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lunedì 14 giugno 2010

La poesia di Gennaro Morra

Seconda parte
Antologia poetica


SCALZO VENNE L’ANGELO

Per andarsene
non scelse un giorno qualunque:
fu di Natale dopo cena
e mia madre dice ancora
che fu come per celia.
Se ne andò all’insaputa di tutti
perché non amava
i riti della convenienza.
Volle vestirsi da sé
per un attimo indugiare
con lo sguardo e il respiro nella notte,
fonda come il suo dolore senza voce,
e per comporsi sul letto
finse la stanchezza.
Volle essere discreto
fino alla fine perché stava
in casa forestiera.
Se avesse conosciuto la strada
solo sarebbe andato
a cercarsi il posto e la croce,
a scavarsi la fossa
e a domandare l’olio santo

Ci aveva persi e non sapeva più
dove poterci ritrovare.
Con quella partenza improvvisa
forse s’illuse di venirci incontro
in un mondo incorrotto
e guadagnare un poco
della pace perduta
dietro ai nostri passi randagi
e senza traccia.
Invece tra lui e il suo destino
c’era un patto segreto
che fu rispettato
e scalzo venne l’angelo
in punta di piedi accosto al letto.
Allora mia madre
gridò forte il suo nome.
Stenta e disperata era la voce
ma egli era già sulla sponda
dell’estremo recesso
con in mano
la moneta del traghetto.
Di quel viaggio
non ha mai parlato:

Ora che ci ha ritrovati
non fa che domande
durante i colloqui
tra padre e figliuolo:.
vuole che io gli dica
dove spendo le ore
perché in ogni istante
possa venirmi a cercare
e al tempo giusto chiamarmi:
bisogna che io
faccia sazia la sua sete e lo assecondi.

Da vivo una sera mi promise
la sua presenza dovunque
e io la sentivo raggiungermi
nelle ore insonni,
nelle buone e nelle cattive azioni,
oltre lo spazio che ci divide.
Ed ora teme ch’io l’abbandoni.
Un giorno m’ha premuto la fronte
con un gesto consueto
per ricordare che il patto
non era ancora risolto
e i occhi di statua
mi guardavano doloranti.
Da allora gli dico dove vado
e non chiedo dove egli sia
né chiedo perché se n’è andato
all’insaputa di tutti
in una notte d’inverno
ramingo e senza saluto
frapponendo tra noi e lui
una distanza che mai ci riscatta.
(da: Solstizio d’estate, 1951)


MA NON HO PIU’ FIATO

Al mio paese d’estate
le sere giungono improvvise
sotto i lampioni delle piazze
dove i ragazzi si chiamano
con nomi inventati nella rissa;
la luce li sfiora e li perde
nella corse a perdifiato
dietro la palla di stracci
e le voci colmano il vuoto degli spazi,
destano i nostri ozi distesi
in poltrone di bambù;
le grida ruzzolano
sul marciapiedi in ombra
a destare fanciullezze conservate.
nell’incerta memoria
Molti anni fa in questa piazza
macerai di pugni un compagno
portandomi a casa
un poco del suo sangue
aggrumato sulle nocche delle mani.
Ora imbastisco compromessi
di ricordi e speranze,
stimolo desideri e rimpianti
ma non ho più fiato
per le corse a piedi nudi.
Moribonda alle estati trafelanti
è la mia età.
(da: Parole udite domani, 1953)


ESTATE

Bianca estate, alla tua luce inerte
cerco gli archi delle schiene, piegate
a tentare il sopore della terra
sulla destra del fiume di pietre;
dall’alto scopro le mie strade
distese in un riposo insonne
laggiù oltre l’aie polverose
tra la radura di stoppie dove
la terra grida sete e vento
sotto i cieli distanti, perduti
al di là degli impalpabili orizzonti.

Pigro nell’aria assolata è il silenzio
che nasce qui; da queste antiche tombe,
tra le foglie d’ulivo immote,
fuori dai chiusi spazi delle case
dove la gente si muove senz’ombra,
sulle quali il sole s’adagia indolente e il fumo
dei secciai s’annida nelle crepe dei muri
a preparare l’autunno.
(da: Parole udite domani 1953)


IL PAESE DI MIO PADRE

Da quando sono tornato
a starmene in questo paese
mi son fatto estraneo
a tutto il resto del mondo.

Una notte
vidi portarmi a sepoltura:
compresi allora
che urgeva il bisogno
di farmi amico l’olivo e la vite,
di porgere il cercine
alla donna della fonte

Allora compresi
che la mandria si sarebbe affacciata
sul muro di cinta al mio sepolcro.
E dimenticai i pinnacoli barocchi,
i pescatori col pileo,
i palazzi tinti di rosa.

Ora resisto al bruciore
che il fumo delle stoppie
mi fa nelle narici aperte
e, come un fanciullo, aspetto le giostre
somiglianti a case cupulate.

Quegli altri paesi esistono
soltanto nei libri;
li ricordo come una lezione
bene imparata
e mi riempie di meraviglia
il sentirli chiamare.

Attenderò il giorno
in cui mi infosseranno i piedi
in questa terra
perché vi metta le radici,
mangerò fave fresche
e pannocchie bollite,
mi guarderò dai cani dei pastori,
le notti d’estate le passerò a cantare
sopra mannelle di grano e dirò:
questo è il paese di mio padre.
(da: Parole udite domani, 1953)


RITORNI D’EPOCHE SGOMENTE

Ritorni d’epoche sgomente
e adolescenza precoce,
avete preso il pallore del tempo.
Come un pensiero obbligato
la memoria mi stanca
questo costringermi
a indovinare il passato.

……………………….

Oh, ignoti profumi del giugno
io non seppi mai che foste voi
ad imbiancare l’olivo.
E a grattare la terra,
non le corolle cadute cercavo
ma il lombrico nascosto,
la tana della talpa.
E la quotidiana fatica
la portavo come un premio
assaporando
l’acredine del sangue.
(da: Parole udite domani 1953)


SULLA COLLINA DEI VENTI

Non v’è riposo sotto le croci
confitte nel cuore dei morti;
qui, sulla soglia del mondo,
non dà luce il chiarore dei lumi.
L’erba sui tumuli che i morti
inarcano con il loro respiro
l’ha bruciata il gelo di novembre.

Novembre è sceso nelle tombe,
dentro i sarcofagi di cenere
attraverso le crepe della terra
per dove passano le nostre voci
umane a gridare nomi vani
sulla collina dei venti.
(da: Parole udite domani 1953)


PAESE

Le tue spalle di roccia,
le mura senza tempo,
i santi immobili alle cantonate,
il silenzio che stagna
dentro una cerchia d’ulivi.

Ecco i miei luoghi dove hanno voce
soltanto le campane
e il tempo che fa ressa
attorno alle sue mura.

Le donne sulla soglia delle case stanno
a scaldarsi con il fiato negli scialli;
gli uomini sotto le arcate, sostano
con i visi nascosti nel silenzio triste
e nell’ozio dei mantelli neri

Tu dici che la vita è una veglia
ma il sonno nasce sotto le ciglia
di questa mia gente stenta:
lo porta il sole della meridiana,
l’uggia della nebbia dagli orti,
il lamento della tramontana.

Oh non è qui la vita, in questa cava
che i secoli assediano e la noia
fa profonda; non è
in questo silenzio indolente.
(da: Parole udite domani 1953)


PIANTO PER IL SUD

Tu, terra appena scalfita dai solchi,
terra battuta da piedi mai calzati
che ti camminano sul cuore antico,
che ti affondano il sasso nella carne
e non lamenti le ferite
e se gridi, la voce
ti si stanca nella gola,
terra di pianto nato da occhi
aperti a sorrisi di dolore.

Nel tuo ventre di cenere
è briglia la radice dell’acacia
e dell’agave e del cardo
dove dirupa l’abisso.
Le tue case diroccate
sono denti in un teschio;
come capestri vi pendono ancora
le funi che tenevano al collo
i muli nutriti di gramigna;
e i cani smagrati
ancora vi fanno la guardia.
Nel tuo cielo inarcato le campane
suonano sempre a martello
paese di chierici in processioni
e di salmodie mormorate
per vicoli storti.
I morti li seppellisci a fior di terra
fuori la porta dell’orto
e continui a portarli presenti,
li senti respirare nella polvere,
allumi i ceri ai loro piedi
e li chiami come da un balcone.
La tua ventura è d’oziare
per le strade di questa prigione
urlanti di scritte sui muri delle case
che hanno le spalle volte al mondo
da dove nessuno ti chiama,
nessuno risponde all’amaro richiamo
paese di fuori legge per fame.

Oh, nel Sud gli uomini risalgono i monti
e si danno voce
da un paese all’altro.
Nel Sud vi sono soltanto
chiese e pagliai
e strade senza sbocchi,
strade allargate
dalla carraia dei barocci.
Nel Sud si muore depredati,
anche senza la camicia.
Che cosa sarebbe il Sud
senza la malaria nei pozzi
e le carestie,
senza il gallo che al mattino
ti sveglia dalla spalliera del letto,
senza le cantilene nelle aie.
Che cosa sarebbe se i suoi abitanti
avessero volti di uomini.
(da: Parole udite domani 1953)


SENTO IL CUORE DELLA TERRA

Lasciatemi andare per queste strade,
lasciate che il piede affondi
nel solco che traccia la ruota del carro,
nei fossi che la pioggia fa colmi,
lasciate che pesti l’erba
riversa nella mota.

Una guancia accosto alle crepe
che s’aprono nei prati
e sento il cuore della terra
inviolato palpitare il suo male.

Non voglio più tornare
sulle strade catramate:
i miei passi qui hanno
dolce riposo e m’è guanciale
l’afflitto verde del trifoglio.
(da: Parole udite domani 1953)

ED IO A FARMI SCHIAVO

Ed ora viene la pioggia, (affrettato
questo rosario d’acqua sonante
rotto dagli embrici sconnessi, dalle foglie
aperte come palmi di mani
lacere), a lavare le fogne,
a riempire i miei spazi d’ombra
(vaghi spazi d’occulte stagioni)
a far germogli di radici attorno
al tempo che fa spreco di noia,
ad ammucchiar rovina di pensieri
in un angolo battuto dall’ombra
qui dove un grido sarebbe un pavese
sugli anni privi di memorie.

Ma l’inverno è presagio di sgombri relitti:
fumano le mura dagli squarci
dove sterile il muschio intristisce;
madidi pendono i fiori alle finestre,
come un rogo si spengono le case.

Nel cuore del mattino m’ha destato
questa pioggia d’acqua e di voci,
deludendo un desiderio di sole
forbito d’abbagli sul granito
che suda in lontane città di nebbia
ed io a farmi schiavo di liquido
pianto nella domenica insulsa,
a prepararmi un limite scoperto
oltre il viaggio indifeso, oltre il suono
d’una mattutina fanfara di campane.
(da: Parole udite domani 1853)


NEL TRAGITTO DEL TEMPO

E’ il tempo delle vigne devastate.
Per le vie già l’odore di vinacce
che i carri recano nell’aria
mossa dal vento dei canneti.
…………………………………

In nessun’ora come in questa,
indecisa nel vespro,
ho ascoltato nelle voci stenuate
un pianto remoto di sgomento
che geme sotto il peso della creta
trascinata come un segno per le strade.

E scalzi piedi calcano
il debole tepore dei selciati;
diluvia la sera nei cortili,
negli occhi chiari di sdegno,
nel seme duro ad aprirsi,
nei tini rossi di mosto, sulle mani
colorate come di sangue stinto.

Annotta nei cuori vinti dalla sorte
ma spazio c’è in me per quest’ombre,
per questi convogli d’uomini
perduti nel tragitto del tempo.
(da: Parole udite domani 1953)


RITRATTO

Dentro di me porto i cori della sera,
i lamenti e la dulia delle novene,
gli inni cantati nelle processioni,
di notte, all’inquieta luce dei ceri
per le strade sgombre di peccato.
Porto il terrore del ramarro,
il seme d’orzo che germina le felci,
la mestizia d’un campo devastato
e il cupo desiderio di una donna.

Quando tomba si fanno le parole
e vani sono i cori ed i lamenti,
mi regge il sogno d’impreviste razzie
o il silenzio ch’entra dalle porte
spalancate in faccia al gelo della luna.
Ho lo stupore di Lazzaro risorto,
la pietà delle cave di pietra
che offrono il ventre alle perforatrici
e con me porto la ruvida scorza
dell’ulivo contorto di dolore
la magra polpa dell’uva zibibbo
e il torbido furore dei torrenti in piena.
So l’acre succo dei roveti in autunno,
so l’attesa di chi sta misurando
la speranza delle generazioni.

In me sta il pallore del grano
cresciuto nel buio dei cassoni
per i sepolcri del Giovedì Santo
e la quiete malsana dei pantani.
Ho la statura dei magri fienili,
la calvizie delle mie pianure,
le rughe della terra incrinata
dalla siccità e gli occhi,
affondati nelle orbite, sono pozzi
dove il tonfo del secchio non s’ode
(da: Un grido tra le mani 1959)


DISCORSO A UNA RONDINE

Ora che il tuo volo greve s’impiglia
nell’aria spenta dai primi venti dell’estate,
ora è tempo che tu migri
verso le aperte pianure di sabbia
oltre i moli irretiti di bandiere
radendo l’immobilità delle statue
che si levano sui poggi e sulle chiese
come i sonnambuli sui tetti.

Ora è tempo che l’ombra dispersa
del tuo volo, cada sulle rive
dove perdi la terra e incontri il mare.

Qui ricordami alla kasba delle strade
in declivio sdrucite dai passi e dalle voci
di una gente chiassosa, appesa ai balconi
assieme ai panni e alle begonie;
ricordami ai fanciulli dentro i quali si
quietava la festa di Piazzetta Gagliardi,
al libraio che mi comprava il Lux Christi;
ricordami alle sere semibuie di quegli anni
quando l’ombra spezzata sui muri
mi teneva compagnia per certe strade traverse

Dimmi che n’è rimasto
di tutte quelle fratte ai Ponti Rossi,
dimmi se ai piedi di un platano
ci siano ancora alcune lacrime di donna.
Ritrovami quel che lasciai nei sogni
di mille e più mattini di sole
svettando col tuo volo ilare su
per le balaustre e le cupole d’asfalto
dove salivo come un fuggiasco inseguito.

Ma se ad altra sponda muovi il volo
incontrerai i giorni che ivi ho perduto
senza speranza, senza pensieri
nella mente disabitata dal presente,
infittita soltanto da un diluvio di ricordi
memorati senza rimpianto.
E qui ricordami alle ossa dissepolte
dei miei cento pallidi compagni
messi in fila dalla morte durante la marcia,
ricordami alle mamme che stanno ancora
scavando i loro ultimi brandelli,
ricordami ai vigneti devastati, ai declivi
dentro i quali riposare era un sogno,
ricordami a tutte le contrade d’Abruzzo
dove la gente ha il sapore
del pane che m’offriva,
ricordami pure alla bionda ragazza
che sulla soglia di una casa mi parlava
di suicidio come d’un limpido avvenire,
d’una sicura certezza di vita.
Ritrovami l’altana dove dormii
all’addiaccio una notte di settembre,
la siepe dentro la quale aspettai il treno
affaticato da un convoglio di fuggiaschi.
cosa sognassi in quell’attesa
lo sanno il riposo dei pastori
e la notte che premeva sui roseti,
forse lo sai tu che stai per lasciare
questa diruta grondaia.

O pini che il vento disastra,
conchiglie aperte al respiro del mare
tutti i miei rimpianti vi mando
nella croce che la rondine disegna
col suo volo dischiuso
di fiore nero nel cielo.
(da: Un grido tra le mani 1959)


A MIO PADRE

E non udremo più la musica
di chiavi che facevi nelle tasche,
non più il sorriso affondato nelle guance
che segnavano il peso dei tuoi gesti,
non più il fiato di tabacco,
l’arco del tuo viso pieno.
Venirti incontro sulla porta
è ormai difficile gioco
ai nostri anni remoti.
Hai bruciato la vita in silenzio
in ogni cosa lasciando
un breve gesto incompiuto.
(da: Un grido tra le mani 1959)


LETTERA A MIA MADRE

Ti abbiamo vuotata la casa
uno dopo l’altro andando
come la nidiata dei gatti
che si danno al vicinato:
la casa ancora fresca di calce
costruita apposta per noi
ed ora vi stai larga e sperduta
ad intristire nel pensiero
che ci tieni dappresso
con amore risentito.
Uno ad uno ci hai perduti
per le scale di casa
che scendono ai paesi del mondo
per i quali la sorte ci conduce
a vivere nell’ansia
dei ricordi fatti carne
nel tuo viso screpolato
come grigia parete di roccia
dove il tempo incide
gli anni tuoi ed i nostri.
A quest’ora mastichi
i pensieri dietro a una finestra
come quando mi cercavi
con la fronte sui vetri;
stenti a ritrovare il più triste
tra i ragazzi sulla strada
perché un vecchio ragazzo, a quest’ora
cammina sui binari:
Oh tu non sai che i binari
ci portano su e giù tutto il giorno
sobbalzando per le strade
di questa città.
Stenti a ritrovare chi possa somigliarti
e sola
t’immergi nella sera
a tessere nell’ombra,
nella solitudine amara,
le storie del passato
perché amaro si compia
il tuo destino di madre.
(da: Un grido tra le mani 1959)


CHE MAI CI LEGA

Porta San Giovanni, fuori le mura
già s’apriva il tuo sorriso
nel moto del labbro voglioso
a scompigliare il verde dei prati
e cercavi nell’occhio un dirupo;
l’arco dell’antico Acquedotto.

Ma sempre eri ferma nel ricordo
alle nostre contrade del Sud,
al caro mondo di campagne
dove lo stelo tra i denti
ha il sapore di mandorla dolce.

Eppure a questi campi venivi
accolta nel vento d’autunno
incontro al tempo che franava
sui nostri anni d’amore.
Oh, il nostro amore più antico
di quelle rovine! Che mai ci lega
a questi archi visitati dal vento,
ai pini che svampano nel cielo,
al tenero sambuco che piega
il midollo sotto il nostro riposo?
Che mai ci lega a questo prato
se altri si adageranno qui
in faccia al tramonto?
(da: Un grido tra le mani 1959)


PER QUALI ALTRE PROMESSE

Tra questo intrico di luci, perdersi
nel respiro delle nebbie avvampate
che appannano il fiato alle parole,
qui, lungo gli umidi viali del Nord,
è come sperdere l’amore nell’insonne
furore delle prime carezze.

Il tuo viso riverso nella notte;
al mio fianco il tuo corpo caldo
e senza frontiere; i tuoi occhi,
nidi d’immagini febbrili,
che viaggiano incessanti nel fragore
lungo i bouulevards lumescenti
nella bruma di fine settembre.

Qui gemono le nostre voglie inquiete:
sui selci dove il passo si fa incerto
per l’erta di Rue du Dragon.

Ma tra poco addio diremo
ai quais ghiaiosi, ai faubourgs senza ricordi:
il Sud prepara le sue notti uggiose
nei nostri quartieri di provincia
dove l’amore è un caldo di ossa
premute nei vicoli ciechi.
Per quali altre promesse ora
riderai all’istante di partire?
(da: Un grido tra le mani 1959)


I MORTI CI SEPPELLIRANNO

Ora bisbiglio sillabe inerti
al tuo udito, quando la notte
ci sfigura e il sonno l’asseconda,
quando innocenza si fa la memoria
nel sogno che inventa la sorte.
Ecco, questo è il tuo viso
e questo il tuo silenzio
esposti al calore del mio corpo
ma nulla v’è che riannodi il giorno alla notte.
E le carezze dimenticate nella mano
rimordono agli anni, al vorace tempo
che dirotta le promesse al cieco torrente
fatto pieno dai nostri giorni dimessi
imparentati all’oblio delle attese.
Oh la vieta stagione di un istante,
quando promettersi la vita era possesso,
quando dare un nome all’angoscia
era un inganno di parole senza senso,
una febbre di immagini assolate
che sazi ci facevano di vita, mentre
nel sangue si quietava il germe dei sensi.
Ora i morti ci seppelliranno, essi
più vivi della nostra morta esistenza,
del nostro inquieto domandarci
se valga o no la pena di raccattare
il bene che ci cade di mano.
(da: Un grido tra le mani 1959)


FORSE UN BATTERE D’ANNI

Dentro la siepe di more ancora stai,
dentro il camice bianco, dentro la striscia
d’ombra,
dentro il seme del mio cuore vagabondo
con la mano levata sul viso
rivolto ai treni che si perdono
nel vuoto dei mattini d’estate.

E il mio sguardo ancora trafigge
il roveto che celava la dissipata
stanchezza degli occhi
nei quali annottavano
calde promesse di diniego.

Sono andate le care date del passato,
i tris d’assi, i duroni alle ginocchia,
gli ignorati amori dello schermo,
eppure sulla traccia di un’istanza
ritrovo tutta l’incertezza
del tuo amore d’allora.

Forse un battere d’anni
basta a farti sera nel ricordo
ma non pensare perduto
nessuno di quei giorni:
chè ai ricordi ancora resiste
il viale dei nostri saluti.
(da. Un grido tra le mani 1959)


CHE SAI CITTA’

Di tanta neve che cade
sulle strade acciottolate e s’illumina
al chiarore di fiochi fanali
che sai città?
Io so di paesi stampati nel cielo
dove l’inverno duole
come il canino che morde la fame,
dove le case basse di calcare,
calde solo di fieno, stanno stipate
attorno ai focolari e gli uomini bruciano
chili di tabacco nero
avanti che il grano
spunti sotto il piede delle pietre.
Io so di paesi, assediati
nel cerchio delle nevi, dove l’amore
dura tutta una notte perché
l’amore arde più degli sterpi:
oh, il livido corpo di una donna
sopra un letto di spigo!
Che sai città, di sofferti paesi dove l’uomo
conserva intatto il cuore
al gelo delle nevi, nelle mani,
odorose di terra boschiva,
stringe un mucchio di sogni
e negli occhi chiari
porta l’ansietà dell’estate?

A quest’ora Barbarella rincasa
con il rosario sotto lo scialle,
rientra il dodge con gli spalatori,
la gente si chiude dietro le porte
ad aspettare il bel tempo
per la luna nuova di domani:
la luna dilagherà sulla tavola
all’ora di cena e farà colmo il tegame.
Il vento si fa strada nel sonno
dei cani che s’asciugano il pelo
distesi sulle stuoie.
Che sai città,
quanto diversa sia la neve
che cade sopra i pini d’Appia Antica
da quella che affoga il sasso
rotolato sopra il seme?

Hai visto in questi giorni
rompere il ghiaccio delle strade
da uomini goffi nei pastrani,
con le sciarpe al collo e i guanti di pelle,
hai visto il gesto crucciato
di chi non sa tenere il badile
ma non sai dell’ampia falcata
dell’arnese che leva nell’aria,
come un’insegna, il braccio nudo.
Ed io ti dirò, ti dirò, città,
che vi sono paesi dove c’è guerra
tutti gli anni, all’arma bianca
tra uomini ed elementi,
tra gli uomini e la fame,
dove s’aspetta la luna nuova
tutte le sere.
(da: Un grido tra le mani 1959)


GIAMMAI DI QUEST’EPOCHE

Nella memoria è il mio presente:
riesumate i morti
che la terra ha dispersi
in solchi profondi,
fermate degli uomini la voce
nel rumore dei giorni.

Da Montesanto a Toledo il tratto è breve
qui ho messo in serbo
i giovedì d’una breve adolescenza..
In fila come i grani d’un rosario,
con i calzoni che la crescita accorciava
e l’oro dei bottoni tra le dita,
trascinavamo la noia
sui cartocci svuotati nella friggitoria
e sull’acqua marginata ai marciapiedi.

A destra il chiostro dei giornali,
(lì sotto si protesse dalla notte
un mio compagno).
Più innanzi l’acquaiola
ingrassava in un camice bianco
ed aveva la voce arrochita.
In alto stavano appesi ai balconi
triangoli rosa e celeste
lasciati ad asciugare
come alle finestre della periferia.
La donna che ci veniva incontro
il giovedì, sempre alla stessa ora
la conoscevamo tutti: usciva
da un postribolo di Vico Lungogelso.

Questo il nostro passeggio domenicale,
lo sporgersi per un’ora alla finestra
che riguardava un angolo di mondo
e scampo non v’era a tanta prigionia.

Il mulatto ci vedeva partire ed arrivare,
nei suoi occhi c’era sete d’affetti
ed impazienza,
mangiava brodo di carote tutto l’anno,
era buono come un negro
ed è morto in sanatorio un anno fa.
Un compagno di banco
a sedici anni era già calvo,
ancora studia medicina e fa il mercante.

Giammai di quest’epoche io perderò
memoria ora che in oscura carne
radicato è il ricordo.
Inesausta la mia vita
si lasciava andare a quei giorni
dietro alle facciate dei palazzi
e ancora d’ignote tracce va in cerca
che mi costringevano i passi
lungo strade assordanti di meraviglia.
(da: Un grido tra le mani 1959)


LA MIA TERRA

Dall’altra parte c’è il torrente,
la pianura mal nutrita delle stoppie,
il mio paese con le strade
sconvolte dal progresso.

Dal treno che s’allunga indeciso
ho visto fermi sulle prode, dove
la mitraglia falciò l’erbe a primavera,
i personaggi dipinti sulle pale degli altari
con il capo eretto come effigi
coniate sopra antiche monete:
sono effigi di re e di tiranni
ad attendere il regno delle messi
che viene dietro alle promesse.
Ho visto le donne proterve e macilente
con i seni penduli sul ventre
accennare ad un saluto nei canti
lenti e sorretti dal fiato della sera,
ho visto le case spente e velate
dietro ai tralicci delle impalcature
e i muri di tufo crescere come ombre
Dall’altra parte c’è la terra gialla,
stremata dalla siccità, ingorda d’acqua,
che risuona sotto il passo, sorda
come un orcio vuoto e incrinato.

Un’ora fa stavo a spogliare
il granoturco dalle foglie e sentivo
i re lamentarsi, con un pugno
di chicchi stenti e malati
nella mano adusa a mendicare.
Un’ora fa ti stavo addosso adagiato,
come sul ventre d’un otre sgonfio
o mia terra, in faccia alla vigna giovane
di un anno ad ascoltare le voci
querule del malcontento e già sentivo,
venirmi dalla gola dei monti, il fischio
lacero del treno che mi porta
sui fiumi che saranno deviati
per estinguerti la sete.

Ora scendo verso le luci pallide
di deserte stazioni ed imparo
il nome dei paesi dalla voce
assonnata dell’uomo che muove
la lanterna ad ogni sosta.
M’incrocio con i fari delle carovane
in corsa sull’asfalto, m’illumino
al bagliore dei falò che tengono desti
gli uomini lungo i pendii e vado incontro
ai bengala della domenica sera,
alle risse nelle cantine


di questa gente che finalmente
ha denaro per ubriacarsi.
Nella corsa che somiglia ad una fuga
mi sfiorano i rami d’acacia
già vicini a nudarsi delle foglie
e, prima ancora che ne stia lontano,
sogno come cosa già perduta
il pane di casa e la parlata
d’una infanzia cui la mente
tien dietro disperatamente perché
questa è la mia terra e qui tornano
gli anni e i pensieri ad ogni fuga:
perché lunga è la memoria
e lungo è il passo che mi tiene lontano.
(da, Un grido tra le mani 1959)


INFANZIA

L’età ha un nome quando le giostre
piantano i pennoni alla periferia
e le altalene si muovono nel vento
per i cieli dei sobborghi.
Dalla garitta del tiro al bersaglio
s’affacciano ricordi sulla corsa
del tempo sprovvisto di riviere
e s’aggrappano mani di fanciulli
agli occhi grandi di stupore
scavati sulla fronte dei cavalli.

Dietro ai carrozzoni della carovana
l’infanzia gioca a rimpiattino,
o mio cuore turbato, e nell’ombra ridesta
ansia di fanciulli e limpidezza di grida
per il dolce carillon delle giostre
nel gorgo delle lente stagioni
(da Un grido tra le mani 1959)


STRADA A MEZZOGIORNO

In questa estate che dura a finire,
a mezzogiorno la strada
andando
me la traccio da me.

Strada che porti al mio podere
ha un peso quest’anno
il bianco che calpesto
perché il sole
è rimasto a far nuvole
di tutto quel fango.
(da: Un grido tra le mani 1959)


QUEL CANTO

Nell’oscurità gli occhi dicono parole
(sweet heart sweet heart sweet heart)
ed hanno il tremore d’acqua mossa
dentro un pozzo profondo.
Ma la bocca indovino
che modula le note:
una sensitiva che vibra
al tatto del respiro.
Le mura sconfinano,
tacciono i suoni,
il canto mi regge nel vuoto
e mi possiede.
(da: Memoria di Lei 1972)
1945


ESPRESSIONE

In una remota esistenza
dovesti inventare il sorriso
che altre nel tempo han mutato.
Ora tu lo ripeti
e solo tu sai come si fletta
la bocca per tacere una gioia:
è questa la magica forma
per esprimere te stessa,
anche quando delira
un vampore sulle guance
che sembran tenute da mesi
nelle notti inviolate dei cassoni,
come il grano per i Sepolcri
del Giovedì Santo.
(da: Memoria di Lei 1972)
1945


FEBBRICITANTE

Il mio nome si è ammalato
sulle tue labbra
che lo dicono piano
come a reggere l’ostia
prima di ingoiarla.
Se ti accarezzo
la mano mi brucia;
se mi accosto
bevo il respiro
affinchè non aliti nell’aria
questo fuoco di febbre
che accende il ceppo secco
del mio cuore.
(da: Memoria di Lei 1972)
1946

UN GIORNO VERRAI

Tu un giorno verrai
attraversando i prati
senza pestare il trifoglio
e schiuderanno gli anemoni
al tuo posto
pur se lontana è la primavera.
Stupirai a vedere
come fiorisca un ciliegio,
ma basterà che lo tocchi
perché la sera calando
mi porti il profumo dissepolto
di cinque petali
che attaccasti sognando,
con le dita umide ancora
di rugiada forse raccolta
in una remota carezza
che facevi al mio penare.
(da: Memoria di Lei 1972)
1946

VIAGGIO NEL DESERTO

Questi miei piedi terragni,
radici nell’uomo, hanno incrociato
meridiani e paralleli, hanno calcato
le strade del mondo
per portarmi incontro a te
gente universa
nella terra desolata.

I

Questi miei piedi dolenti
camminarono tra i cadaveri
nella crudele notte della guerra,
schivarono in pietosi tragitti
i corpi confusi ad altri corpi,
marciarono diretti al Sud
con gli alluci rivolti alle stelle dell’Orsa
come l’ago nella rosa dei venti,
cercando la fuga dal terrore;
la strada della terra buona,
il passo della misura umana
laddove fossero promesse
di libere parole ad alta voce
spartendo il pane con la libertà..
Era il tragico autunno del quarantatrè
e la fuga fu una marcia
di dolorosi ritorni agli spettrali scenari
di città desolate.
Recavo in testa nascosta la morte
e negli occhi l’amore
alle cose guardate.
Voi mi portaste dolenti
camminando sui fiumi d’asfalto
o dentro i solchi dei maggesi
arati dalle bombe,
alla foce della libertà
(da: Viaggio nel deserto 1988(

V

Questi miei piedi d’acqua
modellarono orme nella polvere rossa
lungo i margini delle strade andaluse
dove i muri son così bianchi di calce
che ti vien voglia di scriverci sopra
abbasso il Caudillo;
batterono il flamenco nella grotta della Faraona;
camminarono per il barrio di Santa Cruz;
s’accostarono ai misteri dell’Alhambra;
ritmarono il passo del toro
che impazziva nell’arena
con una falce nera di luna sul capo;
andarono per vieti itinerari
a cogliere simbiosi
di antiche opposte civiltà, ma l’amore,
il mio amore distendeva radici
sul cammino dei gitani
che sfilavano in oscure carovane
di villaggio in villaggio
sotto il sole della meridiana
mentre la partoriente gemeva
sul filo delle fruste
tese per lo schiocco nell’aria.
Eppure cantavano e sognavano
d’essere soltanto gitani, di nessun paese
e di tutti i paesi del mondo,
simboli d’ingenua libertà popolare
che spegne la rivolta
nell’irrequieta dignità nativa.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

VI

Questi miei piedi impazienti
fecero scalo a Praga
quando la breve primavera
era già tutta devastata
e a Piazza Venceslao le transenne
ne arrestarono i passi sulla soglia
di un altare attorno al quale ognuno
protendeva una invisibile rosa.
Innanzi al vuoto del futuro
ingigantiva il passato
nei restauri amorosi
d’antiche statue barocche
che spiavano con bocche mute la vita
sui ponti, per le vie, dovunque
la storia fosse testimone
di remoti fastigi boemi.
La bella dorata città dalle cento torri
s’accartocciava nelle volute
dei suoi rococò, chiusa dentro l’ordito
dell’arazzo che le strade disegnano
attorno alle sinagoghe deserte.
Mentre Zdenek Prihoda moriva
le colombe si spiumavano in volo
con verticale terrore nelle ali
e le ore battute sulla Piazza Vecchia
annegavano nella Moldava
assieme alle saltellanti antiche
marionette della torre bruciata.
La sola gioventù per quelle strade
nitriva d’amore come bionda puledra
e le sfere dell’orologio del ghetto
ruotavano a rovescio.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

VII

Questi miei piedi penitenti
hanno strisciato sugli assiti
nel crepuscolo delle chiese,
hanno percorso sinagoghe e moschee
in tortuosi itinerari per condurmi
a sciogliere e comporre l’assoluto.
Ma da quali vetrate discesero
le serene presenze della speranza,
filtrate dall’occhio aperto di Dio,
sulla mia strada inquieta?
A Strasburgo, a Colonia
alla Sainte-Chapelle, a Saint-Severin
la grazia pioveva in policromi riflessi
nel buio delle arcate dell’anima mia
che non riusciva a tendere l’ogiva
fino ai gotici slanci delle sue cattedrali.
La speranza, o Signore, l’ho ritrovata
nelle voci bianche che delirano Bach,
nella Passione secondo Matteo
e a pochi passi da casa nel tuo volto
impassibile senza odio né collera,
nel solenne gesto delle braccia
levate ad abbracciare il mondo
dall’alto della Cappella Sistina
sul mio corpo nudo di uomo
stremato per il lungo viaggio nel deserto.
(da: Viaggio nel deserto 1988)


LETTERA DA VIENNA

Potrei descriverti
l’incerto colore del Danubio
la Foresta che assedia la città
vista da un tavolo del Kahlemberg
o dirti a quanto acquisto uno scellino.
Ti scrivo invece che nel cuore dell’Europa
forse
ho incontrato il nemico
che mi braccò per tutta una notte
con il mitra sotto l’ascella.
E’ l’uomo del cantiere
che mi viene incontro
con gli occhi chiari
pieni ancora del sole dei nostri paesi
e le braccia inermi lungo il corpo;
sotto la tuta celeste
mi somiglia come un fratello,
taciturno mi sta accanto
nel lento giro della Riesenrad
o canta in coro con me
nella bettola del Grinzing.

Ora siamo tornati
alle tranquille stagioni,
ognuno porta sul petto
la stessa croce che piantammo
sul cumulo che copre
le ossa disfatte del nemico
freddato dietro la siepe;
il soldato disperso
nella valle di Macchia d’Isernia
che vidi ucciso lungo il ruscello
aveva lo stesso sorriso
del fattorino che oggi
mi stacca il biglietto lungo il Ring.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

L'ACQUA DU HUDSON

Al quattordicesimo piano
della cinquantottesima strada
in una stanza del Manger Windsor Hotel
l’acqua dell’Hudson
sale implacabile
assieme ai rifiuti di questa città
e vi annegano
-tutti i giorni vi annegano-
gli uomini
da solitudine ossessi
che stanno a costruire il futuro
senza un passato
da amare o negare.
Sale da Harlem
cheta come l’inedia,
torbida come gli stupri,
vorticosa come l’ebbrezza
ed è nera come la pelle dei negri,
bianca come la cornea dei negri,
rossa come il sangue dei negri.

A Broadway si beve ghiaccio e bourbon
misto all’acqua dell’Hudson
e le insegne che incendiano la notte
si spengono come candele;
a Wall Street lava i cervelli
alla finanza degli Stati;
al Rockefeller Center
si fa asettica nelle provette;
al Palazzo di Vetro gorgoglia
nella gola dell’ultimo oratore;
a Bovery disseta ladri e accattoni.

L’acqua dell’Hudson
sale ed invade Manhattan.
(da: Viaggio nel deserto 1988)


LASCIAMO MANHATTAN

Nel quartiere di Queens
un’ora d’amore
costa dai venti ai tenta dollari;
nel Bovery, invece, al suicida
che non potrà mai comprare
la conoscenza di un uomo influente
ne bastano tre per una corda.
Ma nessuno sa dirmi
quanto costi l’ingresso
nel mondo dei banchieri.
Perciò
la folla s’accalca
nell’imbuto dell’Underground,
corre per strade
senza mai voltarsi,
passa i ponti
da una riva all’altra.
Perciò.
E’ perché in cima alla corsa
c’è il sorriso di Lincoln
stampato sulla carta moneta
per comprare
rivendere e comprare
il benessere
che qui chiamano happiness

Lasciamo Manhattan!
Lasciamo Manhattan!
Ma se usciamo dai coni d’ombra
che proiettano i grattacieli,
se attraversiamo i ponti
sospesi nella chiarità
spietata della luce,
ci troveremo soli
negli opachi quartieri di Brooklin.
(da: Viaggio nel deserto 1988)


ANTICA STRADA DI DENTRO

Verrò sempre a rivederti
antica strada di dentro al paese
che solchi contorta le case
e ti incroci con vicoli grigi.
Lì in quel punto preciso
all’ora del vespro
quando tornai da soldato
incontrai mia madre
chiusa in un velo di dolore
che andava per le chiese
perché mi credeva perduto.
Lì in quel punto preciso
nell’abbraccio le dolsi il costato
rotto dal lungo palpitare
e le buttai al collo
le innumeri ore di marcia
e tutti i giorni passati
lontani dal suo amore.

Il sangue suo mi fluiva nel corpo
mentr’ella di sofferta gioia
partoriva un altro figlio.
(da: Viaggio nel deserto 1988)


LA CONGREGA DEI MORTI

Di tempo in tempo vengo
alla congrega dei miei poveri morti
che la memoria ritrasse
nel più malinconico giorno di vita
quando, inconsapevoli,
cominciarono a morire tossendo.

Ammonitore è il gesto
se la mano percuote
la lastra di marmo
che umilia i nomi
e sigilla parole
brevi o lunghe di vita;
temeraria è la domanda
quando insinua a quali approdi
giunga il volo della morte
ed è vano scrutare
nella notte delle loro dimore
per assistere
alla dissoluzione dei corpi
incorrotti soltanto
nel nostro sovvenirli.

Siamo in pena per voi
ma forse più benigna è la sorte
in quel mondo oscuro
che recide il filo delle stirpi
aspettando
d’altra vita il simposio
nell’ossario
del campo di Ezechiele.
(da: Viaggio nel deserto 1988)



NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Nato a Venafro (Isernia) nel 1922, e laureatosi a Napoli nel 1947 in Giurisprudenza, Gennaro Morra vive a Roma ed è stato dirigente generale presso la Presidenza del consiglio dei ministri. Pubblicista e collaboratore di periodici letterari e di quotidiani. Ha scritto numerosi saggi dedicati al Molise e prevalentemente a Venafro, massimamente contenuti nelle edizioni dell’Almanacco del Molise (1975-1982) e in riviste storiche specializzate: (Samnium, Campania Sacra, Studi Storici Meridionali, Archivio storico del Sannio ecc.), nonché uno studio particolareggiato sugli avvenimenti circoscritti all’abbazia di San Vincenzo al Volturno, e ancora Una dinastia feudale: I Pandone di Venafro nel 1985, Il castello di Venafro nel 1993, in collaborazione con F. Valente e Venafro nel 1996 con S. Capini e D. Catalano.L’ultimo suo lavoro, Storia di Venafro dalle origini alla fine del Medioevo, è uscito di recente (Edizioni di Montecassino 2000), con una prefazione di Errico Cuozzo, oedinario di Storia medievale nell’Istituto Universitario” Suor Orsola Benincasa” di Napoli.
Per la poesia ha scritto cinque sillogi: Solstizio D’estate, Gastaldi Editore 1951, Parole udite domani, Schwarz Editore, 1953, Un grido tra le mani, Rebellato Editore, 1959, Memoria di Lei, in edizione privata, e con lo pseudonimo di Andrea Morghen Roma, 1972; Viaggio nel deserto, Firenze Libri, 1988. Sue poesie sono apparse in La Fiera Letteraria, Momenti, Situazione, Poesia Nuova, Quartiere, Quinta Generazione, Prospetti. E’ stato segnalato al San Babila 1950, ed ha vinto a Firenze il Premio La Soffitta 1956.
Si sono, tra gli altri, interessati alla sua opera E. Falqui, B. Battistini, T. Tiglio, E..F. Accrocca, C. Conti, E. Mazali, A. Paolini. Sue poesie sono in: Prima antologia dei poeti nuovi, Edizioni della Meridiana, Milano 1950; Seconda Antologia dei poeti nuovi, Edizioni della Meridiana, Milano 1951; Il Presente, Poesia e Critica, a. II°, n. 7 -1953, Poeti italiani del secondo dopoguerra a cura di M. Cerroni, Labor Arti Grafiche, Roma, 1955; La selva dei poeti a cura di L. Peretti, Editrice Volere, Firenze 1955; La giovane poesia a cura di E. Falqui, Editore Colombo, Roma, 1956; Poeti italiani del secondo dopoguerra con premessa di M. Apollonio, Miano Editore, Milano 1956; Il secondo 900 di C. Bettelli, Editore Amicucci, Padova 1957; L’istanza realista e sociale nella giovane Poesia Italiana di R. Manelli in La giovane poesia italiana e straniera, Edizioni del Fuoco, Roma 1959; Legittimità e limiti della giovane poesia sociale di G. Zagarrio in idem; Poesia abruzzese del 900 di G. Sgattoni, Editrice Quadrivio, Lanciano 1961; La Cultura delle regioni, Abruzzo e Molise, di Tommaso Di Salvo e Giuseppe Zagarrio, Ed. La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967; Studi di poesia e di critica di A. Frattini, Marzorati Editore, Milano 1972; Novecento letterario italiano di E. Falqui, vol. 5°, Vallecchi Editore, Firenze 1973; La poesia neorealista italiana di S. Turconi, Mursia Editore 1977; Poeti Molisani, a cura di Titina Sardelli, Editrice Marinelli 1977; Poeti in Abruzzo e Molise di G. Porto in Inchiesta sulla Poesia, Edizioni Bastogi, Foggia 1978; Oltre Eboli: La Poesia, La condizione poetica tra società e cultura meridionale- 1945-1978, volume primo, a cura di Antonio Motta, con interventi critici di Carlo A. Augieri, Introduzione di Leonardo Mancino, Lacaita Editore 1979, Il Neorealismo nella poesia italiana 1941-1956 di W. Siti, Einaudi Editore, 1980; La poesia nel Molise, Quinta Generazione. anno. IX 1981.gennaio-febbraio nn. 79-80, a cura di Mario M. Gabriele; Poesia e regione in Italia, Istituto Propaganda Libraria 1983, di Alberto Frattini, Cronache Lucane del 10 novembre 1988 di Francesco Marotta, Poeti molisani d’oggi: appunti per una campionatura di Luigi Fontanella su Misure Critiche, nn. 68-69, anno 1988, La Stanza letteraria di Luciana Argentino, 15 giugno 1990; Letture di V. Rossi, Edizioni Il Ponte Italo-Americano, New York 1993; Letteratura delle regioni d’Italia —Storia e testi- Molise- di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli, Editrice La Scuola, 1994, Poeti Molisani: tra rinnovamento trasgressione e tradizione, Nuova Letteratura 1998, a cura di Mario M. Gabriele, La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea, Nuova letteratura 2000, a cura di Mario M. Gabriele.



SINTESI CRITICHE

“Poesia già matura e temprata nella idonea esperienza degli accordi interiori, perciò serenamente composta, elaborata. Classica nel tono armonioso e dimesso, moderna negli accostamenti di stile e di immediata spontanea capacità espressiva….”(M. Apollonio)

“Egli sembra non dipendere da nessuno e la sua voce è un singolare esempio di severità, di compostezza e di ardita solitudine. Niente drammi, niente coralità, niente svolazzi, niente oscurità ma solo un verso articolato semplicemente, aspro e a volte sassoso come la sua terra del Molise, arido come le cime piatte e desolate dei suoi monti. Anche il suo dolore è attenuato entro i limiti di una denuncia senza niente di retorico. Il fascino di questa poesia sta proprio lì, in quel coraggioso smorzare i toni forti, in quell’accontentarsi degli accordi più scarni e dimessi”. (A. Paolini)

“Il suo primo volume di versi è sulla scia del gusto novecentesco. Col secondo libro egli entra nell’area neorealista sviluppando i temi della miseria e dell’arretratezza dei contadini meridionali espressi in un linguaggio discorsivo ma carico di suggestioni letterarie”. (S. Turconi)

“La poesia di Gennaro Morra è costruita su una ”bipolarità” di equivalenza tra folclore e “meridionalismo” in modo pertinente ed intrinseco; ne consegue che ogni immagine tipica della cultura della povertà si completa sul piano del “significato” solo se posta accanto al corrispettivo tematico di una simbologia “sociale”. (C.A. Augieri)

“Fuori dagli schemi fissi e gratuiti la sua poesia immediata ed intensa scava nella miniera di una civiltà apparentemente stanca ed esausta, ci sa dare una immagine appassionata e convincente, veramente, degna di essere conosciuta”. (G. Cremaschi)

“La misura più vistosa di questo Sud di Morra è l’elegia, come accettazione e rimpianto della terra dei padri. In questo senso è più vicino a Quasimodo, a Sinisgalli, a Gatto. In questo senso il Molise è un’arcadia di memorie”. (A: Motta)

“Morra resta fedele, nei liberi moti del suo canto, alla terra dei padri, alle sofferenze, alle miserie, alle speranze dei suoi corregionali, in una testimonianza felicemente equilibrata tra umana partecipazione e ansia di riscatto”. (A. Frattini)

“Gennaro Morra può di diritto includersi tra le voci più apprezzate che l’Abruzzo ha dato, tra il 45 e il 60, alla ”giovane poesia” italiana (A. Frattini)

:….E’ una poesia aspra e forte, con accenti scabri, con toni di concisione, con modernità di movenze: una poesia che lascia un solco in chi legge, che attira per una sua racchiusa forza umana, per un suo preciso impegno di canto, che rifugge da edulcorate finezze, per scavarsi, rude e sofferto, nell’anima”. (P. Raimondi)

…..La maggior forza di suggestione (e di persuasione) deriva proprio da questo lessico arido e violento che gode della straordinaria proprietà di aprire improvvise e folte risonanze: sta proprio nella forza di certe cesure, di tutto il ritmo “interno” che sorregge e guida l’operazione di questo poeta….”(D. Menichini)

“Gennaro Morra è uno di quei poeti che non ci stancherebbe mai di conoscere meglio, per quella istintiva virtù verso una tipizzazione lirica nutrita di acuto e sincero amore alle cose, per quella riscoperta di una realtà umana, attraverso i suoi racconti emotivi, di singolare validità e a carattere e contenuti di presenza e memoria”. (D. Cara)

“C’è un’oggettivazione quasi umana, fraterna di cose, come di persone che vivano e soffrano; è dolorante realismo che geme in versi scabri, dove si sente il soffocato singhiozzo, l’affanno di una “terra di pianto nato da occhi aperti a sorrisi di dolore”. Leggendo questi versi si prova la stessa impressione che si ha davanti alle sofferte figure umane ritratte da Carlo Levi” (Oronzo Giordano)

“Il canto di G. Morra (Parole udite domani Schwarz, 1953), affonda le sue radici nella terra dei padri, il Molise, ed è tenuto su una vena di malinconica sospensione tra il desiderio di fuga dalle “strade catramate” della città e la coscienza della drammatica miseria contadina.
La protesta sociale assume una forma accorata, descrittiva, immediatamente accessibile per la popolarità dell’immagine e la semplicità della paratassi”. (Giuliano Manacorda in Storia della letteratura italiana contemporanea 1940-1996)

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