra sonnolenta si sdraia sotto il tiglio
e nelle viuzze dormono i ragni
accanto alla preda impigliata nella rete.

Il sonno è la morte dei vecchi
sui scanni di pietra addossati ai muri scalcinati
delle case rosse di gerani.

A MIA MADRE

In questa stanza bianca
la lingua è legata nella bocca
come il battaglio della campana
nei giorni di passione;
ancora un giro intorno all’asse:
l’eternità gorgoglia nell’acqua
accanto alla bombola d’ossigeno.

Dal vetro brunito della finestra
lampeggia la prima lucciola;
tante lucciole tra i fili della memoria
impigliati a tarda sera
nei cespugli fioriti della costa.

E’ il segno dell’età,
felice perché passata:
l’attimo non rivela la gioia
o il dolore che lo sostiene.

Tempo d’addio:
la sedia di paglia è già pietra
per l’allodola stanca di volare.

TORNEREMO INSIEME

Mio padre e mia madre
non hanno più voce
ma continuano a cantare
con le mani tra le spighe;
il tempo non tradisce mai
quelli che aspettano.

Torneremo insieme
nella luce che solleva gli oceani:
l’attesa della primavera
finalmente si coprirà di rondini.
Entreranno le rondini nella mia stanza
con un soffio d’aria nuova.
O è forse la pietà
che addolcisce il senso delle cose,
le ore di pioggia nei pagliai,
le notti pesanti come pietre,
il pensiero del domani.


MARIO M. GABRIELE

Con “Astuccio da Cherubino” il sondaggio esistenziale assume un ruolo prioritario che si dilata “lungo una esplorazione della morte piena di infinita pietà” .(Giorgio Bàrberi Squarotti). L’aspetto storico e domestico riservato alla figura del caro estinto, rievocato nel momento del distacco, permette un’avvolgente visione e rapporto tra l’Hic et nunc e l’oltre, spaziando nella parapsicologia “rinuncio all’assurdo, ai contatti / con le ombre, mentre gira a vuoto / il nastro del vecchio Grunding / per un tuo messaggio che non arriva /”, e nella metempsicosi “Io, in disparte, / lontano da quella archeologia / ti penso altrove: bruco, passero, girino./ ”fino a recuperare attraverso “il vetro che si incrina” l’improbabile segno proveniente dall’aldilà, come estremo tentativo di porre in una dislocazione atemporale l’immagine paterna passata ormai, definitivamente, nella penombra “se per te mi fingo / una nuova vita e mi calmo soltanto / sapendoti felice in altre ionosfere,/ fuori da questo luogo / che se mi volgo intorno / è una lunga città di morti, di segni, / di epitaffi strani./”
“Il vocabolario di Gabriele è estremamente semplice desunto com’è dalla quotidianità del vivere, ambiguamente usato per esprimere il “mondo dei morti”.
C’è da notare che la struttura del testo nel suo complesso si sviluppa, a partire dalle Epigrafi, in un discorsivo che ha come interlocutore il Tu. Chi non ricorda il “tu” di Montale? Chi non ha nella mente il dialogato di Eliot? Chi non ricorda lo Spoon River di Masters? Ma il “tu” di Gabriele è nello stesso tempo il poeta che si guarda allo specchio, è l’uomo dell’oltretomba che si evidenzia come anima, ossia come umanità.. (Gaetano Salveti: Introduzione alla poesia di Mario M. Gabriele su Nuova Letteratura 1985).
“Poesia sociale, dunque, che si veste di analogie e di simboli, che assume la solennità pensosa di una parabola evangelica o il tono sferzante di una indagine rivelatrice”. (Intervento critico di Lidia Ratti a "Il giro del Lazzaretto di Mario M. Gabriele su QG., anno XIV novembre-dicembre n. 149; dove “ l’esilio e l’eclissi scandiscono i ritmi di un esistere, segnato da morti e resurrezioni, da ciclici abbandoni e ritorni alla voluttà della parola, tra sogno e veglia. Il risultato allucinato, ma autentico è l’essere, al principio e alla fine, ombra di se stessi, immagine stemperata di una presenza, che evoca fantasmi di assenza”. (E' quanto si rileva nella Introduzione di Francesco D'Episcopo nel volume Moviola d'inverno di Mario M. Gabriele, Riposte, 2003).

EPIGRAFE N.1

Bisognava attendere,
essere composti nel dolore
trovare un angolo e rimanere soli
mentre c’era chi trafficava per le stanze,
chi raccattava la speranza caduta a pezzi
e l’abisso oscuro allontanava da me
ogni tu forma, i molteplici colori……
Anche così
La morte non ha reciso molto
se qui, nella tua casa,
ancora c’è chi ti ravviva di porta in porta,
riesumando oggetti, incespicando storie
per nulla desuete o lacrimose,
se m’ostino come sempre
ad attendere nel vetro che s’incrina
il tuo graffio dall’al di là.


EPIGRAFE N. 2

A volte
è come un rito d’altri tempi:
c’è chi accende il lucernario,
chi divaga sulle notizie della lapide
e gennaio fa prodigi contro un muro
di gerani e non ha senso abbellirti
come un piccolo giardino
se per te mi fingo
una nuova vita e mi calmo soltanto
sapendoti felice in altre ionosfere,
fuori da questo luogo
che, se mi volgo intorno,
è una lunga città di morti, di segni,
di epitaffi strani.

EPIGRAFE N.3

Non sempre la tua assenza
è un lunghissimo-black-out-.
Spesso riemergi dal buio
in piccole intermittenze, baluginii,
vicino al lumino sopra la consòlle.
-Non è che si ricavi molto con le preghiere-
dico agli altri
mentre sgranano la corona e attendo un tuo segnale
-tremolio o luccichio-,
brevi notizie dal tuo mondo.
A quest’ora,
-essenza o crisalide-
probabilmente già in un’altra dimensione,
dovrebbe soccorrerti un Dio di pace e non di guerra.

*
La tua fede si riduceva al minimo:
pochi idoli, feticci effimeri
di chi crede che la vita sia solo un caso.
La Pasqua ti abilitava,
ti scioglieva dal martirio
del Dio assente o presente.
E come avrei allora potuto non amarti
scioglierti dal dubbio totale?
-Si tratterà- dicevo,
-di un vuoto da colmare-.
E ne venivi fuori, titubante,
un poco in disagio per il lungo subbuglio
della ragione al profilo morbido dell’aurora.

*
Il tuo guscio di noce,
troppo angusto in un viaggio d’eccezione,
era un astuccio da cherubino
e tu un archetto incantatore
per cipressi e rododendri,
sempre più in fondo a un cunicolo di sogni
se mai ne avessi uno.
Ma è assurdo
pensarti altrove, chiudere per sempre
con gli anemoni e le cose
lungo un fiume di nebbie e di carrubi,
con un lupo trifauce a guardia dei tuoi occhi,
lasciati al buio, al silenzio che deturpa.

*
Come posso ritrovarti
tra mattoni e calcina,
qui tutto ben squadrato, livellato,
con questa frana all’improvviso
di terra e di radici?
E’ già molto
ricomporti nel ricordo,
mentre c’è chi tenta l’omelia
sul tuo bozzolo di neve.
Se qualcosa emerge
è subito un collage di fossili e lumachine.
Io, in disparte,
lontano da quella archeologia,
ti penso altrove: bruco, passero, girino.

Parlarti è impossibile
se in fumo o in sogno
sempre mi ritorni
per un monologo o per le tue pozioni.
Ma fu il colpo d’ala quando ti chiesi
perché mai ti trovassi nella necropoli.
Ora l’inferno è sapere
quando riapparirai,
come farai a battere alla porta
con quelle mani già ali di farfalla?

*
Sempre verrà l’autunno,
il rosso delle vigne
a terrazze sulle colline
fin che dura l’estate
sui boschi e i ramarri.
E’ un’erba verde
la voce che non torna
chiusa nell’orto antico
nel tempo dell’amore.
Legno nero e fumo.
Si riapre il dolore
come una finestra vuota.
Sempre se ne va l’autunno
in una tristezza
che nessuno più direbbe antica,
di ramo in ramo, di foglia in foglia,
come un furto vero
il nostro pianto greve.

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