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domenica 16 ottobre 2016

DUE POESIE DI MARIO Mario M. Gabriele da "L'erba di Stonehenge" (Progetto Cultura, 2016)

DUE POESIE DI MARIO Mario M. Gabriele da "L'erba di Stonehenge" (Progetto Cultura, 2016)
Riprendo quanto ho già scritto sulla poesia di Mario Gabriele che considero una delle punte più alte della poesia contemporanea:
Mario Gabriele è un rivoluzionario della poesia contemporanea, utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…
Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:
“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa." *
(22)
La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.
-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.
Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.
Candy temeva i mesi più della bufera.
Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.
(23)
Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.
Mary nel Getsemani
cerca il pane dell’Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.
Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.
Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiums With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.
(Osip Mandel'stam, in La parola e la cultura)

INTERVISTA DI GIORGIO LINGUAGLOSSA A MARIO M. GABRIELE

GIORGIO LINGUAGLOSSA INTERVISTA  MARIO M. GABRIELE

Domanda: Nel discorso poetico del tardo Novecento sono venuti a cadere le grandi narrazioni, restano i piccoli racconti dell’io solitario che accudisce la reificazione del discorso poetico ad uso privato del soggetto poetante. Oggi si assiste ad una “poesia” piena di episodi biografici, si crede ingenuamente che la propria biografia debba entrare nella forma-poesia. I tuoi libri, invece, si muovono in un orizzonte tematico e problematico. I tuoi ultimi libri: Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione Galante (2004), Un burberry azzurro  (2008) e Ritratto di Signora (2014), «non sono correlati ad un determinato modello, ma ad una galleria di “soggetti” che, sottostanti il ritratto principale, si fondono in un’unica panoramica, dove la scrittura poetica si fa pellicola simbolica di microstorie pubbliche e private nate dalla “metamorfosi dell’oggetto”» (Luca Landolfi). La tua poesia invece adotta la citazione come metodo di composizione e di collage tra elementi disparati del mondo e di trasmissione dei valori estetici della tradizione.
Il metodo della citazione che tu adotti, questo del collage e della citazione, produce un rafforzamento plurilinguistico della comunicazione estetica; la citazione viene intesa come contigua alle esperienze denaturate del «valore di scambio» delle scritture pubblicitarie. Propriamente, la citazione è la costituzione della nostra biografia, siamo diventati citazione di qukalcun’altro e di qualcosa d’altro. La tua poesia si nutre di citazioni culte, di cronotopi letterari, di films, di scritte della pubblicità, etc. come un mostro carnivoro si ciba di carni insanguinate, non può essere altrimenti e non può tradire il proprio DNA: è un mostro cannibalico che fagocita i segni e i segmenti semantici della tradizione ridotta ad emporio di citazioni in libera svendita.
Questa mia lettura ti trova d’accordo?

Risposta: Gli anni Sessanta hanno determinato la fine della poesia-racconto, come misura unica del testo, lasciando spazio a Correnti e Gruppi letterari, che si sono alternati nel tentativo di costituire un valido punto di riferimento, che in effetti non vi è stato, se si voglia sul piano delle verifiche controllare la loro sopravvivenza, spesso limitata a qualche decennio e anche meno, mentre una parte della critica letteraria si occupava  del nuovo percorso linguistico nel segno dello Strutturalismo. Viviani, Ottonieri, Ramous, Baino, ecc. sono stati i rappresentanti di una poesia anatomopatologica e dermoesfoliativa, oggi in stato di colliquazione come le antologie, omissive di nomi e opere, sostituite da quelle indirizzate verso la periodizzazione repertoriale, con giudizi critici di sopravvalutazione. Si è lasciato il campo ad autori dal balbettio terminale, fino a quando la loro stessa voce si è afonizzata. Non esiste ancora lo spazio per riempire il Vuoto con una poesia alternativa. Ogni poeta opera secondo la propria cultura e sensibilità. Da qui l’esplicazione di una visione della realtà che è, nel mio caso, repertorio di memorie, di figure femminili e di luoghi provenienti da un carotaggio psichico di diversa stratificazione. Non a caso Freud, sul significato di creazione artistica, riconduce ogni cosa alla sfera intima e mentale. Ho rifiutato il pentagramma lirico di vecchia classe istituzionale, per addentrarmi non nella cellula poetica degli oggetti, ma in quella dei soggetti vivi e morti, entrambi destinati all’oblio, e per questo motivo ne rivitalizzo la presenza-assenza con la citazione dei loro versi, che formano una doppia aura all’interno di un’unica cornice. Più in specifico, è l’adesione a un linguaggio interrelazionale, che ricorda Eliot, ma anche il pensiero filosofico di Derrida, quando supera il concetto di finitudine dell’uomo, e lo traspone in un’altra dimensione: quella della scrittura, che rimane l’unica traccia visibile e duratura di uno scrittore. Da qui la nascita degli Autoritratti avvolti dalla metafora, come modello biottico di fusione nel testo principale. E’ ciò che accade un po’ nei miei volumi: Le finestre di Magritte, Bouquet, Conversazione galante, Ritratto di Signora, Un burberry azzurro e nell’Erba di Stonehenge, dove ricompongo l’estetica del verso per rinnovare il mito della vita lungo le strade del mondo, i cui eventi non si discostano molto dalla nostra sensibilità e cultura, pur essendo espressi con particelle linguistiche di diversa provenienza, nel tentativo, sempre più difficile, di trovare nuovi spazi alla poesia. La forma adottata è estranea a qualsiasi concetto di “moda”, poiché ho voluto ricondurre l’esercizio della scrittura alla libera invenzione della lingua, anche se poi, qualsiasi mezzo adoperato in poesia si logora da sé, subendo la contaminazione del tempo.


Domanda: Si parla oggi molto spesso di esperienze «non-reali», che l’autore non ha mai provato, delle esperienze del padre, del nonno e così via. Ma allora si scriva un romanzo! Ben più idoneo alla ricostruzione di una esperienza mai esperita. Nel romanzo questo è possibile, in poesia, no. Se nell’ipermarket tendono a scomparire i confini tra le varie tipologie di merci in un susseguirsi di produzione indifferenziata fondata sulla minima differenza e sul minimo scarto, oggi si assiste al medesimo fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere, tra i singoli sotto-generi, de-vitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per trasformarsi in un «contenitore», un «palinsesto», tenda ad un «genere indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico e transpolitico. Negli autori di moda si tende alla chatpoetry, al pettegolezzo da lettino psicanalitico (Vivian Lamarque), pettegolezzo da intrattenimento ludico-ironico (Franco Marcoaldi), flusso di coscienza reificato e disconnesso, utopia agrituristica, monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione intellettuale per assecondare gli utenti di una cultura di massa (Valerio Magrelli). Ma il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1) afferma Vattimo; ma se la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del Progresso e alle istituzioni culturali che in tutto il Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno.

Qual è il tuo pensiero in proposito?

Risposta: Nel momento in cui scompaiono i “confini tra le varie tipologie di merci e di generi artistici”, vengono a decadere anche le ragioni per cui si è creduto a un determinato modello economico e culturale. È il segno dei nostri tempi e delle mutate condizioni sociali dovute al consumismo. La verità è che siamo entrati in un mondo nel quale l’homo faber entra autonomamente in un mercato di merci. consentendogli di “barattare, trafficare e scambiare una cosa per un’altra”, assumendo una specie di “sfera pubblica”, ma non politica, nel mercato di scambio dei rispettivi prodotti. Siamo lontani dalla alienazione marxiana e dal primo stadio di sottomissione capitalistica, ma molto vicini ad una autonomia commerciale, dove le cose “compaiono come merci per essere valutate o rifiutate”. Lo stesso discorso vale per la poesia, anch’essa ridotta a prodotto di consumo, nella molteplice varietà del linguaggio a servizio di una diplomazia lessicale, che vuole essere, come in effetti è, deterioramento del tessuto linguistico e fiches verbali in un gioco senza risultati.  La visibilità di questa merce non è il marchio di fabbrica, ma la proposizione  di versi che hanno un ‘unica direzione: la dissoluzione  finale. La poesia di oggi si proietta all’esterno come esercizio di scena: è teatro, “voice” in permanente esibizione, da cui partono poi le affiliazioni nel massimo grado della praticabilità e dei tecnicismi  riconducibili alle forme traslative e disgiuntive, verboiconiche e arcaiche, trasgressive e fono lessicali. Esistono, è vero, gli strumenti, ma non la ”qualità”. L’avvento della borghesia ha dischiuso le porte del mercato mondiale, dove le ideologie hanno perso valore, e l’unica forma che resiste è la merce di consumo. Con il tramonto della metafisica, e dei suoi valori assoluti, l’Essere “può venire esperito” secondo Vattimo, soltanto “debolmente”, come una struttura ondulante, rispetto al concetto di stabilità della metafisica. Una teoresi, scientifica o filosofica, può essere sempre sottoposta all’azione della falsificabilità nel momento in cui si riscontrino deduzioni, dichiaratamente incongrue e asimmetriche. È quanto si verifica nella poesia, esposta a significative contraddizioni e metamorfosi, di fronte al continuo rapporto-scontro con il postmoderno, e la metafisica e, infine, con il postmetafisico, Appare, pertanto, possibile indagare su ogni categoria, con una critica sempre più revisionista, che propone congetture in continua evoluzione e fibrillazione di fronte alla trasmutabilità del Logos e dell’avanzamento del Progresso.


Domanda: Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso. Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità» (come il concetto del «nuovo») è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo
Qual è la tua opinione?

Risposta: Credo, in questo caso, di dover citare J. F. Lyotard a cui va il merito della diffusione del termine post-moderno, e la conseguente nascita di una stagione filosofica, in cui il sapere si esterna non più per capitoli interi, ma per appunti di riflessione, chiari e sintetici, dopo la fine delle narrazioni. L’assenza di una filosofia della Storia e dell’Arte è da collegare, probabilmente, alla crisi della critica di fronte alle avanguardie e alle velocizzazioni tecnologiche, che si sono susseguite come trasformazione del capitalismo. Dopo anni di sociologismo politico e ideologico, è tempo di restituire all’Uomo più dignità, non riconosciuta dal comportamento aziendale dell’economia. Il futuro opera in modo che tutto sia condizionato dal progresso, ma quanto a riportare i parametri della vita e il decoro poetico a livelli accettabili non sembra facile. Si ha la sensazione che tutto questo sia il risultato di una alienazione esistenziale, economica e ideologica. L’uomo non trova più soddisfazione nei prodotti di consumo da lui creati. Si disarticola nell’accomodamento inerziale di fronte al progresso, senza alcuna identificazione nei confronti della Globalizzazione, che in effetti lo immiserisce, lo emargina, abituandolo alla inconsistenza dell’Essere. La demassificazione delle classi operaie, il progetto di un Nuovo Ordine Mondiale, e i conflitti geopolitici, con la costante invasione migratoria, non rendono la dialettica intorno alla poesia, terreno fertile di ogni discussione. Anzi, la crisi attuale la neutralizza, tanto che il mondo potrebbe benissimo fare a meno della sua presenza. Non esiste alcuna possibilità di resurrezione letteraria, perché tutto nasce e si dissolve non lasciando alcuna traccia, neanche la creatività dell’angoscia. Né si può dire di trovarci in una zona di attesa perché il crollo della società contrattualistica, con il sindacato messo alle corde, e l’annullamento del diritto di fronte alla supremazia del potere finanziario e del carattere tirannico delle democrazie, rendono astorici e nullificanti tutti i valori connessi alla poesia, alla narrazione, ad ogni fondamento costitutivo della Forma. Inoltre, i conflitti balcanici, la guerra in Medio Oriente e il terrorismo, sono stati gli ostacoli di maggiore frenaggio per la poesia  civile, la cui assenza è allarmante, per non dire sorprendente. Con molta probabilità ai poeti interessa l’IO e l’autobiografia, il ricorso alle succursali linguistiche novecentesche, la permanenza in un backstage fatto di maschere, e vuoto narcisismo, temporaneamente annullati dall’antologia di Ernesto Galli della Loggia  in “La Poesia Civile e Politica dell’Italia del Novecento”, BUR-Saggi, 2011. Tuttavia, esiste un “pendolo della letteratura”, la cui oscillazione va e viene, anche se bisogna partire da zero, dando alla poesia infusioni energetiche, in grado di tenerla in vita. Ma come iniziare questa avventura? Semplicemente prendendo ad esempio il pensiero di Hans Freyer in: “Società e Cultura,”  quando afferma che “la lingua deve definire, senza però ridursi a un resto amorfo,  deve dominare, e nello stesso tempo, colma sino all’orlo di significati deve scoppiare di forza espressiva”.  Chi ha voluto la dissoluzione dell’Origine, della Storia, dell’Arte, della Filosofia e di ogni altro Edificio culturale, ha tramato contro la stessa civiltà dell’uomo, conseguita dopo secoli di sacrifici, di rivoluzioni, di guerre, di ricerche scientifiche, per destabilizzare il pensiero polivalente e della Metafisica di Aristotele, che riconosce agli uomini il diritto di sapere contro l’ignoranza.


Domanda: Per Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 2)

Risposta: La via di svolta per l’uomo di tornare al proprio concetto di Essere, di fronte alla sua temporalità, trova in Heidegger uno dei maggiori sostenitori. Pensare è archiviare le superstizioni dando validità al pensiero scientifico, come credeva anche Einstein. Il postmetafisico agisce come un cambio di pagina nella storia del divenire critico e filosofico, smantellando un sistema culturale non più propositivo, attraverso l’esercizio del pensiero esplicante una critica opposta a tutto ciò che prima era istituzionalizzato e accettato. Uscire dalla considerazione dell’Essere, come soggetto integrato nella metafisica, e da cui ci si distacca soltanto riducendone i valori assoluti, significa per Vattimo “progettare” un iter filosofico nel momento in cui l’Occidente si è trovato di fronte al tramonto della metafisica, per cui l’unica via possibile era svincolare l’Essere, depotenziandolo dalla sua categoria, per continuare un discorso interpretativo e logico sulla realtà, dove l’Essere si minimizza in un frammento in rovina. Non sembrerà un indirizzo teoretico periferico o isolato se anche altri filosofi si sono espressi con ulteriori concetti critici, legati al binomio Teoria-Prassi, Totalità e Unità, Staticità e Critica: tutto un repertorio di temi al vaglio dell’Osservazione, come metodo di “Obiezione”, e di legittimo senso del superamento della monolitica visione esternalista, dopo ogni caduta di tensione nella società.


Domanda: Possiamo allora affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero? Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al Discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.

Risposta: La decostruzione della metafisica correlata al concetto di sostanza-presenza, con i fondamenti inattaccabili quali: Dio, l’Essere, il Soggetto, porta Heidegger a considerare l’esistenza nella sua realtà, fatta di angoscia e di nulla. Nel post-metafisico, vengono a decadere gli equilibri universali, per lasciare il posto a una logica, che rispecchi la verità, con le sue connotazioni di tipo socio-politico e culturale. Siamo all’interno di un ordinamento socio-culturale correlato al “sentire critico”, indirizzato verso varie ubicazioni, non ultima quella della scrittura poetica che si situa tra il tentativo di consolidamento e la frantumazione, tanto che alla fine, le giunture provvisorie non portano ad un impianto duraturo e armonico dell’edificio: il risultato, è quasi sempre lo sforzo di ricomporre l’unità linguistica e culturale, che dovrebbe essere riassorbita da una nuova civiltà letteraria e poetica, in assenza della quale bisognerà, continuamente, fare i conti con le proiezioni del pensiero e della continua riflessione critica e filosofica.
Domanda: La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni. La tua poesia parte da qui, è il tentativo di ripartire dal significato di una immagine, da una citazione, da un segno come effetto di superficie ed effetto di lontananza. Che cos’è l’effetto di superficie? Qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario: l’essenza, la coscienza, e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie», relitto linguistico che galleggia nel mare del linguaggio, il reale subliminale che sta appena al di sotto della superficie della coscienza linguistica. Non bisogna con ciò intendere, né vorrei darlo ad intendere, che il senso sia qualcosa di diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se fosse un segno o un sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro che ha contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa); né bisogna intendere la stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile», ovvero, non modificabile almeno per un certo periodo. Infatti, mi chiedo, può esistere qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale? – Ciò di cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, appartenente al sensorio (e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il senso abita l’immagine, il significato, ovvero, il sensorio? Forse. I personaggi delle tue poesie sono gli equivalenti dei quasi-morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito (le categorie dello scambio simbolico), essi sì che corrispondono allo scambio economico-monetario al pari delle pagine di un medesimo foglio bianco che attende la scrittura. Al pari della moneta anche la parola poetica vive ed è reale soltanto nello scambio simbolico (ma qui il discorso si allungherebbe). Anche se è da dire che nel tessuto fisico-chimico della tua poesia penetrano (osmoticamente, e quindi ideologicamente) lacerti, lemmi e immagini del linguaggio poetico orfico che si sono sedimentati appena sotto la superficie del testo, indebolendo (più che rafforzando) il passo della sintassi (claudicante in quanto non più originaria, non più ordo rerum né più ordo verborum).
Risposta: Devo ammettere che il discorso si sta orientando verso un piano di dialettica filosofico-letteraria nel tentativo di ricomporre un Corpo, restituendogli la sua Forma. Difficile amalgamare le evaporazioni del Tempo e del Presente riunendole osmoticamente, nella vita e nella poesia. Ci siamo addentrati non solo nelle terre della oggettività, ma anche in quelle della soggettività fasciandole di filosofia. La fine del linguaggio narrativo ha caratterizzato il secondo Novecento, trascinandosi dietro la deregulation poetica e linguistica, che ha allontanato l’interesse della critica e del lettore. Ci sono volumi di poesie che sono pagine bianche, le stesse che si trovano al Centro del Nulla. Si tratta, quasi sempre, di una poesia priva di latitudini e di cartelli indicativi che possano indirizzare il poeta e il lettore, verso qualcosa di durevole. che non è realizzabile perché è nel cromosoma della Natura, fonte essa stessa di vita e di morte, di senso e contro senso. Ipotizzando, per un attimo, la precarietà del significato, quando ti poni la domanda: “Esiste qualcosa di stabile all’interno della fluidificazione universale, almeno per un certo periodo?”, la risposta scientifica più valida la potrebbe dare il noto astrofisico inglese Stephen Hawking; ma, da buon Osservatore delle cose e Propositore di progetti quale sei, già la conosci, ben sapendo che ”l’effetto di superficie”, come lo definisci, ha una frequenza brevissima, come il Big Ben della Torre di Londra. Quanto ai lemmi, ai lacerti e alle immagini da te riscontrati nella lettura dei miei versi, mi richiamo a quanto già detto sulla mia poesia, a inizio del nostro colloquio, consapevole che anch’essa, quale agglomerato di frammenti, appena sotto la superficie, rimanga in attesa del dissolvimento, come tutte le cose inserite nel mondo. Devo qui richiamare Deleuze? Penso di si quando sostiene che la teoria del senso non è legata in alcun modo a qualcosa di eterno o al suo radicamento nella profondità della coscienza.


Domanda: «Effetto di superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze il senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma è un evento, sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di frammento in rovina, ed è il prodotto di una «assenza» costituita (non originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio elegiaco o la poesia che si aggrappa agli «oggetti» come un naufrago al salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello «Spirito», non c’è nessuna «utopia» che ci riscatti dal «quotidiano» o dal viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffè, un aperitivo e un chinotto, o in un improbabile bosco con tanto di margherite e vasi di geranio ben accuditi). La tua poesia non sfugge a questa problematica, ci sta dentro come nel suo elemento marino. Anzi, trae da questa situazione la propria forza di vitalità e la propria giustificazione di esistere. Sbaglio o ho colto nel segno?

Risposta: Deleuze ha cercato di creare un pensiero su filosofia e letteratura, positivismo e psicoanalisi, focalizzando l’attenzione sul senso del pensare, come risulta nel suo volume: Logica del senso. Il pensiero è l’atto dell’indagare come in altri filosofi: Nietzsche, Bergson, Kant, Spinoza, Hume e Leibniz. Estraneo alla metafisica, Deleuze approda ad una distinzione del pensiero per superare l’opposizione fra due contrasti come può essere ad esempio la staticità e il movimento.
Quindi nessun approccio al concetto di eternità e al suo radicamento nelle viscere della coscienza e dell’Idealismo. Secondo Deleuze, è l’imprevedibilità del caso a generare il senso che non si produce dall’azione di un soggetto. È libero di agire non essendo legato a nessun vincolo. Si genera da sé, riducendo altezze e profondità,  finito e infinito, in un dualismo sottoposto sempre alla verifica dell’inconscio. Il “senso” come  tu dici, Giorgio, “è un evento in forma di “frammento in rovina”, che può adattarsi a tutti i fenomeni esterni, privo di approdi salvifici per la poesia nel dissolvimento dell’IO e di tutti i Fondamenti, senza alcuna possibilità di salvezza a ”portata dello “Spirito”, per uscire dal calendario giornaliero e dalla marginalità dell’essere qui e ora, essendo noi stessi frammenti di un Principio (Vita) e del suo controsenso, rappresentato dalla (Morte).Tranne le argomentazioni religiose, è evidente che la filosofia del razionalismo ateo non riesca a dare un “Centro” se non quello di un “polo” negativo, trasformando l’Essere in un non Essere, secondo il pensiero di Heidegger, così come la poesia che, una volta dissacrati i costumi dell’estetica, si minimalizza, proiettandosi nel passato e nel presente con i suoi frammenti in rovina. Ciò porta il poeta a rimanere in una camera buia, in attesa, che tornino senso, forma e contenuti: ossia la luce. (ma poi mi chiedo, verrà mai questo bagliore?). Alla domanda se la mia poesia è in sintonia con ciò che hai esposto, o ipotizzato a chiusura della tua intervista, ti invito a considerare questa mia similitudine quando paragono la poesia a un cristallo dai molteplici riflessi, che hai saputo captare con profondo spirito di osservazione, segno evidente che sottoponi a giusta critica ciò che leggi e senza tariffario. Ringraziandoti per l’attenzione e la gentile ospitalità, ti esprimo i miei più cordiali saluti e auguri di buon lavoro. Mario M. Gabriele.

1 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 p. 114
2 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21

Dall'Ombra delle parole, aprile 2016




L'ERBA DI STONEHENGE di Mario M. Gabriele

(1)                        Poéme en Prose
Giuditta Aldobrandi, governante dei Conti Mineo,
prese posto sul treno Berlino-Milano,
e vi sostò irrequieta.
Una donna, senza trucco Perlier,
si specchiava ai finestrini bagnati dal nevischio.
- Anni davvero imprevedibili- disse il cartomante.
Inverno sotto zero.
Era un miracolo se non si occludevano le vene.
Cartilagine assottigliata all’osso.
Come un morso stringeva il gelo.
Non si capiva se c’era nebbia oppure neve.
Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President!
Good Morning Bagdad!  
I crani della Storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
Bombs! Bombs! Bombs!
In viaggio con Jack
si avvertiva una ferita ancora aperta:
un senso di colpa, mai risolto.
Veneziani merletti di schiuma e di glassa,
ci pensi oh Al Qasim sembravano luminarie
ed erano cannule di cancri e inganni:
Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
arabesque di fosforo bianco
sulla città senza skateboard e pick-up,
come a Phuket, quando in un mattino dorato
portava il terrore lo tsunami,
venuto per bocca di mare e splendido sole.
L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.
Terra di vento. Terra desolata!
Gli alberi del Sud danno uno strano frutto,
sangue sulle foglie, sangue alla radice,
corpi neri che ciondolano nella brezza del Sud,
strano frutto che pende dai pioppi.
Le due ragazze venute da Princeton,
non amavano le piante rosso-Mirò.
Se ne stavano tranquille
leggendo Berryman e Bishop.
Alla settima stazione Johannes
prese dodici pietre  pari ai mesi dell’anno
e le portò  al tribuno di turno dicendo:
ecco  I dolori del giovane Werther,
poi  bevemmo dodici tazze d’acqua di mare.
Tornarono gli uomini della Landespolizei
a chiedere biglietti ai viaggiatori della Guyana.
Prima di partire portammo rametti di boldo,
e per sette volte, e soltanto in quest’ultimo giorno,
pregammo per noi  e per tutti i giorni nell’ombra.

(2)
                       
Finiva la sera tra diaspore accese.
Nel terzo frammento di anonimo fiorentino
i peccatori non entrano in cielo
finché dura la terra,
e giorno e notte non cesseranno
come il ricordo di Barbara Winter
che tanto amò,
e di Timothy il pescatore,
e di Jorge, il custode del cimitero,
e di Padre Alberico
quando parlava ai dispersi nell’ombra:
- Il Signore avrà cura di voi,
così com’è scritto nel Libro d’oro
e Allume di Rocca-.

Loris, avanti negli anni,
scelse il vestito più bello
per un giro di valzer al Garden Hotel
dove due mistici
discutevano con le Signore di Betz
di Luca e Giovanni;
- Se ci seguirai - dissero,
- ti daremo pane e verbena
e l’amore di Ketty nelle notti più fredde dell’anno-,
e non so più in quale Trittico
è riportato il frutto proibito
con un Giardino di candidi gigli,
e la luce del sole come un faro sul mondo.
A sera  beviamo Jagermeister
dai calici d’argento lavorati a scalpello
sui tavoli di mirra e incenso
per un dolce Nirvana,
né topici unguenti ci guariranno domani.

Quest’anno  il viburno non ha dato più fiori
e il viaggio è appena cominciato
senza trolley e bussola di marinaio,
diviso il bene e il male, la bufera e altro.

(3)

La notte  celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud  e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.

Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.

Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda  sognava  l’Africa di Mandela.

-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”-
scriveva  Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì  a svelare le carte del futuro,
Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.

L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con  la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.

Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.

Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove  c’è sempre qualcuno 
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.

(4)

La luce apriva varchi alla città
fino al colle delle beatitudini.
Bennett riordinò i pensieri.
Le cose più strane vennero
quando attraversammo il confine.

La strada era asfaltata.
-Che fai Dorothy,
leggi ancora Gottfried  Benn?-
Klabund  è morto da un pezzo.
- Vuole un drink, Mister Cooke?-
I figli di Jane sono rimasti a Stratford
con  Re Lear e Macbeth.-

Il fiume, già al limite di guardia,
seguiva  il Big Ben dissolto nella nebbia.
Un entroterra senza verde
attendeva  la primavera.
C’era ancora una solida luce nella casa
a illuminare gli angoli bui.

L’uomo, con le cicatrici alle spalle,
ha lasciato versi double face.
E’ stato Priston a dirci di lui
con tutte le storie su Evelyn e Hooper
e della casa venduta a Willowbrook.
Aspetteremo che passi l’inverno.
A marzo, dovrà pure fermarsi Violetta!

(5)

Niente di vero
che tu possa restare in questo villaggio.
Ci sono ricambi di stagione
che non puoi prevedere.
Quando stavamo in città,
 e non c’erano furti nella casa,
ogni pensiero era allodola nel mattino.
A Elisabetta piaceva  Il ritratto di Dorian Gray
e  un PC con webcam sul Mondo.
C’è  un turno che ha un volto di pietra
e  tutto quello che vedi è casa, nido,
ripostiglio di figure la sera.
La curva delle costole
era il punto più alto del dolore.
Alberto venne in anticipo
a prendere sciarpa e cappotto per l’open day
mentre leggevamo i suoi versi blu night.
La notte era un cobra selvaggio.
Un verso-bolero scivolò sul parquet.
-Meine Damen Und Herren-,
disse  l’anchormann  in TV.
Domani riapre il teatro
con trentasette  ballate di Enzensberger
senza Schulz e il Mein Kampf.

(6)

Dove  le volpi allarmavano la brughiera
ora c’è l’autunno flagellato sui cipressi.
Il nostro addio non fu mai una morte
se anche il caso ci portò al caffè Balestra,
patria di scrittori dandy e un po’ neorealisti.
Madame Ligussì, interpellata,
non confermò la presenza di amorini antichi,
nonostante le carte
sembrassero quelle di un mercatino
che di una astrologa.
Tra me e te era rimasto un ponte
e nel tempo una tèrmite.

Baldus scese le scale citando il Decalogo:
- Saranno vostri i delfini del mare
e gli uccelli del cielo,
ma non avrete un penny per i vostri  peccati.-

Corvi e ippogrifi
restarono in un mondo senza albe e tramonti,
e il mattino era un deserto,
e il deserto era senza il mattino,
e fu un freddo avvento per noi,
proprio il tempo peggiore dell’anno,
per un viaggio, per un lungo viaggio come questo,
e chi giunse al fuoco del bivacco
trovò anfore e amuleti,
senza lasciare traccia o indizi
all’ultimo venuto e a chicchessia.

(7)

Questa tela di anni così diversi fra loro
poteva  avere  bordi  più belli,
ma Ketty non volle.

Una Street Art in via Merulana
fissava sui muri colori inadatti
per un inverno alle porte.

Zia Molly contava  i  boys del West Coast
caduti ad Al -Anbar:
ragazzi del melting pot,
che amavano raps e  rhythm & blues,
senza  le mitragliette Uzi,
mentre saltavano pick-up,
e boati scuotevano i fiordalisi
massacrati nei giardini.

Lungo la Deutsche –Limes Strass,
tra striduli violini e suonatori d’orchestra,
tornarono in mente le cialde
dei forni di Auschwitz
anche se il meglio con il tempo
non è mai venuto,
dopo il canto di Simeone
e le campane di Pasqua.

(8)

Un tessuto di velluto rosso
bruciava  tra le ceneri del mese.

Vicina al convento dei frati minori
si sdoppiava  la strada  barocca
con l’epigrafe sul vecchio maniero:
-Resterete qui in un breve battito d’ali,
tra polvere d’astri e di comete-.

Il turista venuto da Brera
gustava crème brùlée
durante il concerto brandeburghese
su una storia di vecchie signore
nel discreto parlare di foglie nel bosco.

Rachele non disse nulla:
signora  del sesto sigillo
portava  con sé le parole di Cohen:*
-“Dance  me to the end of love”-.

Uscita dal giro di un breve underground,
Marisa riordinava  le stanze e gli arredi,
lasciava  al gatto  residui di Gourmet,
e un’aria fredda  muoveva  le cime dei cipressi
che da anni non mutano tristezza.


*Leonard Cohen: poeta e cantautore canadese tra i più noti della storia della musica. La traduzione del verso è :“Conducimi fin dove finisce l’amore”.

(9)

La casa era piena di arredi
come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava  le piaghe
con l’erba mèdica e il miele d’acacia,
e ogni volta che tornava al Majestic,
gli amici del club le donavano fiori di pesco
e cioccolato allo sherry.

Angela  Adònica
è un dolce poema,
ma al n. 5 di rue de Pigalle
i bouquinistes regalano coupon
per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia
o un ostello a Smolenskoe-,
disse Karima, stanca di inutili attese
e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.
Ma era tutto un tacito andare
per vicoli e strade
senza  sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire
che ci sia stato un disastro tra noi,
se la vita è sempre stata la stessa
mentre cresceva l’erba
nel cerchio di Stonehenge.

(10) 

 A Villa Real  c’era una stanza
con self service e l’abbaino ristrutturato.

Qui medicammo le ferite,
regalammo a Consuelo
un poster di Guernica
dopo un lungo silenzio
che lasciò alla quercia
tutto il tempo per rifiorire.

Pei sedili sale Ignazio,
tutta la sua morte a spalla.
Andava in cerca dell’alba,
e l’alba non esisteva.

Oh Almedena,
mira  le foto de la fiesta!
La vita diventa racconto,
si naviga  a vista.
L’ha detto Piqueras: è tutto un naufragio,
un male di mare! E’ successo anche stamane
a Gonzales con le luci spente nel porto
e i cartelli by night.

(11)

Finita l’aspra contesa
tornammo a Thomas Kinsella
in Un altro settembre,
senza deliri e pause discrete.
il Signore, da tempo,
non  butta  più acqua nei pozzi,
lascia stare le cose così come sono.
Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,
come la preghiera di Suor Evelina
che è un mistico dire.
La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare
lasciando le ombre attaccate alle mani.
Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!
Ludmilla  porterà  di sicuro una nuova stagione.
La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.
Principessa, è tempo di fermare l’autunno,
restituire agli alberi le foglie cadute.

(12)

Una carovana di nuvole grigie
sostava  sulla certosa  ambrosiana.

Via Alpignana 16:
hotel di Madame De Sirè;
ci si arrivava in ogni ora
del giorno e della notte
dopo una corsa dietro il tranvai
senza aver letto don Lisander.

Davanti alle slot machine
c’era chi bruciava il tempo delle mele
e il ricordo di Potsdamer platz.

Mimì, millefiori,
aveva una casa in collina
con cavalli di razza e beatitudine  solare,
ma quando ascoltava Ciaikovskij
se ne stava sola rincorrendo fantasie urbane
e un amore per Pollock.

Un uomo ingabbiato amava I fiori del male.
Monet prese alloggio a Saint Remi de Press
su un mondo senza colori.
Ma era ancora terra santa, Maurice,
con il Natale di prunus alle porte
e di muschio in via Toti.

(13)

Miss. Olbruck andava al mercato
per le “offerte speciali”.

Al Jolly Club si trovava di tutto
anche una copia di Kaddish
da  leggere ai tavolini del caffè Bonnard.

Sulle favole antiche
c’era chi scriveva romanzi.

Dopo gli scarti della giornata,
Willy cercava il varco nel castello di Kafka.

Monsieur Dolmetich,
ignaro delle leggende cristiane,
portava  ricette nel Giardino d’Infanzia.

Davvero conclusivo, Madame Schobert,
il pensiero sulle sette fontane  malate,
ma  il Libellus comprato in Spagna,
riportava  cattedrali  e  il Museo del Prado,
prima di passare  check point,
leggere haiku e il libro di Klein,
cercare i giardini pensili
ora che Olivia non c’è più.

(14)
                      
Brillava una subway di luci e megastore,
con copertine da pretty woman
e il volto di un amico malato di rosòlio.
Meg stava meglio
bevendo infusi di tiglio e guaranà.
A vedere il giardino dei Frost
sembrava che il tempo si fosse fermato.
-E’ stato un anno di innesti e fioriture-
disse  il guardiano del Parco.

Il gatto Dubrosckij, fuori dalla lettiera,
seguiva le note del sestetto misto.
Erano spariti gnomi ed elfi.
Due attori di primo teatro
leggevano Il pomeriggio di un fauno.

Il sole si fece da parte.
Nancy aprì  le imposte
lasciando barrette di sogno.
Un armonium accarezzò il silenzio
di Hieronymus Bosch e di Hàndel,
di Giselle e la bella Odette,
e del cantante di colore
dopo la replica di Porgy and Bass.

Era arrivata la stagione
con  gli attrezzi da scasso e di mestiere.

(15)

Jodie vive a Norwich.
A volte ritorna con preludi d’amore
nella stanza che ha riflessi d’aurora.
Lungo le strade passano uomini e donne
con vestiti a doppio petto e chiffon.
-Garrett, ci sono notizie da Norwich?-.
Farfalle di neve si posano sui vetri.
Picasso è allo sbando
in Autoritratto con cappotto
e sfondo blu notte.
Le sorelle di Suor Angelina non dicono nulla.
La casa ha vermi e muffette.
Ora scrivo pamplet.
Ti amo Jodie come Vladimir amò Lilja Brik.
Nel vecchio palazzo vicino al Babyroom
l’infanzia non sa dove andare.
Il postino Ermete ricarica lo smartphone,
lascia  avvisi di crociera,
si tiene per sé il rasoio di Occam.

Per l’interpretazione di questo testo si precisa che Jodie simboleggia la Poesia, mentre Norwich è il luogo della sua emarginazione. Le sorelle di Suor Angelina sono la Metafisica e la Religione. I Vermi e le Muffette rappresentano il pensiero negativo. Il Postino Ermete è il poeta che indaga sulla vita. Il Ritratto con cappotto di Picasso ha un riferimento psicologico più complesso e interattivo.

(16)

La speranza  giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà Modan, papà Modan-,gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente
venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta  Godot.

(17)

Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.

Mary  nel Getsemani
cerca il pane dell'Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiuns With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.

(18)

Tardiva la tua risposta portò
il ricordo di Srebrenica e Zepa,
riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo
per aprire reperti fonici,
fare da ponte ad ogni intruso della realtà,
coordinare le latitudini dei ghiacciai,
senza bussole e fischietti di richiamo,
anche se poi di tutto si può parlare
rifacendo i passi nel deserto,
fino al silenzio di Majakovskij 
e “niente pettegolezzi”*
per un passaggio discreto a Novodevicij,
senza avvisi di uccellacci e uccellini.

* Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

(19)

Una nuvola bianca che mai s’era vista
più  bianca di un bianco di neve in inverno,
poca acqua dentro, poca,
sostava  su un vecchio faubourg
di tùmuli e croci,
sostava  più a lungo delle nuvole grigie,
sicura di celare l’azzurro,
velo bianco,
più bianco del viso di chi trascolora,
sostava, oscurando l’occhio del cielo,
più cieco dell’occhio di Dio,
come un bianco lenzuolo
copriva Marina tra le rughe del fiume,
sostava celando l’azzurro,
le tombe e le croci di un vecchio faubourg.

(20)

Questa strada di industrie in disuso
non ha più profumi di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo,un angelo azzurro
prese alloggio nella casa di Piera.
Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:
carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.
Biorin , uscito da un triste calvario,
si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte  ci fece uguali.
Tornò  Gardel  con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.
-E’ una cosa molto rara,- disse il concertista in prima fila.
-ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,
tornarono di nuovo le violette di marzo.

(21)

Sei andata oltre il giro dei pianeti
a cercare  cherubini, il giardino dell’Eden,
fuori dai sogni smarriti per il mondo
come il tuo Dio, emigrante altrove;
il gesto di Florian davanti alle ceneri dei morti:
un inutile divagare fino alle rive del Po
in questo Maggio da unde malum
come se fossimo rimasti soli
in mezzo ai clivi erbosi di lupi ed orsi neri:
è dunque questa la nostra storia:
un verderame nelle vene
dove ristagnano le memorie
come  crisalidi del passato,
oh Helda!

(22)

Dimmi Gaudiè
a quale altezza si perde il tuo occhio
e quanta solitudine dovrà ancora rimanere
in questo transito breve?
Mamma  Rose ama i poeti
negli happening di agosto.
Prossimo all’embarquement,
Mister K, ha reciso i fiori
per non vederli soffrire
inebriandosi di reviews,
ma sempre fiato di Whitman sono,
sempre voci di Beckett e di Eliot
di Lee Masters, e Waldo Frank,
e di tutti i poeti passati
senza luce nel fondo,
come nella casa di Lory
quando chiama a raccolta
le ginestre nel mondo
per dire cosa Gaudiè? Cosa?