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giovedì 20 maggio 2010

Retrospettiva poetica di Gianni Provera

Fu Giuseppe Zagarrio nel suo Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980, Febbre, furore e fiele, Mursia 1983, a collocare Astuccio da cherubino (1) di Mario M. Gabriele, nella linea novecentesco spiritualistica, in particolare quella più eticamente severa e torturata, di radici eliotiane o più in specifico reboriane, (da una recente dichiarazione del poeta, si veda questa ipotesi e pratica della poesia come un’attesa tutta reboriana del significato della vita, per una segreta unificazione della parola al metamorfico spirituale e al metastorico universale, in Quinta Generazione, nn. 79-80, gennaio- febbraio, 1981, pag.32.
La sintesi critica esposta nei capitoli Metodi più radicali, (pag.309) e La morte domestica, (pag. 585), rileva pure come il volume di Gabriele sia tutto attraversato dalla mesta musa larica-, dove al di là del commosso partecipare (che è un fatto del tutto ovvio), quel che colpisce è il modo di insicurezza con cui la partecipazione si risolve:“l’inquieta incertezza”, il “dubbio”, la “titubanza” (sono motivi lessicali egemoni) sulla reale consistenza di un rapporto sia pure dialettico col nostro caro estinto; da qui la vicenda del “fingersi”, “dell’attendere un segnale”, perfino dell’ostinato “attendere nel vetro che s’incrina / il tuo graffio dell’aldilà” e del disagio, dell’interrogare, del rinunciare, dello stesso assurdo convincersi, sentire come l’immagine cara vada sempre più appartandosi in” penombra”.
Se Astuccio da cherubino è la testimonianza di un necrolirismo sinesteticamente mediatizzato da un io intorno ad un lutto domestico e privato, il volume successivo dal titolo Carte della città segreta, (2), è la continuazione della metafora della morte, sullo sfondo di città e metropoli, dove scorrono codici espressivi plurilinguistici, che aprono ad effetti sorprendenti le sequenze analogiche combinate in versi dalla cadenza inconfondibile e personalissima.”Libro dunque composito, lievitante, aperto a riflettere i quotidiani percorsi della solitudine, a registrare ascese e cadute, a reinventare e riannodare su un filo lirico le cifre del dare e dell’avere, entro una geografia segnata da luoghi mitici, come Tebe, Smirne, Medina, Liverpool e Brema. con echi e suggestioni di grandi maestri novecenteschi, italiani e anglosassoni.”(3)
Oggi, con una più attenta disamina critica, si potrebbe individuare in quest’opera l’approccio iniziale alle espressioni e comunicazioni presenti nella tetralogia.
Leggiamo, intanto, alcuni passi tratti dalla prefazione di Domenico Rea in Carte della città segreta: “Gabriele è un poeta calato come pochi nel nostro terribile momento di vita. Ogni suo verso è un ripensamento dell’intero arco frastagliato della poesia del Novecento. Gode di grandi empiti, di estraniati momenti di fortuna. Ogni sua lirica è una costruzione in vetrocemento armata. E’ un poeta che conosce il tempo, che conosce la durata del giorno, che ha un orecchio finissimo per le intermittenze del cuore, per le sue pieghe, per le sue celebrazioni in rosso e in nero. Nella luce, Gabriele, non dimentica mai l’ombra del tramonto e sa camminare nella notte.”

All’alba qualche striscia di fumo ancora usciva
dagli ammassi di pietra e di rottame,
un vecchio cambiò patria, dimenticò le ossa
miste a radici di sughero e di cactus,
così ci dissero tornando nelle case
(alla settima di Beethoven,
tirata avanti da piano e violoncello
trovammo l’assurdo dei lapilli),
senza più sogni collodiani,
poi tre volte cantò il gallo e tre volte ancora,
senza che nessuno fosse rinnegato o crocifisso
(intanto dischiudi gli usci, tocchi i capelli radi e bianchi,
arresta le metamorfosi del tempo),
mentre molti già si piegavano al dolore
o lo spezzavano come fuscello tra le dita
e qualcuno, raccogliendo quel poco che restava,
se ne andava per viottolo e sentiero,
dopo la Pasqua che da molto più non viene
sul fronte delle genziane e oltre.


“Di affabulazioni come queste (o forse anche più suggestive) ce ne sono tante nelle raccolte di poesie di Gabriele, che alla fine si è tormentati dal dubbio di non aver citato bene e quella più significativa.
In realtà il senso dello spirituale che guida l’autore lo porta inevitabilmente a ricercare simboli e paesaggi nei quali, la ricognizione dei”truci fatti di giornata”, sia linguisticamente bene impostata, resa amalgama viva e palpitante nell’evocazione del mitico e misterioso personaggio (e paesaggio) che deve apparire per spiegarlo e illuminarlo coi propri detti. Come lo scioglimento dell’unità di un pensiero conclusivo ricercato da Clemente Rebora nell’ascensione delle Alpi nevose, o con l’emblematica presenza degli ospiti cerimoniosi assetati di contemporaneità nella poesia di Giorgio Caproni.
Ed è in questa lievità che si percepisce anche la poesia di Bouquet e di Conversazione Galante, come a voler dare una pregnanza definitiva alla cerimoniosità stessa, a cui il poeta, evocativamente, ambisce — cerimoniosità, seppur transeunte (decadente?), tutto sommato ancora necessaria a rinnovare il mito della vita e a trovare nuovi spazi alla poesia.
E qui, ancora una volta, anche per Gabriele, soccorre Blake, e Burns, Wordsworth e il vecchio marinaio di Coleridge, con tutto il movimento nato al seguito di Ossian, fino ai preraffaelliti, nostri antenati, questi ultimi, di decadenza e di simbolismo.” (4)

Il titolo Carte della città segreta è già significativo di un percorso simbolico che si effettua in una città o paese dell’anima, dove le carte costituiscono la mappa di un avventuroso viaggio “che deve iniziare e intanto si svolge, che è trepida attesa ed insieme è memoria, progetto di itinerario e nello stesso tempo relazione del percorso esistenziale” (4), che s’infittisce di appunti e note, di reportage e historie, di giardini di supplizi e punti di fuga. “La città segreta di Mario Gabriele balugina sempre al di là di un muro d’ombra, è sempre in un altro paesaggio, in una primavera da spiare in mezzo ai rovi. E’ una continua macerazione per squadrare l’ostacolo, per sciogliere il dubbio in agguato quando le penombre antelucane non accendono ancora il chiaro folgorante del giorno o la primavera tarda a sbucare dal fiorame: “capita alle volte / che la bufera annulli i confini, / offuschi i cari nomi nella mente, / metta alle strette il bucaneve / che tanto vuol fiorire “. (5) La registrazione di questo percorso avviene per mezzo di una scrittura metaforica che si adegua col variare delle situazioni correlate al mondo interno e a quello esterno o altro, quest’ultimo meno visibile, eppure ipotetico e ipotizzabile nel fluire di un discorso che diventa racconto,in un processo teso a raggiungere una dimensione sovrastorica nella quale vengono fissati con notevole spessore simboli archetipi e universali.”(6)

Ne Il giro del lazzaretto (7) gli scatti psicanalitici prolungano l’atmosfera di attesa verso nuovi “passi-passaggi, prima ancora che appaia l’alba / che si faccia cerchio intorno ai gelsomini al largo dei carriaggi e di qualche piccola lumière.”(pag. 20)
L’azione preparatoria ad una eventuale sortita verso un mondo da conquistare, immette continuamente paure e dubbi, per una verità da scoprire, quando le fasi di armistizio portano nuove strategie d’attacco. E’, insomma, lo stesso schema poetico che si rileva in Moviola d’inverno (8), dove prosegue “la storia perenne e provvisoria di vita e di morte, che tende a farsi immagine di sopravvivenza e di suspense.
Come in una sequenza cinematografica, le parole snodano i loro intrecci segreti, confrontandosi, opponendosi in un flusso continuo di coscienza fino a sfociare nell’eterno estuario di una rechèrche à rebours e in progress”. (9) Anche in questo volume la denuncia dell’esilio e il desiderio di indagine in un altro versante, rimangono elementi determinanti come messaggio cifrato in un”allucinato speculum esistenziale, nell’intimo scambio di idea e d’immagine, di memoria e di profezia, di dialogo e di monologhi ossessivi”, (10) con un sommesso periodare intorno alla dialettica dei vivi e dei morti visti nella loro particolare condizione di trasmigranti e trasmigrati.
“L’affabulante aria che si respira, evoca mitografie, chiamate subito a misurarsi con la minimalità di una cronaca avida e assurda. Tra assoluto e relativo, tra scontrosità e confidenza, si logora e si risolve la tensione di un canto, che invoca la città della poesia come centro e periferia del mondo, in un Molise che incontra l’Europa in un comune destino di vita e di morte”. (11)


TETRALOGIA E RASSEGNA CRITICA

Espressione e contenuti diventano con Le finestre di Magritte, Bouquet, Conversazione Galante e, ora, con il volume Un burberry azzurro, (12) un progetto poetico che “introduce nella letteratura italiana lo stile anglosassone e, in modo particolare, nordamericano, in cui la tradizione si pone come elemento illuminante di un discorso che dell’esperienza interpreta i lati arazionali e fantastici in uno stile di rapidi accostamenti ed impressioni folgoranti.” (13)
Ed è lo stesso autore a chiarire il motivo della sua scelta linguistica con una nota a Conversazione Galante, nella quale egli precisa i termini della ricomposizione del significante,”attraverso nuclei oggettivi diversi, per rinnovare il mito della vita lungo le strade del mondo, i cui eventi non si discostano molto dalla nostra sensibilità e cultura, pur essendo qui espressi con innesti linguistici di tipo anglosassone nel tentativo, sempre più difficile, di trovare nuovi spazi alla poesia. La forma adottata è estranea a qualsiasi concetto di “moda” poiché si è voluto ricondurre l’esercizio della scrittura alla “libera invenzione della lingua”, anche se poi ogni mezzo adoperato in poesia, si logora da sé, subendo la contaminazione del tempo”.
Fissati così gli obiettivi e la funzione del linguaggio, l'ulteriore prova è "l'attesa che il gallo canti il suo messaggio definitivo, l’ultimo che è anche una sentenza, la soluzione finale per l’uomo.” (14)
Operando su contenuti e forme, Gabriele riesce a creare ambienti poetici, autoctoni e cosmopolitici, pervenendo ad esiti di scrittura variabili, con propri cronòtopi letterari, che si addensano anche in Un Burberry azzurro nel quale prosegue la dialettica intorno al passato e al presente, nella percezione rampicante del Nulla, attraverso testi di combinazione intralinguistica e di malumorosa visione del mondo.
L’autore fa quadrato intorno alla sua poesia pervenendo ad una tetralogia in cui il tema dell’esistenza è condizione esegetica dello smarrimento, tra prefigurazione del futuro e senso negativo del tempo, con presenze femminili che rimarcano una storia nella bipolarità di un linguaggio biodinamico, in cui anche i correlativi oggettivi si prestano, adeguatamente, ad altrettanti riferimenti dell’anima, come in una poesia filmica, contrassegnata dalle sequenze della vita.

Le finestre pittoriche di René Magritte con le finestre poetiche di Mario M. Gabriele

Lowell, Massachusetts- E’ probabile che il concetto figurativo del doppio, la figura riflessa nello specchio d’acqua, risalga al mitico Narciso. Ed è anche probabile che lo stesso concetto sia stato realizzato in arte, e per primo nella pittura, dal Velàzquez in quel suo straordinario Las Meninas (Le damigelle di Corte), che raffigura l’ingresso dell’Infanta con le sue compagne di gioco e i nanerottoli nello studio del pittore nel mentre ch’egli sta dipingendo il ritratto di sua maestà Filippo IV e consorte.
Ma è René Magritte, tuttavia, che nell’arte contemporanea (chiamiamola pure ”secolo scorso” ha creato una scuola super surreale di quel “riflesso” dal vero al creato, dal reale al figurato attraverso un qualcosa chiamato finestra: uno spazio vuoto messo in cornice, dal quale puoi affacciarti, e se vi è un vetro davanti puoi anche rimirarti. Magritte, del resto, non ha fatto altro che raffigurare un uomo con la bombetta, se stesso, nelle sue infinite forme di partecipazione nello spazio della cornice, ciò che forma la finestra.
Un critico, Werner Haftmann, chiama questa funzione da parte dell’artista metamorfosi dell’oggetto. Lo stesso Magritte, fattosi oggetto e soggetto, cercò di quintessenziare se stesso in una conferenza del 1938 con un titolo letterario/simbolico “La ligne de vie”, la Linea della vita, cioè (anche) dell’animazione, della vivacità. Ora prendi il recente volume del poeta molisano Mario M. Gabriele (Campobasso, 1940),Le finestre di Magritte (Bastogi, Foggia, 2000) —Collana di Poesia Il Capricorno), che contiene 43 composizioni in versi o finti tali con narrative allusioni di racconto, e prendi 43 quadri del pittore belga René Magritte (Lessines, 1898-1967) cercando di comparare non tanto i due generi messi a raffronto -quello espressivo figurale linguistico e quello espressivo figurale pittorico- quanto la sottile bioluminescenza che intercorre fra i due modi di raccontare/raffigurare.
Ci si avvede subito che quest’opera poetica del Gabriele è non solo candido omaggio allo spirito inventivo di Magritte ma di lui ripercorre, attraverso il proprio impasto poetico, il percorso culturale dell’artista: espressionismo, futurismo e cubismo, dadaismo e surrealismo, e soprattutto un fenomeno intrinseco ma caratteristico del Magritte quintessenziato da segni e simboli derivati da una realtà ribaltata nell’ironico banale: ma questo si amalgama con grazia nella poesia “socio-storico culturale” di Mario Gabriele, in tal modo creando “medaglioni memoriali” — in pratica informazioni — e soprattutto un “linguaggio” spesso plurilingue di tabloids.
A p. 23 vi è un medaglione-informazione, soffuso di allusioni a pastiche plurilingue che riguarda costui che scrive, ma è allo stesso tempo chiaro riflesso di struttura, intima ad ogni segmento del libro:

Ora che Louis, Billie ed Ella sono nel coro degli angeli
e nessuno più crede che la vita sia rimasta come prima
da quando hanno lasciato per sempre New Orleans e Storyville,
credimi, Kid,
anche se Giose con Jazzymood
mi risveglia nel cuore raps & blues, rags & stomps,
nulla, neppure i tuoi marrons glacès
presi ad uno ad uno come Forrest Gump alla fermata d’autobus
sono pari alla dolcezza di Louis, Billie ed Ella quando cantano
What a Wonderful World, Blue Moon e Sophisticated Lady.

Il libro di Gabriele riporta in copertina La Condition Humaine, un olio su tela di 100 x 80 cm. che Magritte dipinse nel 1933 e, in effetti, raffigura un finestrone senza imposte ma con due lunghe tende di color castano ai fianchi, che affaccia su di un paesaggio con prato di verde cupo stilizzato à la Pinturicchio delle scene statiche, mitologiche: un alberello con rami a raggiera di verdino chiaro, una collina oblunga che abbraccia i due lati del quadro e un cielo alto e vasto con nuvole soffici, à la Tiepolo. Tre elementi estranei (apparentemente) a quel quadro di natura sorprendono l’occhio: quasi nel mezzo del cielo vi è un oggettino geometrico di color castano, a destra del prato vi è una striscia bianca sovrimposta che assomiglia a un nastro bucherellato, e al di qua della “finestra” descritta, dove inizia la stanza, vi sono i tre piedi di un cavalletto.
Ci accorgiamo solo adesso che la finestra è una finestra e allo stesso tempo è un quadro che raffigura una finestra. Torniamo dunque al “riflesso” di “vero” e “creato” visto in Velázquez nel suo “Las Meninas”, di cui sopra. La “condizione umana” di Magritte pare dunque soprattutto fatta di condizioni del vedere la realtà, la quale non è mai unidimensionale ma multipla anche nella limitata prospettiva visiva. Qui abbiamo una finestra + una finestra, quindi il titolo del libro, Le finestre di Magritte, con il suo contenuto.
Il fascino Magritte pervade il cuore del mondo, e può essere immediatamente riconoscibile soprattutto attraverso l’emblematico quadro del 1929, La Trahison des Images, (Il tradimento delle immagini, olio su tela 60 x 81 cm), che raffigura una pipa di osso ricurvo (probabilmente su sfondo giallino crema) con sotto la scritta, a guisa di didascalia, “Ceci n’est pas une pipe” (Questa non è una pipa), su cui - e con lo stesso titolo - Michael Foucault (che a lungo corrispose con Magritte) scrisse una monografia essenziale (Montpelliers: Editions fata morgana, 1973).
In concomitanza, con una lettera del 9 settembre scorso, Mario M. Gabriele dettaglia a questo suo amico in America l’implicito fascino del suo “libellus”, come lui stesso definisce Le finestre di Magritte, che merita di essere trasmessa, per la stessa ragione anche al lettore: “Si tratta di un volume nel quale recupero alcuni eventi e personaggi del secolo appena trascorso, con particolare riferimento a quelli storico-rivoluzionari visti come minoranze culturali che reclamano la libertà, prima di essere soppressi a piccole dosi di genocidio scientifico, il tutto attraverso sigle, medaglioni memoriali, lacerti, spezzoni, schegge, in un caleidoscopio di citazioni e frammenti. Il volume sembra che mi sia stato consegnato dai trapassati e dai viventi. Non dimentico nessuno. Tutto è venuto come vien l’acqua nel cavo della mano.” E qui giunti, parafrasando una frase del critico magrittiano Siegfried Gohr, potremmo ben dire che per René-François-Ghislain Magritte come per Mario M. Gabriele la poesia incomincia là dove il probabile e il familiare diventano misteriosi.
(Giose Rimanelli) da: America Oggi, Lowell, Massachusetts 2001.

Questo poemetto — penso che così si possa considerare, per la sua unità di stile e per il sacrificio del soggetto, oltre il lirismo, ad una misura, come dire? pubblica — sorprende per la ricchezza delle tematiche e lo stravolgimento linguistico (plurilinguistico) pur senza la caduta in asintattismi troppo arditi e senza spreco di neologismi. Le tematiche, i richiami sono ricchissimi e perciò ambigui quel tanto che basta per lasciar lievitare il testo in armonia.
(Gio Ferri), Lesa, 2001.
Un libro veramente molto interessante, da tutti i punti di vista: linguistico, stilistico, di “contenuto”: Una poesia tra suggestioni letterarie, filmiche e musicali: un testo — come scrive l’autore stesso nella nota introduttiva — che riesce ad essere “un tentativo di adesione al linguaggio mediatico e tecnologico di oggi” Un bel libro davvero”.
(Mariella Bettarini), Firenze, 2001.

Bouquet

Tra gli aspetti che maggiormente hanno fermato la mia attenzione e riflessione certamente va posto in primo piano la “fattura” colta di questo … recente “viaggio”: l’inventario delle fonti è vasto e non solo quello di area angloamericana, da Eliot a Chesterton, dalla Dickinson a Lee Masters da Beckett a Pound, passando per una fitta rete di altri autori sia di area angloamericana che di altre letterature europee.
(Sebastiano Martelli), Università di Salerno, 14-3-.2002.

Poesia raffinata nella parola e intrigante nel suo contesto tematico; una poesia, comunque colta, d’ampio respiro che ripropone nella sua complessa articolazione il tema della condizione esistenziale dell’uomo.
(Pietro Civitareale) Firenze, marzo 2002.

…libri contraddistinti da un autobiografismo mimetico che interagisce con una miriade di referenti letterari. Apprezzabile poi, nei versi — taluni memorabili -, l’armonica fusione tra elemento lirico puro e rovello esistenziale.
(Stefano Lanuzza), Firenze gennaio 2003.

Le finestre di Magritte- Bouquet introducono nella letteratura italiana lo stile poetico anglosassone e, in modo particolare nordamericano, in cui la tradizione si pone come elemento illuminante di un discorso che dell’esperienza interpreta i lati arazionali e fantastici in uno stile di rapidi accostamenti ed impressionanti “illuminazioni”.
(Giuliano Ladolfi), Atelier, anno VIII-marzo 2003.

Dopo il denso e accattivante Le finestre di Magritte (2000), Gabriele, fine saggista oltre che poeta, pubblica questa nuova raccolta (bilingue) Bouquet, con la traduzione in inglese a fronte di Donatella Margiotta, che dimostra la sua maturità stilistica insieme a quella capacità, che gli è propria, di scandagliare attentamente la realtà con squarci di seducente visionarietà simbolica. A quest’altezza la sua poesia, come ha ottimamente scritto Giose Rimanelli, incomincia davvero “là dove il probabile e il familiare diventano misteriosi” e sanno parlarci di una realtà che è al contempo anche sovrarealtà. Il risultato è uno dei libri più notevoli e culti di questo primo scorcio del nuovo millennio.
(Luigi Fontanella), Gradiva Number 23-24. Spring-Fall 2003.

In questo libro tutto è, forse fin troppo chiaro, onesto e accattivante. Ci spieghiamo meglio riportando qualche campione, e aggiungendo ai tanti riferimenti che Colucci adduce, che certo la poesia americana, meglio anglo-americana la sua affabulazione, la ruvida sua bellezza, Robert Frost per tutti, qui è ampiamente tenuta da conto, e di riguardo, e mettiamoci anche il Nobel irlandese Heaney (quando l’Accademia vuole premiare una nazione e non sa a chi darlo), questo più vicino anche perché contemporaneo del nostro autore. Due cose però: un po’ del latte materno Gabriele, agli inizi, lo ha avuto poi, divezzato, la matrice, o altrimenti non sapremmo a chi pensare per ”Li abbiamo perduti strada facendo”, “ Per amore di novembre”, il che significa che il nostro poeta non è tipo facile, ed è così perché ottimo critico, cioè accoppia le due capacità che proprio Eliot reclamava per un poeta….Ma i richiami, le invenzioni, le deliziose amiche di Hamlet, sono sorprese solo sue, di Gabriele.
Hyria nn.99-100, settembre 2003

I

Siamo le amiche di Hamlet.
Le sue ansie e i tormenti
sono i nostri tormenti e le vostre ansie.
Veniamo dal New England
per un “canto d’amore”.

Ci siamo fermate in un cottage
con le finestre che si aprono ad ovest
e le stanze vuote di arredi
dove c’è sempre qualcuno
che lascia biglietti d’addio e metà della sua vita.

Veniamo per un “canto d’amore”.
Siamo Laura, Ellen ed Elisabeth
e fare questo viaggio è una vera imprudenza.

Conosciamo fanciulle nelle nostre contee
che coltivano amori come gardenie
e non hanno paura del giorno che viene
e sono anni che più non leggiamo Melville e Osborne
perché la giovinezza è una storia che non ci appartiene.

Eravamo le più belle orchidee
dall’Outer Ring alle contee.

II

I nostri silenzi sono i vostri silenzi.
Siamo le amiche di Hamlet.

La signorina Collins,
che ci ha accolto con un sorriso
e un brandy chèrmes,
ripete da sempre che il nulla
è la vera sfera del mondo
e non bastano sogni e illusioni
per allontanare le nostre ansie e le vostre paure.

Veniamo da una stagione d’uccelli di passo,
tra gente che muore con garbo e silenzio,
e ci fermiamo stasera dai Beckett
per un “canto d’amore” qui a Firenze.

Sappiamo che è stato difficile
lasciare la casa e il quartiere
e affrontare un nuovo cammino
per strade di frane e assassini
rischiando la vita per niente.

Siamo le amiche di Hamlet
e i nostri silenzi sono i vostri silenzi
e non abbiamo risposte da dare
neppure a noi stesse.

III

Veniamo da un lungo viaggio
e siamo nella casa dei Beckett
dove tra un ciarlare e un brandy chèrmes
s’è un poco sbagliato parlando della vita
perché è un discorso che non trova risposte
e nessuno può darci una mano,
neppure gli amici rimasti nel Wessex
a leggere Durrell e O’Neill.

Siamo le amiche di Hamlet
e le sue ansie e i tormenti
sono i nostri tormenti e le vostre ansie.

Da quando abbiamo attraversato città e paesi,
non c’è nessuna di noi che creda ad un raggio di sole
perché sappiamo assai bene
che questo viaggio è una vera imprudenza
e non bastano amici discreti
a farci sognare un domani sereno.

Eravamo le più belle orchidee
dall’Outer Ring alle contee.

IV

Siamo Laura, Ellen ed Elisabeth
venute a fare domande
che si fanno da anni e da sempre
why our lovers are gone,
and no ships will ever bring them home again!
(perché i nostri amori sono andati via
e nessuna nave li riporterà a casa ancora!).

I nostri silenzi sono i vostri silenzi.
Le vostre ansie sono le nostre paure.

Siamo Laura, Ellen ed Elisabeth,
le amiche di Hamlet,
e la nostra gaiezza si è spenta col tempo
e non serve qui ricordare
perché è meglio non fare domande
su ciò che non sappiamo o conosciamo
in questo “canto d’amore”,
non importa se di vita o anche di morte.

V

Il nostro è un lungo viaggio
che non ha appunti e diari
e neppure le pagine del tempo passato.

Lo sa bene padre Brown che scruta nell’anima
per pulirci i peccati,
e non abbiamo mani per pregare,
né fonti dove bere,
né un domani per sperare.

Da quando siamo qui,
andiamo dove meglio si brucia la sera
e si sopporta tranquille un brandy o un caffè,
sicure che da questo viaggio
non ricaveremo un bel niente.
Di certo non resteremo dai Beckett
sognando le bianche scogliere delle contee.
Siamo le amiche di Hamlet.
(da: Bouquet, 2002)


Conversazione Galante

…. Una poetica anglosassone tout court-,che può, a nostro avviso, definirsi una sorta di Spoon River dei vivi, di “cimitero vivente”, ove scorrono sotto gli occhi del lettore attonito mortivivi un po’ fantasmatici, un po’ surrealisticamente o metaforicamente improbabili personaggi umani, “troppo umani” a dirla addirittura con un titolo di Nietzsche.
Perché l’incanto, o l’incantesimo, dei versi di Gabriele, sia nel precedente Bouquet, di cui parlammo qualche anno fa, sia di questa affascinante Conversazione ora offertaci dallo schivo poeta, risiede giusto nell’aver saputo coniugare, embricare, amalgamare magistralmente in una delicata ma nutriente miscela poetica: la dolente realtà, l’irreale, ed il sogno. Per cui non possiamo non ricordare le parole di Shakespeare — da La tempesta -“Noi siamo fatti della sostanza dei sogni e la nostra piccola vita è avvolta nel sonno”-
Lungo il corso incantato di codeste 50 piccole stanze di poesia, che si attraversano presi e commossi da una temperie irripetibile, infatti, a un certo momento, il lettore disincantato non sa più tanto facilmente distinguere fra i due poli della materia poetica: palpitante realtà, oppure un irreale sognante e fantastico?
Il discorso è manifestamente colloquiale, narrativo, sobrio, e asciutto, degno- per altri versi — del miglior Caproni, per non risalire a Saba o a Sbarbaro: desiderando restare in casa nostra e non rammentare oltre, temperie eliotiane o mastersiane che pure, come abbiamo già detto, son qui da evocare.
E’ questa, insomma, finalmente una poesia (in giro ve ne è assai poca!) priva in assoluto di vezzi, orpelli- assassini dell’arte vera!-, frangiature, tautologie, minienfasi e quant’altro dove quasi tutto il dettato pare acqua purissima sorgiva, scaturita da una sorprendente vena neolirica, formatasi dalle migliori alture della poesia postermetica, bagnata di quella prosa d’arte poetica, ci si passi il bisticcio apparente di generi, che fa ben dire all’americano Carter come il racconto sia, in fondo, una poesia allargata.
E, spesso, la poesia non appaia diversa da un racconto ristretto, aggiungeremmo noi. Affinché, in altri termini, si resti, in tema d’arte, nell’ut unum sint…
Ed è a questo punto, precisando che i versi di Gabriele vibrano e trasmettono le vibrazioni, sono, insomma “transitivi”, come asseriva il compianto Baldacci, deve la vera poesia essere, non ci resta altro che chiudere la nota, ancora coinvolti fortemente dalla recente lettura, con la citazione di uno dei più suggestivi componimenti (ma lo sono un po’, più o meno, tutti!):
Ormai le visite non si contano più . / Si fa lunga la malattia per Nancy, / né si può pensare di lasciarla / in una casa di soli malati / perché vede cani che le girano intorno / o colombe che spiccano il volo nella stanza ./ La signorina Sogniperduti / le fa compagnia tutto l’anno / per scuoterla dal torpore / e tenere lontani orsi e fantasmi. / Così tutte le sere corro ad ogni squillo, / tutte le sere corro a disperarmi: / Oh, dottor Moon ma di che colore è la tristezza?/ E’ del colore di queste storie….forse.
(Carlo Felice Colucci) “Il Segnale” Giugno 2004 n. 68, e su Riscontri, anno XXVII, n. 1 - Gennaio- 2004

Si tratta di un libro non privo di originalità dove mi pare spicchi una vocazione corale nel continuo alternarsi, anche intertestuale, di citazioni e personaggi, oltre che nella ritmica delle scansioni, ora elegiache, ora improntate alla resa scenografica di quadri d’atmosfera come sulle note di un vecchio blues in onore dei poeti, e dei loro personaggi proiettati, vivi o scomparsi.
(Fabio Scotto), Università IULM. Milano 23-02-04.

La prospettiva o la laborialità dei vasi comunicanti è fondamentale negli ultimi tre quaderni di poesia, che formano una programmata trilogia: Le finestre di Magritte, (2000), Bouquet (2002) e Conversazione Galante (2004). Il progetto, che è a fondamento del trittico, è di rimarcare ancora una volta, in continuità col lavoro precedente, l’indipendenza dell’autore da gregarismi e appartenenze di gruppo e di saggiare la vitalità della poesia, una volta che essa si metta deliberatamente on the road, esponendosi nomadicamente alle avventure degli incontri e attrezzandosi dell’assunzione di moduli linguistici, di spezzoni di frasi, di schegge di parole di natura cosmopolitica. Ovviamente il medium in questione non può essere che l’inglese.
Nella plaquette conclusiva, Conversazione Galante, i risultati attestano che l’obiettivo è stato felicemente raggiunto. Il viaggio non è stato speso a raccogliere appunti occasionali e a riempire lo zainetto per il ritorno di gadget scontati, né a scatenare frustrazioni rimosse, come accade di norma nella letteratura hippy. L’esperienza, invece, è stata portata avanti nel segno di una lunga vigilia di macerata osservazione degli straniamenti ossigenanti e dei turbamenti di sviluppo negli incontri con altre situazioni in movimento a livello semantico, semiotico e simbolico. Può accadere e accade così nella silloge ultima di poesia di Gabriele che sullo scenario del grande mondo contemporaneo si proiettino atteggiamenti e svolazzi linguistici del piccolo mondo di provenienza e che sullo scenario del piccolo mondo, a cui si lega l’autore, rimbalzino echi e grida di raccapriccio delle tragedie del grande mondo. Con sorpresa, in ultimo, si scopre sì che il mondo è piccolo, ma soprattutto che anche in un frammento del piccolo mondo giace a campionatura il lievito della sofferenza e dello stupore che è della vita di tutti, oggi, di quell’oggi che è del nostro villaggio globale.
(Ugo Piscopo), da Secondo Tempo, Libro ventiduesimo, pagg. 134-135, settembre 2004.

Nella nota l’autore avverte che il volume fa parte di una trilogia che con “Le finestre di Magritte e Bouquet” ha ricomposto il significante attraverso nuclei oggettivi diversi, per rinnovare il mito della vita lungo le strade del mondo, i cui eventi non si discostano molto dalla nostra sensibilità e cultura, pur essendo qui espressi con innesti linguistici di tipo anglosassone, nel tentativo, sempre più difficile, di trovare nuovi spazi alla poesia”. E’ quindi, dichiaratamente una poesia di ricerca. Tuttavia gli “innesti linguistici” evidenziati in corsivo, disseminati come sassolini di Pollicino lungo tutta la tramatura del libro, se da una parte possono essere rivelatori delle letture e delle esperienze letterarie dell’autore, con citazioni più o meno velate nei nomi, nei titoli dei libri, nelle stesse suggestioni letterarie che evocano, dall’altra vengono anche percepiti non come corpi estranei, ma veri protagonisti di una vicenda tutta esistenziale che in quei nomi e in quelle atmosfere trova proprio la sua completa giustificazione. In questo il tentativo, se di tentativo si tratta, di “ricondurre l’esercizio della scrittura alla libera invenzione della lingua” sposta il baricentro non sulla ricerca più o meno palese dell’identità di questi materiali, che significherebbe infognarsi in un cul de sac fine a se stesso, ma sul risultato sia linguistico che espressivo, della ricerca, sull’obiettivo che essa, in fondo si pone. E’ questo risulta evidente dal complesso dei vent’otto testi che compongono Conversazione galante e dai quattordici di Intermezzo, che formano un vero e proprio dittico, poiché la numerazione non si interrompe, ma prosegue, essendo una la vicenda che si narra, con gli stessi personaggi che vanno e vengono, senza che il lettore avverti differenza fra le varie componenti del testo, in quanto tutte concorrono a ricondurre la vicenda nell’ambito di un unico vissuto, dove si muovono uomini, donne, bambini, problemi, malattia e morte, la vita vera insomma e non letteratura. Il tutto visto come da un altro angolo, che dà la possibilità di dosare meglio le luci e le ombre, di filtrare i suoni, di mettere a fuoco particolari apparentemente invisibili. Lo stesso testo che ha originato il titolo del libro, Conversazione galante, è una specie di trompe l’oeil, è giocato su un’atmosfera falso-crepuscolare, che gli innesti linguistici, in questo caso, non fanno che accentuare, per giungere al finale, come una schioppettata, che è il contrario di quello che vorrebbe sembrare a prima vista: “Il paradiso, se qui c’è, è una conversazione galante con Janet e la sorella di Webster”. Anche se poi è vero che “qualsiasi mezzo adoperato in poesia si logora da sé”, vi sono però sistemi per allentarne il logoramento, e Mario M. Gabriele ne ha trovato sicuramente uno molto efficace, come si può dedurre dal testo che segue, che riportiamo per intero “Il sogno di Harry? Amare Jenny, / sbucciare mele e ammazzare serpenti. / Harry conosce i fiori d’ogni giardino, / ma non ha mai raccolto / una somma discreta / per riscattare i peccati / e dormire sonni tranquilli. / Questo è il secolo che non perdona! / Bisognerà abituarsi alla notte / prima di provare col sax / la nota più bella per le nozze di Candy. / Il sogno di Harry? Amare Jenny, / rifare il cammino a ritroso / perché tenera è la notte / e calda l’estate”.
(Walter Nesti), da Capoverso n. 8 Luglio-Dicembre 2004, pp. 83-84

Fuori di casa l’hotel Ariel invita ad un dolce approdo.
La stagione non è di quelle docili e serene
e non promette nulla di buono:
polvere alla polvere, terra alla terra!

La notte ci si può perdere per strada
da St. Just ai giardini di Beiderbecke,
e chi arriva ha poco da raccontare.

C’è chi attende i portatori d’acqua e di caffè,
chi scrive epitaffi sulle pagine di Carver.

Una ragazza sorride portando Chardonnay.


Difficile Mr. Swanson,
passare per Dresda e Muhelberg.
Non ci sono voli sicuri, né oggi, né domani. Sorry!
Una suite la troveremo
quando verrà Mrs. Scarlett
a portare via il venditore di stelline.

Qualcuno nel fondo della hall
legge Orazio e Sant’Agostino.

Ma non sono molti quelli che chiedono passaggi
o che segnano nuovi itinerari sulle mappe.
Abbiamo bisogno anche di voi
piccoli sogni di vita!

La stagione non è di quelle docili e serene
e non promette nulla di buono:
polvere alla polvere, terra alla terra!

Aspetteremo che spiova,
che torni Mrs. Scarlett
mentre giochiamo a poker
o leggiamo un libro di Kinder.

L’anno scorso, ad Ariel,
ci sono stati più aquiloni
a dare l’addio
ai venditori di stelline.

Era la stagione dei passeri soli
quando inviasti il tuo libro
a Gregory Walker.

Forse le nebbie l’avranno portato altrove
o disperso sulle lapide dei poeti
se nessuno ha più scritto
o mandato messaggi da allora.

E’ così triste discutere della vita
abbattuta dal peso delle viole!

Resteremo qui tutto il tempo che occorre
bevendo Maclaughan
perché fare questo viaggio
è una vera imprudenza.

Mezzanotte!

Il fiume scorre. Dilaga per la città.

Nessuno arriva. Nessuno parte.
Non è possibile che sia così tardi, Mrs. Scarlett!
(da. Conversazione Galante, 2004)



La Conversazione Galante di Mario M. Gabriele, edita da Nuova Letteratura conclude la trilogia apertasi con Le finestre di Magritte e proseguita con Bouquet edite rispettivamente nel 2000 e nel 2002.
Gabriele, con rara abilità, distacco e partecipazione emotiva alle vicende dei personaggi paradigmaticamente anglosassoni, alterna descrizioni oggettive, fin quasi meticolose con slanci lirici e lacerti di disperazione. Le vicende che si sviluppano, in una specie di racconti in versi, giungono al loro epilogo naturale, con un campionario di metafore letterariamente strutturate: l’estate che finisce, i cipressi, l’addio delle rondini. Il democratico passaggio attraverso la morte. In questo cosciente avanzamento verso la fine, tutto assume un senso diverso, anche grammaticalmente. Prevalgono i tempi passati, gli oggetti assumono contorni consunti, non più oggetti d’uso quotidiano ma febbre di un passato che tende a prendere le distanze da un vissuto precario.
Motivazione critica e segnalazione Premio Sandro Penna, 2004.

La Silloge di Mario M. Gabriele Conversazione Galante, consta di due parti: la prima di 28 quadri, e la seconda, intitolata Intermezzo, di 14 quadri, che prendono il nome dagli incipit. La Silloge si alimenta in maniera discreta quanto efficace alle sorgenti della contemporanea poesia anglosassone. Le essenziali quanto efficaci immagini, che il labor limae ha depauperato di ogni lenocinio retorico, s’incidono nitide nella memoria e nel cuore, comunicando sensazioni appaganti e vivide emozioni. Gli innesti linguistici di tipo anglosassone, ora più scopertamente ammiccanti ora spontaneamente acclimatati, non aduggiano la pagina poetica dal grande impatto emotivo né ostacolano la fruizione dell’ancorché smaliziato lettore. La sperimentale formalizzazione dei quadri, talora assai simili a perfetti cammei, lascia fluire come in una polla d’acqua sorgiva la vita, con i suoi dolori e le sue gioie, con il fardello delle sue memorie, ora grave, ora lieve, e sempre oggetto di struggente nostalgia.
(Antonio V. Nazzaro), Motivazione critica 2° Premio Aeclanum 2007.



NOTE

(1) Mario M. Gabriele, Astuccio da cherubino, Forum Quinta Generazione, 1978.
(2) Mario M. Gabriele, Carte della città segreta, SEN Napoli 1982.
con prefazione di Domenico Rea.
(3) Pasquale Maffeo La città segreta, Gazzetta di Parma, 4.11.1982
(4) G.B.Nazzaro, Poeti in Campania 1944-2000 Marcus Edizioni, Napoli 2006
(5) Pasquale Alberto De Lisio, saggio preparato per Proposte Molisane e uscito postumo
come Introduzione a Il giro del lazzaretto.
(6) Luigi Fontanella, su Misure critiche nn.68-69, anno 1988: Poeti molisani d’oggi.
Appunti per una campionatura.
(7) Mario M. Gabriele, Il giro del lazzaretto, Forum, Quinta Generazione, 1985.
Introduzione di Pasquale Alberto De Lisio.
(8) Mario M. Gabriele, Moviola d’inverno, Ripostes, 1992, con prefazione di D’Episcopo.
(9-10-11) Francesco D’Episcopo, sintesi della prefazione a Moviola d’inverno.
(12) Mario M. Gabriele, Un burberry azzurro, Nuova Letteratura, 2008.
(13) Giuliano Ladolfi, Atelier, n. 29, anno VIII, marzo 2003.
(14-15) G.B.Nazzaro, Poeti in Campania, 1944-2000, Marcus Edizioni, Napoli 2006.

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