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lunedì 14 giugno 2010

Carlo Felice Colucci

Terza parte
dall’Almanacco dello Specchio Mondadori,- 1983, n. 11
a cura di Marco Forti
da: Check-Up — (con prefazione di Giorgio Bassani)

(…) “ Già nelle prime prove (Una vita fedele, 1962), …. si intravede lo sforzo del poeta di aprirsi alla modernità senza disconoscere la tradizione, il bisogno di sliricizzarsi senza negarsi a un certo innato lirismo, di esorcizzare in qualche modo il sentimento, la nostalgia nei confronti dei luoghi d’origine, della mitica terra dell’infanzia. La poesia di Colucci, in seguito, a me pare sia sempre più derivata da questo tentativo, spesso egregiamente riuscito, di mediare le due opposte esigenze, le due diverse tensioni. (….) L’operazione stilistica nata da una simile motivazione si è andata via via rafforzando fino agli esiti di Placebo (1975), e soprattutto di Preghiera occidentale (1981), nella cui area collocherei i testi qui presentati, con in più, forse, una maggiore capacità di sintesi e una migliore misura della parola poetica. In essi, infatti, mi pare si realizzino, al massimo delle possibilità insite nella macchina creativa di Colucci, l’aspirazione ad attingere l’adeguata fusione del vecchio col nuovo, della tradizione con la modernità, approfondendo la scavo interiore ed il conflitto generato dalla doppia polarità cui dianzi si accennava, assimilando meglio quella smania di rivolta verso il culto stereotipo dell’io lirico, e, comunque mantenendosi, in ogni caso, a ragionevole distanza dall’eversione spericolata.
Così le rotture sintattiche, l’espressionismo, qua e là scandito anche dall’uso della terminologia medica, il sapiente assemblage di oggetti, le allusioni linguistiche, eccetera, finiscono in qualche modo col ricomporsi in un ordinato microcosmo sotterraneo, al cui centro è l’uomo col proprio dramma esistenziale, le proprie angosce, oppresso dagli eterni interrogativi irrisolti.
La poesia di Colucci, quindi, più incline ad oggettivare, a testimoniare l’universale schizofrenia, il nulla della vita e della Storia che non a confessarsi narcisisticamente, resta tutto sommato, antropomorfica, considerata insomma dall’autore, di là da ogni ricerca formale, soltanto un mezzo e mai un fine. (….) Uno dei suoi strumenti preferiti, e, a mio avviso, più validi in tal senso, è l’ironia sottilmente allusiva: un’ironia tanto assimilata, interiorizzata, per così dire, da diventare non di rado protagonista del discorso, con funzione esorcizzante nei confronti sia delle non mai disciolte neiges d’antan, sia della ricerca stessa del linguaggio “. (Giorgio Bassani)


Oroscopo

Settimana insolita
occasione in famiglia
sarà bene evitare e anche il futuro
pane e dolore in do
cautela nei mali salute nuova
a sera un po’ di voglia e di,
fate carità a gente fidata
ai padroni offrite miglio
l’astro consiglia il venerdì
e non mettere niente addosso ai morti

Esortazione

Non con l’avvenire,
domani ci cambieranno il cuore,
non con le parole,
bagatto etimo incerto,
non dimenticare l’eschimese
vecchio e solo con un pesce secco
lungo la banchisa
né i calzini di lana la Bibbia,
se ancora possiedi la valigia
dove c’era sempre poco spazio
e l’incertezza

Notizie dall’interno

All’interno rinvenuti i seguenti
un paio di scarpe da donna sola
un sandalo solo sempre da donna
due cappucci da sub e un’orma
e sotto il quadro comando a turno
borsetta con indirizzo
e numero del mio dentista
o la memoria del mare

Tempo previsto

Su tutti i versanti condizioni di
piovoso coperto sereno o quasi
con addensamenti e senza lungo i
mari niente o molto ondosi
dorranno più o meno artrosi
e i previsti su altri tornanti
foschie di notte e su valli del Nord
valli del Sud fino a Giosafat
col mio umore sempre variabile
stazionario il resto
e la data immutabile
che inutilmente c’incontreremo
per improbabile salvezza


Lanterna

E’ nel buio che affiora
sul morto binario del mio treno
una lanterna in mano al vento,
gallo non hai più canto
per l’alba del perdono,
golem o robot
dobbiamo andare
coi segnali del tempo
e un fischio di meno
in fondo al sangue


Notizie

A sera poi tutti portiamo una stella
sul nudo capo, sulle ombre lunghe
a volte un’intera luna piena
come rotonda pazzia di Re
le sciabole corte dell’infanzia,
antiche anemie mediterranee
sui volti affilati dagli esodi acerbi
dal dubbio del siamo non siamo,
qui nascono in molti malformati
a causa di non so quali scorie
e lento s’insinua il veleno
dentro le coscienze, rauco geme il tarlo
nel decrepito legno del secolo
s’annunzia il rifiuto sublime
dei giorni di minime baldorie,
o salire occulti al borgo del perdono
e niente sotto i tetti sotto i letti
una rondine un fiocco di memoria,
solo uno che attraversava zodiaci
e inspirava profondo
provvisorie domeniche di maggio
coi dolci e la morte nel cartoccio
qui giace pubblico benefattore,
solo un mite fantasma di guerriero
nel nostro vecchio bunker pensionato,
sono calchi di gesso le parole
mentre s’inebria di sgomento la città
negli orologi molli sciogliamo le ore
e chi soffia lento il mio nome
nel computer
come una secca notizia di giornale
e mi disvela
per sempre

da: La bella afasia (1983)

Per un ammalato inguaribile, a L.O.

E’ come salire buie scale
d’una torre medioevale
stremata smania di guarire e di,
anche tu l’hai issata
come lacera bandiera
come noi nato a, sotto il segno di,
o Chi beato salì al cielo il terzo giorno,
secca rosa dei venti brucia
apre l’attesa nuovi sodalizi
ma nell’alcova del dolore
in punta di piedi e sensi di colpa
sulle arsure adesso già t’abbandoniamo
e quei lunghi invalicabili
silenzi di Tartaria
il breve ponte in bilico achtung
fra l’essere e il non essere,
sui binari del tempo ferroviere
la fioca lanterna
che a terra ci fondeva l’ombre,
scoppiano metastasi
avverte zelante l’infermiere
spaccano i vetri tersi della sera
e un minimo progetto di futuro
citostatici più radiazioni più,
una goccia di sonno finalmente
nel tuo deserto letto
ti promettono stanotte
madame la morfina
puttana di riguardo,
oppure e così sia
la bella cachessia
ammen


Check-up

Oggi senza fiatare dopotutto
mi lascio frugare il sangue check-up,
non fumo non bevo ed ho le arterie chiuse,
dalle donne ai cauti davanzali
di gerani e zucchero filato
mi lascio allattare in sogno
il ragazzo che arrossiva per niente
e sempre quel mezzo falò dietro i paesi
mezz’ombra mezza parola
nel fermo esilio dei sentimenti
nei buchi neri del cosmo,
oggi vorrei almeno rasarmi con cura
dove non possiamo contarci
i cromosoni ogni mattina, le rughe
in silenzio in attesa in
metamorfosi del privato bada
e neppure blande verruche,
check-up del vissuto esistenziale
gli astri dicono di rischiare
se per fede s’accendeva un cero
qui la degenza non si paga
popolata di strumenti perfetti
e di paure-up,
noi ignari moribondi forse
chiudi bene la porta e il gas,
domani sapremo i risultati
i manifesti dell’età matura
e ce li scambieremo, Dio voglia,
come auguri un po’ natalizi semmai,
s’opera di prostata, pensa,
a novant’anni il professore check-up
o un avvenire ellittico


da: Memoria e fuga (1987)

Circostanza

Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai, complici, ammiccare,
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere
dita a intrecciarsi per niente
affusolate, un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater, ma a che misteri
nel morir tuo lieve
mi iniziavi,
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza


Memoria e fuga

Per una qualche variopinta costa
oggi partiamo banditore
e un po’ gremita semmai
(ch’eravamo al mare scoppiò la guerra)
all’assalto strenui vacanzieri
d’un breve borgo di miti e di bagnanti
partiamo con bagagli,
prima i bagagli, cara, e poi la fine
queste morte cose in apparenza
ma le nostre ombre esatte
burlone fra l’una e l’altra diceria solare
o dei pensieri il trespolo che non trova spazio,
ancora gli occhiali scordo
vecchio figlio della lupa e accessori
(mia madre in fuga per mano ci teneva e
sotto i colpi caddero prima i fortilizi,
di sabbia e vento),
e come ride sdentata l’autostrada,
come oggi sembriamo più seri tutti in colonna
dentro abitacoli perfetti
nel siamo non siamo
falotico nome ci assilla,
Bomarzo di mostri e di foreste,
labile cippo su senile itinerario,
a una risorta luna malaticcia
apriamo i deflettori
ma quanti anelano già
le bianche statuine del ritorno in un baleno
e non si può senza partire, non si può, nessuno torna
dai campi di sterminio
c’è esodo e esodo, memorie e memorie vi sono
in tanti dimidiati feticci
(fiori di piombo colsi a lungo ragazzo sull’altana)
o delle coronarie l’ora in pillole e supposte
al prossimo autogrill suggerito
e circa a metà via saremo
da non ricordo più che tregua da
che isole di carta e ore d’aria,
d’un giovane linciato allo stadio
udiamo in sottofondo
mentre uno in divisa e zelo
serve rinfreschi e annunzia
dalla cimasa del tempo
(e fu sapore di fame il pane giallo)
estati sempre più calde annunzia
prive d’amuleti ormai
e con ventagli di futuro
leggeri proseguiamo
noi, cosiddetti, ariani
alla memoria, in fuga


Lettera da un posto

Qualcosa portiamo
solo a quei dolcissimi cani,
qualcosa,
randagi che ogni tanto
ci adottano
lungo i nostri pavidi cammini
d’obbedienza,
qui ci tentano murali e scritte
pire di galatei semmai
ancora sono acerbi
magnifici frutti della colpa
ma verremo, sotto i portici neri
di fumo, verremo con antico timore
un po’ di gloria a mendicare
ori trafughiamo alle parole,
com’è roca, senti, la voce del sangue
mater che aviti rosoli mi versavi
dagli anemici ritratti,
non s’incrina l’osso del dubbio
dove i cocci del tempo raccatto
e cancerògeni idrocarburi, dove
di notte non usciamo
in troppi sognano eterno ai crocevia
le perdute occasioni dei sobborghi e
quante insanite comete
quanti malfermi giramondi
si disfano al vento siderale,
così a volte impune corre l’onda
i bei moli deserti a saccheggiare
anche da noi la grama vita che resta,
minimi legni battono
a remi il ritmo del silenzio
o tamburi di latta
la fine d’un grande capo indiano,
e che altro?
Tutto era di oppio e nessuno se ne accorse
le monche ombre nel giardino d’inverno
i miei Re Magi

da: A fuochi spenti (1992)

In memoria di Mary e Francis
(Da un ritratto del 1845)

Ricordatevi di me
di me e di noi tutte
le altre come noi in ombra,
siamo le sorelle Mary
e Francis Wilcox di Stafford
eravamo del Maryland
sulle albe correvamo
fra le alte gambe dei boschi
e siamo volate via, anemiche,
molto presto troppo presto,
abbiate cura dei nostri giochi
delle care nostre bambole,
abbiate cura di voi
e delle vostre persone in luce
che tanto poco conoscete,
noi siamo ancora sole qui
ci dicono di aspettare
dove non faranno nidi
uccelli di passo
e non canteremo come una volta
né del male l’agonia,
non rifaremo il verso del lattaio
d’un mondo immacolato,
remember me, in segreto


Il cappello nuovo

Un cappellino oggi mi provo
un cappello pieno di cose
di cabale, uccelli,
di niente qui provo e riprovo,
di vecchia pioggia che tanto ci illuse
pieno di incerte parole il caso
un po’ sconnesse e un poco,
mi sta non mi sta malie
e di misura in misura, passato in futuro
provo e riprovo allo specchio,
al doppio, ghigna il gran cappellaio
quasi un’icona gelosa,
ma sotto l’ala del falco pellegrino
sotto la falda nosce te ipsum
nosce agli specchi deformanti
la bella eresia, la bella afasia
con l’uomo che ancora attende
apostoli fluenti chiome scoperte
e con me la scelta d’un copricapo
o d’un nebuloso cielo e corro,
la chiusa pietà,
e come corro tenendo per mano adesso
e con due sole dita il cappello nuovo
di panno blu, antiacqua, antismog
nessuno chiama alle giostre
nessuno più dai labirinti
e corro i morti a salutare
calvi di novembre, deliro
col mio cappello nuovo col mio
peccato non sia frigio non
cessi un istante lo sgomento bigio
o quelle corte feluche d’un tempo
così daccapo riprovarle io solo
all’imbrunito specchio di famiglia,
ambasciatore curvo con verruche, pater,
sopra la croce bianca a scappellarmi


Leucopoesia

Con mielosi leucosi blastosi
come dire con linfo mielo blasti
o nucleari atipie
per mitosi infinite
e con emo con linfo con mielo
cellulari incursioni
agli incroci metrò
nelle case di cura, di fine
blasti blasti e così mai domani
la gazzarra d’un sangue immaturo
così torna oggi l’incubo, cara,
e con mielo con linfo con emo
a murarci vivo il sangue
delle esangui anemie
delle grandi morie,
bianche bianche leucosi
e così le partenze, blasti,
qualcosa di bianco
di neve di mielo insomma
qualcosa di dolce un’alba leucosi
di miele alla stanca memoria
con blasti più blasti
ove ancora impasti frittelle
e il fiore alle madie, mater,
o quasi una bianca morte mielata,
leucosi del nada
scialbate muraglie
di inutili attese,
hai visto mai il falco
il falco pellegrino
volare sotto terra, sotto.
Nostro era il sangue l’eme degli avi
malati i blasti, l’urlo
e nessuno sapeva, in attesa,
a leccarsi le dita bambine
di miele, leuco, nada,
non hai più tempo leucosia
non hai più luce né
ciò che in principio,
ma tanto bianca è la fine

da: Il viaggio inutile (2003)

Il viaggio inutile
(A qualche viaggiatore)

Come uno sciame di treni, a notte
nave che salpi (è bianca)
su nuvole vincente forse l’ala,
e la paura, così,
meglio la mongolfiera, dici,
l’astronave del futuro,
ma parlami del vicino che ride, ora,
dell’esilio dei compagni,
degli inutili vecchi,
o il bianco vaporetto ed un castello
di sabbia, Madre,
così iniziò la nostra guerra
un andare e venire, noi,
dalle caverne di preistoria ai
ricoveri di roccia, alle foreste,
e l’uomo alla finestra tace,
la nevrosi dei giorni tace,
se fosse una chimera, penso,
ma non fu questo, il viaggio,
non fu di quando solo due mani
e la pagaia (breve),
una pala nell’aria
una pala nel mare,
la stessa fine a sera
un occhio alla fede, così,
lo stesso Papa, e non so
le parole, i segni, le nebulose
non so più i facili anni di latta,
ragazzo che arrossivi per niente
occhi tondi e naso a pagliaccio,
di quando solo due sogni
e un incubo
a murarci vivo il cuore,
ferrovia di cartone,
ma non fu questo il viaggio,
quel popolo scomparso
l’averti per sempre perduta
compagna morta e una cometa, no
allegri naufragi,
il vento inutile, e
chi tradì Anna Frank?


Totem, tabù e Infanzia

Totem, annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroshima Dio mio Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino, è la fine


Eurobarcarola

Senti, gondoliere per le tue lagune
quei remoti canti, i giorni della merla
e il cuore freddo passons passons puisque tout
passe, dalle Alpi agli Appennini, dal Reno
Oktober fest, al Delta e alle sue nebbie lì, o
dove les neiges d’antan (avanti c’è posto),
noi turisti a Dachau matricola abrasa
a rivedere calcinar le ossa, il forno
acceso come quel pane fatto in casa,
Mater dolorosa, rotula e menisco
da cambiare presso Picadilly Circus
e una sterlina per mangiare in due, in quattro,
Big Ben, fu dura quella notte a Coventry
e ancora un poco di macerie nei cibori
senza ostie ormai dei prevosti la gran fuga,
férmati a San Pietro, a Nòtre Dame, in piedi, e
qualcosa di gotico per poco o niente,
non si sa mai, al mio computer spento i vinti,
ed io scold! Leggo Praga in silenzio. Ponte
Carlo, da impazziti violini agli ultimi
carri armati con granate, antiche schegge
nel riso dei pagliacci (un grande naso un neo)
dove il Danubio blu s’arrossa per un poco
e passa, magiari amici per l’estremo
dei borghi antichi magia e i castelli
in cima lacere bandiere del Nulla o,
ma chi a stazionare nei metrò d’Europa
ai nostri insonni metrò di barboni e noi
distinti, lungo la Senna bouquinistes
i miei vecchi libri vi chiedevo all’alba
giramondo e solo fin di mezzanotte
al sole, giù giù fino al tuo Partenone,
Pericle, un giorno di filosofi attenti,
quei molti Cesari, cave canem, i nostri o
il colostro d’ancillae e pergamene a iosa,
forse L’Evo Medio, incruscate adunanze,
e poi non ti prende voglia di sapere
se l’amico d’un tempo è ancora vivo, là?
meglio lettori ad Oxford o alla Sorbona,
semmai, con l’ultimo volo a destra di chi
scrive una fine, una memoria già andata
(come il bianco vaporetto che salpava),
spento compagno di banco e di lezioni),
dal Tago alle dolci sponde in barcarole
d’addio, un concerto a San Lorenzo forse,
ràsati per bene, ma vince il cantore
della Sistina che ascolti rilassato
per quel tanto di transfert (a Vienna) Sigmund,
coi tuoi lettini d’amore sempre pronti,
ma pure il Crocefisso alle nostre spalle
quei piccoli prefissi o appena un suffisso,
narcisista dominante o dipendente?
that’s is the question, ovvero è qui il dilemma,
né dove Malone Muore o quei Dubliners
o lungi dai lindi cimiteri inglesi
dal gioco dei sapienti croupiers l’azzardo,
non sei tu, ragazza d’aria, a rimirare
le vetrine d’Europa, il nuovo corso
(un euro oggi, uno domani e vivo)
dove l’argot, lo slang il vernacolo e via
la bestemmia di mio nonno a maledire
il dialetto, poi ci saranno i cotillons,
Il processo (“Qualcuno doveva avere
calunniato Josef K. se quella mattina”),
e semmai pure i girasoli di Van Gogh
le belle mazurke del pallido Chopin
o Il porto sepolto le bigie tartane,
(battaglie perse non sono le peggiori
fu solo un lungo malinteso la Storia) e
Napule pur’essa requie va cercanno e
che oscure guarigioni per fede a Lourdes
anche noi, Madonna, un libro e un editore,
stasera dovrò rasarmi bene, per
l’omino vecchio e lacero che nel metrò
ci vende lupini e l’olio santo e poi
sous le Pont Mirabeau coule la Seine,
ma ora attento, gondoliere briaco e stanco,
da Nord a Sud, soltanto eurobarcarole
e via

da: La materia dei sogni (2004)
Vestimi di sogni

Ma quando sarà l’ora vestimi tu
di sogni, piano per non lacerarli, e in
bianco e nero sarà meglio sognare,
non ridere troppo di quei fantasmi né
delle bambole in vetrina, i lustrini e
quanti pupi, quanti in sogno doppiati
d’amore, vestimi d’aria e d’inganni
la piccola vita spenta nel sonno,
vestimi tu d’ombre e di sogni d’oro
oggi che spesso devo mendicare
un po’ d’affetto, i giorni della merla
vana risposta di parole e realtà,
vestimi solo di attimi e di sogni
quando sarà l’ora, fa piano tu, qui
col sogno e l’aria cantami una nenia
e dì che avevamo le ossa di vetro
un rosario di silenzi, la vita


Altre geometrie
(a Perlasca)

Quando poi si dovrà andar via supini
allora mi vestirai d’argento e oro,
seppure diranno, uno come tanti
la birra da bere insieme in quel bistrot
l’ultima volta, pensando ai frattali ad
altre geometrie, mi spiegavi, così
diverse dall’euclideo dei tempi miei,
l’antico orologio della torre, sai,
il pendolo intarsiato di famiglia
dentro chiese sconsacrate oggi preghi,
ancora preghiamo, soli, di sera, e
non tanti rosari ora ci diciamo,
coi morti, non più quel nostro clown al circo,
però vestimi d’argento e da pierrot
coi voti fatti al Santo protettore
mio paese di chierici e di salici a
predicare l’astinenza e salvarci,
gli innocenti girotondi sepolti
intorno al vecchio noce delle streghe,
ricordi?, orme e orme sulla neve fresca,
vestimi tu, non altri, tu, d’argento
con l’occhio al caro genoma nel niente
svanito di quelle scarne profezie
tumori adiesse denutrite magie
per un terzo, un quarto mondo, troppo alto
il prezzo per altre geometrie, il diennea
dei padri, il sangue, non mente il sangue, no,
e sempre aveva sguardi al mio presente
lievi carezze al tuo futuro, ed ora
non sappiamo se chiamarlo Dachau
se sarà maschio il nascituro, madre,
non era questo, no, il progetto di Dio,
la bella estate solo cioccolato
mangiavi, in silenzio e nessuno a dirne
a ridere di quelle tue trovate
ai caffè di Vienna, di Freud e Musil
con la fine e i dolci nel cartoccio, sì,
domeniche di maggio a mezzogiorno,
e lascia il paso all’uomo con le grucce
lui è certo ariano, la buona razza,
ma vestimi d’argento quando sarà
senza parlarne in giro, nei simposi,
avevamo un sacco di sogni, infatti, e
tu, ora che non temi le altre geometrie,
nella mia strada arriva l’arrotino
ma è tardi, col treno di latta io parto,
né poi ho vecchie lame da affilare, né,
solo semi di mandarino in pugno,
Perlasca, sul Danubio morte all’ebreo
l’anno che cercavo schegge di guerra
per l’altana, e un dì, pater premuroso,
ne danno il triste annunzio, la salvezza,
qui raccatto la spugna per la doccia,
in trincea dovevi tirare per primo,
raccontasti una sera accanto al fuoco


Da tempo

E da tempo non dormiamo la notte
abbiamo perso la forza negli occhi
non vediamo le persone vicine
diciamo così poco il nostro giorno,
da tempo non ricordiamo le madri
finite in solitudine e castità,
non si mantengono più le distanze,
non ricordiamo più i sogni, da tempo,
né quelli a colori né in bianco e nero
ma Uno dalla voce roca, l’incubo,
al ragazzo che arrossiva per niente e
così dimentichiamo troppo in fretta,
e neppure le lapidi leggiamo
gli oroscopi, le profezie ignorando,
da tempo il succo amaro del pompelmo
cerca di insidiarmi le mattine e te
a colazione, senza una brioscina,
l’auto che non va, cambiamo dimora,
e da tempo non facciamo l’amore
né sappiamo se lo faccia il vicino,
senza il coraggio di chieder notizie,
da tempo facciamo lunghe aspre file
orecchio bene adeso al cellulare,
ma nessuno che ci telefoni più e
ricordi i giochi, i banchi della scuola
non ridiamo col gusto d’una volta
quando il merlo saltellava sui prati
o l’ospite aveva un cappello a lobbia
come quello del nonno cavaliere,
e da tempo non sappiamo se tutto
questo finirà presto oppure più in là,
se allora avremo qualcuno accanto a noi
a recitarci una cosa distesa
ed in silenzio, in punta di piedi
una prece

da: Io per le strade (2004)
Come sarà

Come sarà questa morte, mi dico
nei momenti bui, di grige paturnie,
ma tarda la risposta, è latitante,
non è cosa da figurarsi, questa,
se poi la ragazza accanto che ride
o qualcuno ti aspetta per la cena
domani mi cambieranno il pace, e tu,
ma non chiedere anzitempo altre nuove
fra mortiammazzati e madricoraggio
le nuove cellule staminali,
ricordiamoci i lumini per papà
l’oscuro passato da trafugare e,
se bevi, pensa alla sete dei negri, oh
loro sanno, come sarà la fine,
la bimba è straniera, non so di dove
e ancora nelle coltri mi rigiro e
penso a una che indossi fumetti e sogni
stanotte, vestimi d’argento, all’alba


Oggi nel metrò

Non è più come allora, come quando
in braccio alla notte brava e alla città
nuda, scendevo, la vita mirando e
te ragazza, fiera del suo sorriso,
non era come oggi che qualcuna,
fissandomi, il posto qui mi cede ormai
come a un provato nonno, ragazza,tu e io,
è vano schermirsi con un grazie, mi
avvilisco, al tempo tornando che fu, ai
serpi in amore fra l’erba, i fiori e me,
e insisti nel metrò, ragazza d’alba,
insisti, e accetto ora come sono, ma è
lei a non esser più quella dei giorni che
dai Carmina Burana sorrideva,
che acquattata in un neurone della
mia memoria non ha il cellulare ed io, e
di là non passa l’arrotino, di là,
alla stessa ora ci vedremo, ragazzi,
forse domani, forse mai come oggi
nel metrò, stessi graffiti, gli stessi
amori, ma cambiano i barboni, ma
sparite sulla città le rondini,
metrò, abbiamo una voglia di fine
sulle guance e i miei racconti inediti, il
sogno di farsi belli per qualcuno,
sai, hanno messo una bomba in un vagone
oggi nel metrò, dite una preghiera
anche per il ritorno degli ostaggi

da: Il tempo del seme (2005)

L’urlo
(a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare)

Urla, mi dicevo,
bleso, lento, roco
ma che urlo è mai questo
se non esce non tocca non fora
i vetri non rompe del giorno
Viaggio al termine della notte,
e che dura spina è questa
mia fiera impotenza, Mater,
urla, mormoravo
la tua incerta storia
un fatuo blasone
malsani quartieri di periferia
la fame degli Avi, urla,
il viaggio inutile,
dove, uccello, di guano pietoso
ci coprivi ai socchiusi abitacoli
smog a tutti un po’ di smog,
futili miti alla battigia
come insepolti ossi di seppia
o vanesie parole, urla
il misero tempo che resta
il grido canuto, ormai
le stragi annunziate
e fanfare di Nada sovrasta
sovrasta quasi potente
l’eroe in panchina e bretelle,
né ignorare sul magro ballatoio
del condominio il sacco dei rifiuti
le staminali cellule domani,
ma urla, mi dicevo, per Dio!
la carne incombusta
l’antica rosa nel bicchiere
l’Olio di Lorenzo per guarire,
quante viltà soprusi osceni
a me ululate, solivaghi lupi
alle poche Foreste,
in memoria,
le ossa dei vinti urlate quando
cenere dai forni soffiammo con cura
e ancora ci ricopre,
noi malfermi viandanti
sul breve ponte
fra due Nulla eterni
transito interrotto
il mondo in una notte
la parola negata
e non servono i profeti,
urla come la ragazza di Munch,
bambola orante
che dal coma ci risveglia
ove non seppi urlare,
si dispensa dai fiori
e dall’Ultima cena


Pesci rossi al Policlinico

Sembrano tranquilli i pesci rossi
nell’acquario,a perle d’ossigeno intenti
e senza tregua montano
come un lustro mio pensiero
dove la prima radiazione attendo,
in fede, alla mia vertebra bacata
bianchi padiglioni d’un giorno
di metastasi compagni
alla curva del mare, vedi, alla persa
battigia e alghe non v’è più tempo,
un roso polmone dal cancro, il mio vicino,
e lieve tenta eginetico sorriso
non so se ai pesci o a me,
Malone Muore
da solo, e non v’è tempo, non v’è, e
noi proviamo un poco a
restare in vita ancora
col poster d’una vita in due, in tanti
i fiori secchi della ricorrenza
e poco altro, poco


Una vita

Non basta una vita, si dice a volte
senza sapere nemmeno cosa sia, a
me pareva il passo stento di mammà
il bonario sorriso di mio padre
che giocava l’ambo e non vinceva mai,
e uno crede che siano i nostri sogni
quando si sveglia felice all’alba, e poi, o
se scrive il nome col dito sui vetri
opachi d’inverno e fuori le care
nevi all’improvviso cadute, o se zitto
si rende conto che non è bastata
una vita per contare le stelle
e conoscere il pendolo di Foucault
giurare nell’utopia ad occhi chiusi,
né una vita mi bastò a capire se
sposai te, una madre o una sorella, o se
se la donna che ballava coi lupi,
l’ultimo dei Moicani fu un bel gioco
e tutt’intorno al noce il girotondo,
oggi i miei figli leggono Hary Potter,
dove cerco la mia parte di stelle
non voglio che tu mi veda morire
me ne andrò via da solo, nottetempo,
coi Ragazzi di via Panisperna


Vane stazioni (Santa Maria Novella)

Ore sedici inutile stazione
se uno come me oggi non parte, forse,
dovrò rasarmi per bene domani per
viaggiare forse, svanito che sarà qui
il nostro, il tuo, il mio broncio, quelle rabbie
di sposi maturi al gioco del ricatto
avvezzi, ma ancora insieme partire
dove un occhio al bagaglio mi chiede
la straniera e ride ove le suorine
in partenza e attese, e io pochi versi scrivo
o invano aspetto eurostar in ritardo,
non uno per me giungerà, calmi arrivi
scrive in lucenti memorie il pannello
ma righi oscuri prediligo, immemoria,
ora stazione sei di chi non parte al
futuro, stazione di chi non giunge mai,
l’inutile viaggio se altre albe attenderai
ben rasato da certi luoghi andar via in
seconda, scomparto per non fumatori
ci accoglierà domani e ancora broncio
color rosa ricatto, ancora in seconda
affratellati come i giorni in fuga o
suore che beate ora in Gesù vi alzate
col crocefisso solinghe ad andare,
partirò anch’io, a un’ora che ricordo e
rasarmi a puntino dovrò al mio treno
provvisorio e anche tu col tuo bagaglio,
un po’ scura in volto tu verrai e all’arrivo
non uno che sappia, mie vane stazioni, a
treni non miei ora lascio il congedo
un po’ bianco, forse canuto, e un po’ stanco e,
e non uno che ami le vane nevi
se domani come tanti un ritorno,
sarà domani che viaggerò rasato e
qui anche il dolore partirà, da un dente,
con me, stazioni, e così rincaso, già,
parlare a gesti no casa, barbone,
e a quel tuo angolo di strada presto si fa
sera, per tutti, e ignari andiamo (io vado),
ma dica solo il nome, dell’abbonato


Finale di radioterapia
(Ad una équipe di Radioterapisti)

Così finiva
la mezza epopea dei pesci rossi
e de l’Acceleratore,
quasi con tristezza,
l’antico ragazzo che a se stesso
giurava di guarire,
in silenzio,
fino all’estrema radiazione
o alla sconfitta,
ma apri lo scambio, ferroviere,
ché ora passa il suo treno
quasi al buio, gracile promessa
di futuro
sotto I cieli della sera
una rossa Luna a tracolla
e la cartella coi versi
in Terra di Polonio,
o per sempre una prece,
Finale di partita
ammen
in rosso
e non passo


A Gregory Corso
(In memoria)

Gregory Corso, è sera,
Fra vino grigliate e belle donne
(tutte le avresti amate)
mare ebbro a Postano
e i settenari per te, Gregory,
Beat Beat Gasoline e noi,
“Non so quando i sensi
di gemere smetteranno
e patirà la luce il cuore”,
crudo Caos il Mondo e tu l’amasti
nel fondo d’un bicchiere, tu
nei fumi d’una silente droga
la tua carezza incauta
e l’esile anima donasti,
nessuno sa quando l’alba spunterà
e il reggimento partirà, il tuo, il mio
“Beat Beat, pronunciamo Bit
ma adesso non importa”
se ancora hai notti nella barba
e questo Mare in tasca,
“forse capiranno dopo“,
lune di sbieco è nostra la Terra
stravolta, una clessidra,
lasciate,
anche per Gregory,
un messaggio
prima di partire


Chiedere scusa
(A Pochi)

Uno mi calpesta la vita
Ma subito chiede scusa, ecco,
e non vedo alcuno volgendomi
indietro, come indietro tutta,
il nostromo, e così la nave
dei folli, l’antica cipolla
del nonno e tanti secoli indietro
di Storia (patria) di addii
quei giorni agli ordinari treni,
al porto, incerto emigrante
lo zio, deserta infanzia la mia
dove calcinarono ossa, Pater,
con mille scuse ai clown ai nani
prigionieri d’ospizio anch’essi,
così ai claudicanti ai vinti
da breve sonno, da spavento,
ma tanti inutili riti scusate,
cerimoniali per sopra e per sotto;
le lunghe farse da sera, eleganti,
l’ultima volta in piedi, tremante,
le prove d’autore scusate
un neo che diventa tumore
la luna è insorta
la pipa è spenta
morta la cavia,
mi preme il pianto
nel poco spazio
che resta
pioggia dirotta
dicono a New York,
io chiedo scusa
per e-mail
e divento blogger
nel terzo millennio
dopo tanto,
l’apolide che fui


L’olio di Di Lorenzo
(A Lorenzo Odone)

Chi più ti ricorda, antico Lorenzo,
giovine e fermo ancora ma il buon olio
di tuo padre Odone Augusto, l’olio con
calvario, acido oleico, erucico ormai,
dieci era quel malato cromosoma
ventimila e uno solo destinato
e così fu la tua leucodistrofia,
solo sei anni avevi e nessuno lo sa
e la mielina, dolce Lorenzo e olio,
progetto oggi mielina oggi, ma attenti
nessun oblio, nessuno scordi l’olio
di Lorenzo la sua triste eredità,
due anni soli ti dettero di vita
ma caparbi i tuoi parentes, quel pater
intemerato qui ti ha ancora vivo,
alzati e va, la fede t’ha salvato,
e non parli non ti levi, era tardi e
mai più camminerà, solingo pater
senza medaglie fra i nostri tanti eroi,
ma altri col tuo olio guariranno
seppure mai più udrai vociar Lorenzo,
era un piccolo bimbo, e parlava
ammiccava ancora, quei gesti il gesto
la sua tenera mielina è strutta,
e non fecero a tempo quei due acidi
oleico erucico oleico erucico
tossici grassi a distrarre, Lorenzo,
quel verdetto mortale, era tardi assai
adrenoleucodistrofia e pochi, sai,
a sentirlo, saperlo, il male oscuro
dove io piangevo il figlio che mai volli
che mai difesi, pater amoroso,
e come potevamo una mielina
da rigenerare, come potevo
senza figlio né domani, Lorenzo,
e oggi, domani, mielina rifarti,
beato l’uomo che sua sorte ignora
qui ove indifferenza più che morte può
e crollano torri, crollano borse
ma dei meno indifferenti quell’olio
qualcuno guarirà, non te Lorenzo,
la mielina tua finita come i giorni
terribili, e oggi, Lorenzo, il mio cancro
dirò a te immoto ragazzo più muto
e nemmeno la Croce da portare
al Calvario, noi, isole e isole
in Terra d’altri, ascoltaci o Signore
pane quotidiano e olio di Lorenzo
ammen

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