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martedì 15 giugno 2010

Box inediti

1


Sei andata oltre il giro dei pianeti
a cercare  cherubini, il giardino dell’Eden,
fuori dai sogni smarriti per il mondo
come il tuo Dio, emigrante altrove;
il gesto di Florian davanti alle ceneri dei morti:
 un inutile divagare fino alle rive del Po
in questo Maggio da unde malum
come se fossimo rimasti soli
 in mezzo ai clivi erbosi di lupi ed orsi neri:
è dunque questa la nostra storia:
un verderame nelle vene
dove ristagnano le memorie
come  crisalidi del passato,
oh Helda!

2

Una parte del tetto è crollata,
non c’è bisogno, Morel,
di rifare le pareti dell’anima
sulla collina di Spoon River.

Legno stagionato ha portato Blondel.

Sarà perché non si andava più avanti
e quel poco che c’era da fare
era attendere un giorno fedele alla vita,
tanto difficile è spalmare di miele
le stanze della casa,
anche se il tetto è crollato
e tutto dovrà essere rifatto daccapo
quando verrà da Stafford
la Signorina “occhi perduti”
a sfogliarci le mani come rametti di ruscus.

3

Cara Juliet,

qui dove l’inverno dura più della barba di Santa Claus,
ci siamo arresi al freddo di febbraio,
come quei piccoli uomini ai bordi delle piscine,
senza bandiere e né futuro,
mi viene da pensare alle notti di Stoccolma,
alle renne venute a cercare gli avanzi di Natale:
tutti abbiamo festeggiato l’anno che passava;
il tempo come uno sparviero sui pinnacoli dei grattacieli
di un’America battuta; l’Urlo di Munch
era un passepartout per un inferno alle porte,
sette pennelli, sette, non sono bastati
a dare luce alla tua tela,
le lunghe ore a parlare del punto morto del mondo,
l’anello che non tiene, sempre in fede obliqua,
mi venne uno strano freddo allora,
come una ipotermia da clochard
sotto la cupola degli Inquietanti avvolta dalla neve,
la Ville Lumiere, un’isola per noi,
spesso i ciechi che girovagavano per i paesi,
si radunavano a casa nostra,
cantavano canti spirituali;
per sbocciare come gelsomini,
rinascere nelle piazze d’Europa o sotto il ponte di Mirabeau
perché i più bei fiori del mondo sono i non-ti-scordar-di-me.

4

Mi sei sfiorito tra le mani come l’ala di una farfalla:
aligero amore, mendicante agli angoli delle strade
quando l’autunno non ha più colori
e il melograno avvizzisce al freddo che sopravviene.

Qui non ci è dato di vedere altri orizzonti.
Deserta è la mulattiera
come la storia che ci umilia ad ogni ora.

Fantasmi passano sotto i ponti.
Sostano nella casa dove tu appresti la loro cena
la notte di novembre e di Natale.

5

Siamo venuti in questa casa
a leggere il Deuteronomio,
tra cielo e terra
arcobaleni,
frutti di cactus e melograni;
tutto quello che è marcito
é rimasto nella casa.

Betty ama i fiori,
cura i quadri di Van Dyck,
guarda l’orizzonte
se mai verrà acqua dalle nuvole sul monte.
se ne sta sola, senza tarocchi e santi
col suo piccolo paniere di sogni e di virtù.

Qualcuno dovrà pure dirle
che è cambiata la stagione,
che è l’ora della vendemmia
nel giardino vicino casa;
come tulipani nel tempo ci pieghiamo
a raccogliere i grappoli dai cespi,
svuotare gli armadi di palissandro,
togliere dal soppalco il mantello di Dio
quando suona il grande Benny
nel colmo della notte,
nel colmo, Betty!

6

Abbiamo sopportato l’infido inverno,
pregato Charlie di non fare brochure
per il club privé,
inutile insistere col new dada;
sono cambiati i colori del mondo,
farfalle e rondoni non hanno più patria,
Raus, svegliati da questo sonno di morte,
il signor Park ha danneggiato le aiuole,
ha messo controvento le tende sui balconi,
rivoltato la terra nei vasi;
non crescono più le foglie di arnica.

Mon coeur, non c’è compleanno
che non mortifichi il passato,
il canto di Marinella dura ancora
nelle canzoni di maggio
e Natalie ha voluto casa e figli,
l’album di nozze a colori,
siamo diventati vecchi, Raus
se anche la mente dimentica
la danza delle piogge
quando l’estate fa di questa città
una terra di spenti candelabri
e di gocce di cera essiccate.

Tu non lo sai, ma sotto il ponte di Stone Bridge
passano i morti come fossero skippers.

7

Bloody Monckey aveva già fatto 10 yards
quando tornò indietro attraversando ponti,
e green country, un’isola deserta
come potrebbe dirsi una città vuota
di chicanos e baiadere,
buttarsi nelle braccia
di un novembre piovoso,
dopo aver dipinto un cielo blu all’orizzonte,
fuori da nuvole e tornadi,
sorridendo ancora un poco
delle mani- di Josephine.

Zygel ha scritto che lascerà la campagna,
aspettando agosto e poi ottobre e dicembre
se ritorna la passione e s’apre a coda di rondine
un sogno di ragazzo ritmando Drum Boogie.

lo dice anche il vecchio venuto da Bisanzio
che a dispetto dei roditori
è un vero cercatore di quadrifogli
e di zenzero per la notte.

Il fatto è che non ci si può più fidare neppure dei ritorni,
dolce Deborah, troppo brutte sono le ombre o corvette
come le chiamano
chi si sveglia all’alba e diventa per un giorno
l’enigma di un canto inutile!

Io sto bene con Charlotte,
mi rende la vita come una cascata di fiori
nelle acque del venerdì santo
dove non sostano i vampiri;
allora sì che cominciamo davvero a divertirci,
affrontando l’azzurro.

Non a caso le famiglie Zigfrid e Larsey
ci hanno invitato alla festa del sole
domani, a Freiburg.

8

Sono riapparsi i convolvoli
nel giardino della signorina Gachet.

La novità è che non si vedono più
i filamenti di polvere
sulle LXVII poesie di Postkarten,
né le grigie opaline
sul tuo bonheur du jour.

Sono riapparsi i convolvoli, è vero
ma per coprire le crepe sui muri
della casa di Frantisek Olaf.

A tua immagine somigliamo
orchidea selvaggia,
e tutto il giallo, più giallo del mais,
e il chrysanthellum e il cardo mariano,

la luce del giorno e il buio della notte,
la città di cipressi e olmi,

le rose di Duisburg e la dolce dimora,
il salice bianco e il vischio a Natale:

tutto quello che amammo e perdemmo
con le lacere insonnie e le ariette oubliées
sono segnalibri del tempo
nel dominio di furti e di fiori,
come un respiro a metà, un nocciolo duro
tra gola e laringe!

9

Con garbo e tardiva promessa
ti libero dalla mente i pensieri allo sbando,
la fine di un inganno.

Oggi ti ha riportata a me
un gioco di salvezza che più non m’appartiene
per questa fede che mi lega
ad un’onda di cormorani abbandonati.

Alle sere che sopraggiungono
ti affido il Libro dei Proverbi.

Vivere stanca come i respiri
mai portati a fondo;
i piccioni fuori rotta,
nessun necrologio sul Berliner Zeitung,
un Bounthy la vita alla deriva:
solo un’ipoteca per domani,
qualche metafora nei versi,
se mai la leggeranno
il signor Seurel e Edgar da Melrose.

10

Il viaggio é low cost,
con bassa cabina e senza moli
in un giorno di sopportabile follia,
verso un altro cielo, un’altra terra,
come dice padre Mills
nella sua chiesetta di campagna,
affollata la domenica,
per il battesimo dell’acqua
e il kirye eleison dei morti a Jabalia
finché durerà la terra, seme e messe,
e giorno e notte non cesseranno;
i lieviti dell’anima mai maturati a pane,
poco chiari la via e l’indirizzo,
(immensamente vaghi),
forse occorreva una schiera di trapassati
a diradare la nebbia dei nostri porti,
oh mes amis che origliate
il fruscio delle comete,
dite ai vivi che restano in città
di pensare un poco a Carol e Jodie
e a Miss Ingrid di Dusseldorf
che non hanno mai amato il buio della notte
né la polvere dei millenni!
Il viaggio è low cost
con bassa cabina e senza moli.
Prima o poi sapranno
cos’è l’incantevole leggerezza della vita,
al largo dei carriaggi e di qualche piccola lumiére.

11

E’tardi, Daisy, quasi mezzanotte!
Non c’è più tempo per il breakfast,
cercare l’elisir di lunga vita,
uno stradivario per la fine
nella scorribanda d’aprile.

Ci minacciano le centurie, i codici del Louvre,
il tight nell’armadio stile liberty,
mentre esondano i fiumi sui morti già spogli.

L'anno scorso, a Portsmouth, Miss Winter
cercava, tra ruderi e radici,
come nella piana di Giza,
le nostre assenze già scritte.

Oh Moses, chi colse l’erba nei giardini d’Engaddì
non nutriva sospetti: aveva mani e cuore da hidalgo
come le figlie di Jerusalem!

A sentire Kaminskj parlare di tavole scisse,
é non vedere la primavera
tra rappresaglie di vento e di gelo.

E sono queste le sere che ci danno più pena,
oh Daisy dai colori dell’alba svaniti,
tu, eclissi di luna: mio sepolcro di neve!

12

E ora che dalle terre di pianura ai boschi autunnali
nessuno più si aspetta miracoli dall’aloe,
che sarà del fumo delle carbonaie
nei giorni che s’intrecciano
come gambi di bouquet?

Doveva essere una sera di repertori
più che di totale cecità.

Tosh tirò dritto per la sua strada
dimenticando il passato,
profumo di talco e d’elicriso,
prima di riordinare sangue e ossa,
fiumi d’anni e d’erbaspada,
tenere a bada il flusso dell’anima
risalito in un bookshop di periferia,
mentre cercavamo
Le passage de commerce Saint Andre di Balthus
e la neve cancellava la città e il suo limite,
i morti per acqua e solitudine.

Fu allora che ci avviammo fuori pista,
dopo il disegno dello sciamano,
antico, quanto il mondo,
dove il silenzio è ouverture sui marmi
quando tornano i passeggeri di novembre
a ravvivare mammole, sorrisi sbiaditi:
il double face della vita,
rassegnata a se stessa.

13

Coprilo di terra il passo mai fatto. Sognalo,
di rimpianto in rimpianto, il lampo che non verrà.

Un freddo balcanico si è fermato
alle porte di Minsk, così che l’inverno
è stato davvero amico delle foglie.

A sentire Wilson non c’è alba
che sia più oscura della sera,
né attimo che duri più di un ricordo.

Cadono a pioggia i giorni del Capricorno.
Si nutrono di terra gli umidi inganni.
Ma ti pare, Wilson, che tutto questo
sia soave tempesta?

Dura l’ombra delle querce
sui nudi rami di gennaio
e sull’epigrafe – di Isabel e di Oliveira:
Que Seya Eterno! Meu Amor!-

Così si ricordano i morti,
il mistero della separazione,
l’infanzia e l’esilio spirituale.

A volte rinascono nell’ampolla dei nostri sogni.
Oltrepassano guadi e canyions.
Se ne stanno muti come Cecil
e i pallidi ghosts nell’oscurità dell’assenza,
dove fanno lumicino Fanny e Annabel,
e la Granduchessa di Swedenborg.

Ed è grazia sottile rivedere le erbe d’aprile
cingere il fiume salato dei vivi,
fino alla bottega di Wanderbitt e di Edwards,
ultimi writers e poeti,
troppo vecchi per parlare di Dio.

La Poesia nel Sud

La poesia nel Sud tra dimenticanze e annessioni


Non dubitiamo che l’opera letteraria, e più in specifico quella in versi, sia un mondo simbolico rivolto al gruppo sociale, secondo la definizione di Matthias Wlatz. Il fatto è che oggi la poesia non è più collettiva. Molti laboratori di scrittura non fanno più ricerca, né si propongono, come forza alternativa, alla dilagante koinè che racchiude un po’ tutte le correnti letterarie del Novecento. Il risultato è un avvilente vuoto operativo, dopo l’abbandono di linguaggi progettualmente utili per la nascita di un nuovo modello poetico, osteggiato dalle case editrici, le cui scelte si riflettono, negativamente, sulla poesia del Sud, per le omissioni e le dimenticanze, che hanno emarginato poeti d’indubbia rilevanza, lasciando aperte tutte le ipotesi di colpevolezza.
“Chi scrive poesie”, ha rilevato Adam Zagajewski, “si ritrova talvolta impegnato, in una difesa delle medesime”, a causa di continue delegittimazioni nel Novecento “che è stato il secolo ammalato di amnesie,” secondo un giudizio di Claudio Magris (in occasione della pubblicazione del volume di Barbara Spinelli — L’Europa dei totalitarismi, - Mondadori-), quando rileva che “la memoria è soprattutto giustizia resa alle vittime di violenza che la falsificazione ideologica cancella dalla coscienza o di cui deforma la verità”. In questo sistema di dimenticanze rientra anche la poesia del Sud, sulla quale pendono diversi capi d’accusa. Con molta probabilità, la nostra emarginazione nasce con il monopolio dei temi intorno alla civiltà contadina e all’immobilismo di un popolo vittima di clan e di malavitosi, nel momento in cui il Nord trovava la strada verso i poli industriali, e nella poesia le ragioni di una progettualità rimodellata sul finire degli anni Sessanta, dai poeti dell’area napoletana e campana, in particolare, da Giuseppe Bilotta, Salvatore Di Natale e Raffaele Perrotta, impegnati in un freework di mutazione verbale di ideologia scissionista, portata avanti anche dal gruppo redazionale della rivista Risvolti con Giorgio Moio, Carlo Bugli e Pasquale della Ragione, col loro linguaggio geometrico o del rischio -tra forme allitterative, visive e citazioniste-: una letteratura, in massima parte, correlata ai materiali verboiconici, arditamente traslativi e disgiuntivi, funzionali ad un extralinguismo intermaterico nella più ampia libertà postmodernista, la stessa di cui si avvale la ludopoesia di Mariano Baino, contagiata da una ipercreatività giocosa; non a caso il burattino di Collodi,- Pinocchio — che dà il titolo a un volume del 2000, si presta a una teatralizzazione della favola, regalando “a profusione: personaggi, situazioni, nuclei, suggestioni, ma tutto liberamente reinterpretato e rimontato in uno scenario poetico mobile e personalissimo, per poi liberarsi dell’incanto del gioco, e interagire con la realtà, immettendo figure retoriche, come l’ironia e la citazione nell’assemblaggio di forme tensive, determinate dal flusso polisemantico della scrittura e dei suoi allegati parodistici; o alla designificazione e all’agrammatismo di Tommaso Ottonieri, il più accanito sperimentatore della cellula linguistica in — Atropina remix — e in quel caleidoscopio letterario di diafore nel volume Dalle memorie di un piccolo ipertrofico e in — Coro da l’acqua per voce sola — , per cui si può senz’altro affermare che“tra le molte polarità di questo realismo informale sta dunque sospesa, in costante squilibrio, la scrittura di Ottonieri”(Massimiliano Manganelli): o alle proposte interlinguistiche di Carmine Lubrano, che mettono in crisi l’ordine naturale della parola, per fare della lingua un locus di aggregazione sulfurea e surreale, attraverso testi nei quali si accomunano tutti gli strumenti operativi, per una ipotesi di scrittura erratica, spostata in un’atmosfera linguistica, atomizzata dalle componenti poetiche e dai contrasti sintattici; o alle condensazioni ironico-metaforiche di Costanzo Ioni, assimilate da un proficuo tirocinio praticato con il Gruppo 93, per averne condiviso sia i presupposti teorici che la pratica letteraria; o ancora, all’impegno decostruttivo di Lello Voce, il quale viaggia su binari di mutevole percorrenza stilistica nella dismisura delle disuguaglianze sintattiche e delle paronimie in “uno strano mix di arcaico, e ultratecnologico, di sciamanico e insieme cibernetico, di pre-orale e post-linguistico”, (Massimiliano Manganelli), che danno anche a Biagio Cepollaro l’accesso a un significante, collocato tra il postmoderno e le vie traverse della letteratura“laudata”:un’operazione di ritraduzione e innovazione della parola che permette una lettura generalmente asimmetrica dei testi. Altri metodi meno utopici, ma più significativi, collocati tra il rinnovamento e la trasgressione, li troviamo negli anni Settanta-Novanta, in Franco Cavallo, con le sue frammentazioni, tra surrealismo e aggancio alle avanguardie storiche, teorizzate su Altri Termini e, ricondotte sul filo di una rappresentazione fonometricofigurativa che trova in Fètiche il senso di un’operazione liberatoria contro gli istituti-tabù della civiltà (Giuseppe Zagarrio); o in Ciro Vitiello, il quale non si estranea da formule verbali di protocollo avanguardista e di miscidanza novecentesca, per disperdersi nella mortificazione della realtà e del suo nihil, in una poesia che convoca una moltitudine di ricognizioni allucinanti, allegoricamente trasposte e correlate con il poeta stesso, tanto che corpo e anima si integrano e si perdono in un mondo larvale di una vita non vita, tra la dissezione del reale e la metafora del vuoto; o ancora, nelle composizioni verbo-visive e negli esicasmi di Stelio Maria Martini, cui vanno ricondotti gli esiti sperimentali di Schemi, con i suoi soggetti complementari e primari, interagenti in tante forme e tecniche compositive; oppure nel discorso ironico-satirico-drammaturgico di Alberto Mario Moriconi, che si distingue per il “plurilinguismo spregiudicato, quella particolare architettura di registri diversi (narrativo, drammatico, allegorico, parodico), che fanno dell’autore un singolare sperimentatore” (Giorgio Patrizi), o nelle anamnesi temporali, per indagare sugli aspetti della vita, sfocianti in un generale senso negativo dell’esistenza, in Carlo Felice Colucci, che metaforizza la morte in efficacissime rappresentazioni allegoriche, in “un pessimismo che appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann che identificò l’universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”, (Giancarlo Rugarli); o ancora nel linguaggio perlustrativo e psicoattivo intorno all’inferno quotidiano in Franco Capasso: un poeta-maudit, che meglio interpreta l’exilium e il senso dello smarrimento — qui e ora — , con percorsi mentali confluenti in un opus metricum fatto di iterazioni ossessive e di disperazione esistenziale, di fronte al tema del fuoco, simbolo psicanalitico e regressivo della memoria ferita dalla realtà; o nelle composizioni ipertematiche e di collage linguistico, tra mito e slogans pubblicitari in Ugo Piscopo, rilevabili soprattutto in Jetteratura: un vero e proprio condensato di genetica letteraria, riportato in superficie attraverso un discorso che rivisita luoghi e culture diverse messi sotto esame e criticamente relazionati, deviando il discorso con Haiku del loglio, in un universo poetico di delicata venatura vegetale, nella piena libertà delle forme comparative e dei registri dell’impressione; o ancora, nei doppi codici strutturali, tra sperimentalismo e forme novecentesche nell’illusione dell’Eros, come sopravvivenza al vivere quotidiano in Antonio Spagnuolo; o nei sussulti poetici di tramatura flegrea, con il recupero di personaggi mitici in G.B. Nazzaro: un poeta che traccia una scrittura poematica nel carteggio di episodi fantastici, proposti in Melusina, con la germinazione di figure riportate “in superficie da una parola convocata nell’attrito dei lessemi attigui fino a produrre un senso luministico e etico”(Ciro Vitiello), e a determinare nella sezione Mitologie, interna a Melusina, un rapporto plurale con gli altri, che in Roditore e cancro si fa isolato e conflittuale, di fronte alla necessità del dire, e al drammatico angosciante senso della morte della parola, oltre la quale non è più possibile fare poesia, o reinterpretare la vita “E in questo universo di codici infranti, il poeta pur cosciente della tragedia che lo sovrasta continua a rappresentare la sua — finzione — attraverso le immagini, ricorrenti del mito”. (Franco Cavallo), o ancora, nel surrealismo metaforico di Alessandro Carandente, integrato in un sistema di correlazioni verbali e di cadenze poliritmiche, e paronomasie, nell’impatto dei sensi e della memoria di cui Corpo in vista ne rappresenta il culmine biopsichico ed estetico, ma anche il viaggio umorale e umano nei dintorni del quotidiano e del passato, riportati in un review poetico, che — vezzeggia il protoritmo — per inseguire le richieste di una forma che non arriva, e che, tuttavia, tende a esprimersi nella serietà degli eventi, mai mimetici o debordanti dalla realtà, con pause giocose e allitterative, brulicanti di extravaganze, ecrivoci e screzi d’alfabeto in Bon Ton Bonsai Bonbon: un singolare regesto di procedimenti verbali, combinatori ed omofonici, che si susseguono nel vortice del suono e delle rime, per riposizionare, subito dopo, il pensiero, in altrettanti nuclei linguistici plurisensoriali, nella ritraduzione della parola e dei segni del mondo: ed è proprio qui che si agglutinano gli elementi più autonomi e personali di questo autore la cui poesia non può prescindere dalla negazione che si estrinseca nell’ironia (G.B.Nazzaro); o nei molteplici esiti operativi di Gerardo Pedicini, con i suoi libri-d’arte e libri-oggetto, impreziositi da calcografie, disegni, e incisioni varie, oggi introvabili. Ci troviamo di fronte a un altro caso d’nvisibilità, ma di certezza della poesia, quest’ultima calendarizzata in volumi e tempi diversi, in Dodici sonetti ancipiti per dodici capricci incisi, pubblicati nel 1986, in Canto e Controcanto del 1991, in Buthos del 1992, e in alcuni testi di datazione più recente, che fissano nel ricordo della guerra, momenti di forte tensione emotiva, rilevabili in Lilacs, A’rebours, Quattro tempi e Sipari, attraverso il recupero di figure familiari ricomposte da un linguaggio dai toni bassi, ma altamente melodiosi, modulati dagli scatti psicoemozionali provenienti da un repertorio letterario d’area neorealista; o ancora, nell’approdo ai porti sepolti della memoria in Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli, che istituiscono, entrambe, la religione del tempo e degli affetti dilacerati, nello sfondo di una natura ancora non violata dai danni della civiltà; oppure, nel puntismo cromatico e figurativo di Franco Riccio, con le sue rivisitazioni esistenziali e di recupero del rapporto umano, confluenti in un dire poetico, autenticamente novecentesco, che getta una luce d’incontaminato amore e di nostalgia sulla città: o nel teatro di poesia, esposto con abile giuntura degli endecasillabi, che costituiscono la chiave di lettura dei Frammenti di Aristide La Rocca, legati alle figure di Teodora e di Zenobia e agli splendidi testi presenti ne I soli, “che rappresentano un giudizio severo sopra le istituzioni e i fenomeni del mondo in cui viviamo” (Giorgio Bàrberi Squarotti); o nella captazione di lessici pluriespressivi di Alfonso Malinconico, il quale mette in circolo nuovi codici aggregati a una vigile narrazione dei dati storici e contemporanei, contribuendo non poco ad ampliare il campo dei generi letterari in un metricismo geometrico e visivo, riportato in Sul rame dei sogni: un volume che si dispiega nella moltiplicazione di “pulsioni personali, intellettuali, emotive, ideologiche” (Giorgio Patrizi); o ancora, nelle sequenze negative del vivere quotidiano in Giovanni Ruggiero, sempre più infiltrato nell’effimero delle cose e delle annotazioni della memoria, che costituiscono un album della propria condizione esistenziale; citando, necessariamente, le voci che hanno ereditato una continuità estetica riproposta, senza eccessivi sbilanciamenti da Raffaele Piazza con i suoi testi en plair air, ricondotti al binomio —natura-amore, come un unico universo interattivo, produttore di flussi emozionali, regolati da un epidermico lirismo intertestuale; o da Eugenio Lucrezi, con un proprio codice strutturale e psicolinguistico, che chiameremo on the road, per quel particolare vagabondaggio del cuore e della mente; o da Domenico Cipriano, che con Free Jazz,- una sezione del volume Il continente perso-, riesce ad armonizzare sound e parola poetica; o ancora da Giuseppe Vetromile, introverso e conflittuale nel suo rapporto con l’effimero e l’assoluto all’interno di una poesia riflessiva e anacoretica, vivificata dagli impulsi della coscienza e da una linea sinceramente fideistica, particolarmente significativa in Cantico del possibile approdo; o da Enrico Fagnano, che non elude l’ironia e la casualità delle occasioni poetiche, nelle quali si vengono a inserire elementi multipli e comparativi, correlati a imprevedibili scatti impressionistici, sarcastici e dissacranti; o da Vittorio De Asmundis, riconoscibile per le sue tematiche social-esistenziali, che sono gli unici format di una poesia, che si misura con gli ingranaggi della fabbrica e dell’alienazione quotidiana; o ancora, da Raffaele Urraro, fedele a un discorso poetico, chiaro ed estetizzante, non immune da intrusioni grafico-sperimentali; o da Pasquale Martiniello, il quale si aggancia a pluritematiche storico-contemporanee, dove non manca l’inserimento ideologico, nella piena concretezza dell’obiezione e dello spunto polemico e ironico rilevabili nel volume I ragni, proseguendo con Giovanni Ariola, il quale percorre varie esperienze letterarie, non esclusa quella sperimentale di Discronie, per riagganciarsi con Sinoli ad una poesia che nasce per sillabe, per parole, per musica, da cui partono e si definiscono le fusioni psicosoggettive come —controdiscorso- al fluire caotico e ininterrotto del tempo e degli eventi, per finire con Michelangelo Salerno: un poeta appartato, che vive la sua solitudine urbana, tra memoria e delusione del presente, cercando approdi salvifici nella ricerca etico-morale. Svincolato da un certo grado di fragilità sentimentale sembra essere il discorso di Maria Papa Ruggiero e di Carmina Esposito, nomi che prendiamo a riferimento e che meglio esprimono i tracciati psicologici della poesia al femminile, collocata in un habitat linguistico fatto di proiezioni psicofigurative ed esistenziali. Apparentemente ricostruttiva sembra essere la proposta di Felice Piemontese, come formulazione di una nuova ipotesi di poetica dopo la fine della Neoavanguardia, senza particolari rovesciamenti linguistici, se non nei termini di una creatività riflettente il datum verbale retroattivo, nella coesistenza di pluriaccorgimenti semantici e di calcolo estetico. Altro, invece, è il rischio a cui si espone, con grande disinvoltura, Gabriele Frasca con le sue terzine e quinari, che costituiscono l’oggettistica letteraria, secondo le ragioni di una poesia che si dilata oltre i normali campi di applicazione. E’ come se il poeta lavorasse per tempi epocali e registri diversi. Il tecnicismo non annulla la cantilena autobiografica e psicologica. Questo modo di procedere toglie ogni possibilità alla lingua di giungere verso approdi emotivi, non che questi debbano essere indispensabili, ma, qualche volta, sono necessari del concetto stesso di poesia.
Un poeta che sembra orientarsi verso aree semantiche miste, senza proporre importanti innovazioni, tali da modificare il significante nella sua struttura generale, è Michele Sovente che in Carbones inserisce un linguaggio triadico, con la commistione del latino, del dialetto e dell’italiano, legando le occasioni poetiche ad un humus flegreo, che in vario modo asseconda i giri dell’anima, tra frustrazione dell’urbanesimo e carbonizzazione del tempo.
Per Wanda Marasco i gironi della vita sono esposti con un linguaggio rivolto ai fatti accaduti, in cui il senso del tempo non si separa dalla storia, semmai lo brutalizza in un confronto con un indivisibile -tu- protetto da una parola fasciata di ricordi e adeguata alle circostanze del reale, con scambi di notizie, paure insostenibili, portate in superficie dalle crepe della mente e del subconscio, come in Metacarne, che si collega a tante microstorie tra prosa e poesia, portate avanti da una coscienza frustrata e infelice.
Non c’è dubbio che proprio da Napoli sia nata la — resistenza — alla koinè poetica, con nomi accolti nell’Almanacco dello Specchio, in varie Storie della Letteratura Italiana, e su Altri Termini, mentre le altre regioni del Sud si attestavano su posizioni letterarie neonaturalistiche, con rarissimi episodi di proposte alternative, come engagement alle forme avanzate del metalinguaggio e della poesia tecnologica e postlineare, presenti in alcuni centri urbani, come fenomeno teorico-formale, sbilanciato nella trasgressione e nella tentazione riformatrice del significante.
L’innovazione non fa parte, se non in pochi casi, del metabolismo linguistico di molti poeti dell’Abruzzo e del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Sicilia e della Sardegna, rispetto alla Campania, che ha fornito più delle altre regioni, le coordinate di una poesia in progress.
In questa direzione cercheremo di formulare una campionatura che ha solo valore informativo, provando a indicare un’anagrafe di nomi, senza formare una gerarchia di raggruppamenti e di valori, fornendo un elenco provvisorio e marginale, che non include i poeti emergenti, anche se qui interessano, più di ogni altra cosa, le risposte socioculturali e linguistiche date da ciascun poeta per svincolarsi da una letteratura logora e abusata, segnalando per l’Abruzzo i nomi di Antonio Allegrini, Daniele Cavicchia, Rita Ciprelli, Igino Creati, Rolando D’Alonzo, Ubaldo Giacomucci, Dante Marianacci, Francesco Paolo Memmo, Renato Minore, Massimo Pamio, Giuseppe Rosato, Benito Sablone; per il Molise: Gennaro Morra, Giose Rimanelli, Angelo Ferrante, Mario M. Gabriele, Filippo Poleggi, Giuseppe Pittà, Giocondo Colangelo, Pier Paolo Giannubilo; per la Puglia: Lino Angiuli, Raffaele Antini, Carlo Alberto Augeri, Raffaele Nigro, Paolo Polvani, Michele Rotunno, Daniele Giancane e Matteo Bonsante; per la Calabria: Giusi Verbaro Cipollina, Isabella Scalfaro, Domenico Cara (da anni trapiantato a Milano) e V.S. Gaudio; per la Basilicata: Raffaella Spera, Rosa Maria Fusco, Antonio Lotierzo; per la Sicilia: Alfio Fiorentino, Emilio Isgrò, Lucio Zinna, Ignazio Apollonio, Helle Busacca, Andrea Genovese, Stefano Lanuzza, Govanni Occhipinti, Giovanni Giuga, Emanuele Schembari, Sebastiano Saglimbeni. Quanto alla Sardegna, essa non offre elementi innovativi, per la resistenza di una linea poetico-conservatrice, che si riflette nelle opere degli scrittori attraverso il legame biopsicologico con la propria terra, anche se non mancano intelligenze sacrificate alla emarginazione. Utili, ci sembrano anche le campionature di alcuni poeti transatlantici, quelli che pur essendo meridionali non si sono distaccati dal paese d’origine, vivendo all’estero, spesso presenti in Italia, con opere in linea con le tendenze attuali sempre più variegate e plurietniche. E’ il caso di Luigi Fontanella e di Giose Rimanelli; un poeta, quest’ultimo, con una vasta produzione di romanzi, racconti, saggistica, critica e volumi in dialetto e in lingua, già noto negli anni 50 per il romanzo Tiro al piccione. Di Rimanelli, segnaliamo Sonetti per Joseph, un volume edito da Caramanica nel 1998, nel quale il dissidio e la nostalgia di due anime: quella molisana e quella metropolitana, si fondono sinergicamente, producendo effetti di risonanza interiore e di malinconica trasfigurazione del passato. Ma più in specifico, va segnalato il volume dal titolo Alien Cantica dove Anthony Burgess rileva la presenza di materiali “esilici” che costituiscono l’autentica meridionalità di questo scrittore. La poesia italiana agli inizi del Terzo Millennio ha davanti a sé l’affascinante compito di voltare pagina a tutti gli ismi del Novecento, ma anche di fondare una letteratura rivolta verso il futuro, in contrapposizione con lo strapotere del mercato letterario, che non può dichiarare guerra ad ogni ricerca poetica legata alle esigenze psicoculturali della società.
Gli ultimi trent’anni del secolo scorso, si sono caratterizzati da fusioni verbali, fuori da ogni centralità poetica, anche se non sono mancati tentativi di riprogettazione della parola da parte del Gruppo 93 e dei poeti della Terza ondata, o da sigle linguistiche costituite, più o meno, dai nipotini dell’ -immaginazione,- che in vario modo, hanno tentato di occupare gli spazi lasciati dalla postavanguardia, col risultato che ancora oggi si torna a parlare di crisi della poesia e della sua impossibile riscrittura, davanti alla “fine dei modelli”.
Si tratta, per il momento, di una situazione da stand-by, in quanto non si vedono né al Nord, né al Sud, intelligenze critiche e poetiche capaci di entrare in una nuova civiltà delle lettere, quanto basta per estinguere posizioni di comodo e di privilegio, e instaurare così nuovi modelli di estetica strutturale, attraverso il riscatto formale del significante e del significato, come unico discorso, secondo la tesi espressa da Ch. S. Peirce.

(Pubblicato sulla Rivista "Secondo Tempo", Libro ventiseiesimo - 2006)

La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea

Terza parte


I LUOGHI DELLA MEMORIA

La questione dell’assenza rimane il tema di fondo di molti documenti poetici tra l’elegiaco e il poemetto colloquiale sulla spinta di un umanesimo esistenzialistico e di un imperante illuminismo.
La testimonianza della vita passata è, se non l’unico, certamente il più importante tra i messaggi privati come dimensione del qui e ora , del dopo e oltre.
L’accesso a un mondo imperscrutabile è soltanto ipotetico, a volte di tipo messianico o medianico e le risposte non sempre riescono a dare significative aperture al quesito esistenziale, tanto è vero che le dichiarazioni del vissuto e il senso dello smarrimento convergono nell’unica direzione possibile : quella della “religiosità” della morte vista come evento eccezionale che viene a rimettere tutto in gioco e ad affermare il suo dominio sul mondo.
L’universo metalinguistico, psichico, teistico, filosofico e quant’altro esistente e circoscrivibile nella sfera dell’illuminismo contemporaneo si confrontano opponendosi l’uno all’altro dando alla fine alcune indicazioni che suggeriscono verità riconducibili a scienza e fede.
La consapevolezza del limite temporale di questa vita richiama tutta una vasta letteratura intorno al tema della morte dove la pietas assume un ruolo egemone e unifica dolore e sentimento, filtrando dal passato eventi e storie che restano alla fine gli unici aspetti peculiari di un momento inevitabile ed eccezional,e che richiama attorno a sé fatti e situazioni di calda commozione attraverso un parlare sommesso, trepido, fortemente emozionale.
In quest’ambito rientrano gli esiti poetici di Francesco De Palma che dà l’esatta misura di una dimensione temporale della vita dove la ferita del dolore si apre a squarci di calda rivisitazione e commento del passato come nei testi “19 Aprile 1972” e” Croce di Campagna”:


19 Aprile 1972

“Sono stanco “ dicevi. Una stanchezza
infinita, segnata dentro l’orbite
degli occhi, ancora vivi nel tuo volto
già distrutto dal male. “Sono stanco”.
“Sai, certe volte, alla finestra….” Al mio
trasalimento soggiungesti in fretta:
“Non tenere, resisto”. La tua mano
ormai tutt’ossa stringeva la mano
che cercava d’infondere al tuo sangue
di fratello minore condannato
il mio vigore anziano ancora valido.
Ma riuscivo soltanto ad intonare
al tuo strazio di carne questo strazio
d’anima torta fino alle radici.
Ora nel volto immobile — retratte
le labbra sopra i denti, il mento aguzzo —

la stanchezza infinita si fa pace.
Dinanzi a te scontate, ormai, pagate
fino all’ultimo spicciolo le vuote
speranze della terra e questa assurda
legge di vita che condanna al mondo
comprendo finalmente, dal profondo
dell’esistenza, il senso della morte.

Della tua morte. Tu, lontano ormai,
libero, e santo di dolore, provi
di me, rimasto indietro in quest’inferno,
pietà gentile, tenera.
E questa terra è ancora il mio calvario.


CROCE DI CAMPAGNA

Ecco, la croce è questa.
Piantata or è molti anni sul tratturo deserto
apre le braccia che l’inverno scrosta.
Quante nevi corrosero la pietra che la regge,
quanti uccelli beccarono al suo piede.

Tu, croce derelitta,
m’insegnasti una legge
che non muta, una fede
che non muore, confitta
nel vivo strazio del mio cuore

Passano i tempi e le bufere,
passò colui che ti piantò: fra breve
(quando non so: che importa?)
anche il mio cuore.

Il gelo di questa sera scrolla i rami scheletriti,
l’erba è fradicia di pioggia sulle fosse,
lontano dalle memorie, lontano dai vivi
i morti si disfano sotto le foglie rosse.

Anche Helle Busacca collocandosi su questa medesima lunghezza d’onda riesce a fissare con notevole intensità il senso della solitudine e dello smarrimento come momenti di “resoconto” esistenziale nel quale passato e presente si fondono, mirabilmente, dando la percezione di qualcosa che è stato e che ora non è più:

TV
(revival anni 40)
Come se n’è andata la nostra vita,
aldo, perduta, sprecata,
eppure sempre meravigliosa
anni “40, “40),
quando era giovane nostro padre
quando eravamo ragazzi noi,
e siamo già nell’ottantacinque,
io qui nel risucchio, tu chi sa dove.

Più sostenuto e sommessamente dialogico è il discorso poetico di Margherita Guidacci che realizza con la sua dialettica autobiografica un intenso canovaccio spirituale dove pessimismo e senso misterioso delle cose (già analizzati in una sua raccolta dal titolo “Il vuoto e le orme”), rimangono gli unici elementi di analisi e di giustificazione di una esperienza lirica al limite della delusione-angoscia.

COME SONO ARRENDEVOLI I MORTI

Come sono arrendevoli i morti.
Da un solo tenero gesto, perduto
nel deserto,
ci lasciano creare un amoroso giardino.

Docili indossano ogni veste
di cui li mascheri un’astuta memoria,
sorridono ubbidienti
inchinandosi lievi alle nostre illusioni,

accettano la parte che attribuiamo loro
per una reinvenzione del passato,
ed a tutto consentono e mai non si ribellano:
indescrivibile la loro calma!

O forse è solo una gran compassione
per noi e le nostre bugie dolorose.
Anche per loro nessun disamore
può reggere alla prova della morte.

A cogliere il vissuto come momento circoscritto al limite temporale di tutto il genere umano con riferimenti anche metafisici che travalicano l’inquietante aspetto della realtà, è la poesia di Ferruccio Mazzariol, che, con “ lievitazioni drammatiche sulla meditazione del destino ultimo dell’uomo, riesce a conservare il delizioso candore delle immagini che germinano come una moderna “laus creaturarum”

I
Su queste mappe,
segnate da acerrimi sentieri montanari,
correrà la morte
sino al paese trentino di Sagron-Mis.

Correrà, lampeggiando,
senza stuolo di consorelle.
Correrà da sola il palio.
Insieme la vedremo,
di quando in quando
portare alla bocca un pugno di lamponi blu,
e masticarli lentamente.

II

Le mappe sono magnifiche,
senza i nostri fortini a ostruire
la corsa.
Neanche una buca
inceppa la dirittura finale
della mulattiera.

I ponti ad arco sono scorrevoli.

La morte correrà
con occhi grossi di lanterna
l’ultimo tratto, spargendo
dal suo cesto mirtilli neri
e acqua benedetta.


ANGELO FERRANTE

Più di un medaglione esistenziale sono le ”raffigurazioni” sul caro estinto di Angelo Ferrante che, recuperando i frammenti della memoria, tratteggia nel suo “Album”, eventi, gestualità e colori di un interno domestico nel quale la storia si accentra sulla figura paterna esaltando valori e sentimenti difficilmente attaccabili dal tempo:

da: ”FRAMMENTO”

Questa pausa nella vecchia casa paterna il rubinetto
non funziona come al solito non credo che gli
possa
attribuire tutto l’umido che impregna le mura.
E non odo presenze di lui se non del suo odore
di tabacco quando mi guardava correre
nella strada gli si inumidivano gli occhi.

Da ”ALBUM”

I
i riflessi del sole nel bicchiere di vino
un incendio di pampani contro l’arco romano
le statue decapitate ancora un soffio nelle
labbra di pietra
tu incantato gli occhi rossi la voce accesa dai ricordi
il racconto al vecchio contadino erede di Tiberio e Druso
la mano tagliuzzata le dita gonfie e l’unghie nere di terra
nella pace del tardo pomeriggio d’ottobre
io ti ascolto ascolto la tua poesia le favole di un tempo
sorridendo in volo sui latrati dei cani giro sereno
il volto e gli occhi alle colonne

II
Il tuo volto di cera come unto di sudore freddo
l’infrenabile pianto agosto è afoso e un lampo
è stata la mia corsa quasi alla stessa ora
una sera d’autunno aspettavi il ritorno il mio
la tua coppola zuppa di pioggia ineludibile
ed io che non capivo

III
mai il senso preciso la misura esatta
del perché di tutto nel tuo sguardo
il gesto della tua mano da lontano
quando mi vedevi stroncato dalla pena
non abbozzavi un grido ti appoggiavi al bastone
disegnavi la bocca alle campane e la voce

IV
sulla finestra la facciata ridipinta per tuo
esclusivo volere tu aspetti affacciato alla finestra
il mio arrivo ti spinge a ritirarti vuoi prepararmi
un’accoglienza diversa così all’incontro
mi abbracci come se non mi vedessi da un secolo
e piangi come al solito

V
nel pomeriggio di luglio la piazza vibra solo dell’acqua
lo zampillo festoso nella vasca e un coagulo di odori
tra il fritto e la vaniglia
discutiamo di lui così diverso che non ci assomiglia
tra lui (convinciti) è il presente e noi il passato
diventato niente

VI
è luglio in una nuvola bionda traccio segmenti
segnalazioni significazioni tu da lontano mi vedi
cambi strada sai che solo questo esercizio mi rimane.


Non abbiamo più tempo per parlarci
io ho i miei impegni di lavoro sempre più pressanti
mai un’evasione, mai un momento di abbandono
nella nostra casa e nell’orto gonfio di ortiche
tu del resto da quel 4 di agosto
non ti sei fatto più vivo
dopo la curva appena dopo quella che tu vedevi
come un palco affacciato sul paese
mi giunge il brivido del viale senza ghiaia
l’ultimo che hai percorso e ogni volta mi manca
come un ritmo o un fiato e un coccio di questa
mia vita abbandonato.


Veri e propri epitaffi sono i versi di Vincenzo Rossi circoscritti in un rapporto dialettico e memoriale sul significato della vita e della morte, all’interno di una atmosfera che ci ricorda Spoon River coi suoi momenti di affettuosa rivisitazione del tempo passato e di “confessioni” al limite della saggezza e della pietà umana.

EPITAFFI

Arresta i tuoi passi e guarda
come la possente gioventù
alzava la mia densa chioma
come questo vasto petto
era diga contro la tristezza

V
Perché mi sgolai
con la bava al labbro
mostrando denti di mastino
e veloci occhi di brace
senza degnare di uno sguardo
questa gelida tomba
cuore pellegrino non passare

IX
Grato ti sono
se nel pallido sole di novembre
ti ha guidato il suono di lenta campana
fin dove io tuo fratello
che brillò in sguardi di fuoco
e feroce avidità sulle cose
sono consumato dal silenzio.

X
O vivo che passi
davanti a questa pietra
guarda le secche braccia
della mia croce
molto io non ti chiedo
uno sguardo
un attimo soltanto
del tuo tempo vivo

CARLO FELICE COLUCCI

Chi approfondisce il discorso sul tema dell’esistenza è certamente Carlo Felice Colucci che, dalla propria esperienza di medico-scrittore, trae le occasioni migliori per radiografare la realtà mettendone in evidenza i segni del male con una anamnesi del Caso e della Storia .attraverso una indagine spietata sul corpus dell’esistenza dove la visione della morte è mascherata o mitigata da soluzioni consolatorie e ingannevoli adottate come “placebo”.
Tutto questo Colucci lo drammatizza con intelligente ironia, in mezzo al “respiro aspro dei morti”, tra ascultazioni di “sistoli e diastoli” e cuori d’infartuati e anginosi, tra mille domande senza risposte: “ chi siamo, dove, perché / aprire gli occhi e chiuderli per sempre / dai nobili ai manovali ai bari / mai fu trovato il corpo, attento, / ma tutti eguali e segnati / la catena degli ossicini i denti / sense nonsense Nord Sud, / solo un ‘incredibile dose / di ricordi nelle pause buie / un filo di fede in extremis / dopo aver chiesto l’ora esatta /. O in odore di santità/ il Signore ha chiamato/ e suiblimando si crepa/ alleluia/.
Da qui lo sforzo nel cercare il movente oscuro dell’esistenza attraverso la lettura dei segni della vita le cui pagine sanno più di epitaffi generali che di speranza..
Questo ”check-up” poetico e scientifico trova nelle “bianche leucosi” una delle cause naturali della fine del “corpo” visto in tutta la sua imperfezione e fragilità , anche se il poeta stesso sa di non poter “rispondere a tutto”, accentuando in “Notturno Cittadino” quella sua dichiarata e allarmante resa di fronte all’assenza di “altri curabili indizi” e andare oltre il lapidario “siamo non siamo” di “Memoria e fuga” , in attesa del “ritorno degli ostaggi”, come disperato e inutile tentativo di riappropriarsi delle illusioni bruciate dalla vita nei” campi di sterminio”.
Le anamnesi sulla realtà diventano alla fine, veri e propri consuntivi di vita che si sfiammano davanti alle pasque di ceneri ravvivate di soffusa luce , con i “ lumini avanti ai cari estinti” , a imperitura memoria del proprio — pater- o — mite patriarca-

EPILOGO

E com’era buia
la tua demenza
pater
com’era lunga impenetrabile
da un buco di memoria
il mondo in un girello
pigra storia e ferma
a un lampione di sapienza
centenaria,
bella di notte
così finiva
la riffa dei longevi
irriducibili
così barando e l’agonia,
ma che potevamo darti
noi vuoti dentro ormai
a guardia d’un sepolcro
che poteva dire
il sangue marcio delle quarantene?
Bandiera gialla ai vaporetti
all’innocenza amuleto vago
d’una età sepolta
e per fiore la rosa dei venti,
le saghe le saghe, invocavano,
variamente crudeli
dalla strada,
musica in piazza
banditore d’ex.

SINFONIA IN BIANCO E CROCE ROSSA

Dal fondo d’un lettuccio d’ospedale
di qua dal bianco intatto
non venni a chiamar giusti,
a luoghi un po’ stranieri guardiamo
dall’unica finestra
a un verde di pinete la vita
ma non si tocca non s’annusa non si può
se giaci ed alla terra aggrappato
per effimera vena per flebo per os
per la pelle per colpa e nessuno,
è presto per sapere dice il dottore
e nulla da toccare oltre il corpo oltre
nessuna breve nuova per crisi per lisi
nessuno che ci sveli se e al dolore
midriatiche pupille se
fissare in viso il male il tuo il mio
un male più di passo che altro
oppure, orrore,
stanziale e un po’ crudele bianchiccio
ribelle ai domatori ai
dottori al grande caso
col forcipe col bisturi l’ago
nessuno poi che turbi dal fondale
i candidi laccati villaggi
e molto bianco intorno con croce
le rosse croci in vena in flebo
scialbate le pareti se duole
con l’ago il silenzio per os
in maschera in guanti la scienza
l’avara mia scienza tesoro
di là dal gran ponte
guerrieri in attesa le febbri ignote
ragazzo che andava per comete
più feste nel cielo al peccatore
che a quei novantanove giusti
così mondo straccione ti guardiamo
da bianche voglie sulle gote di guarire
di qua dalle pinete ospitaliere,
così nascemmo in pochi
orditi cromosomi
coi geni i loci il male i miti
dall’uno all’altro pub a marciapiedi
salotti bari o cresi
e chi già crede siano immuni i santi
guariti e vaccinati trapiantati tra
s’attende quel dottore e
nessuno può svelare prognosi amate
né il tempo immemorabile che manca
nessuno né fedeli al giuramento
la nemesi al bivio Asclepio
con vita la vita con male incurato
affiora l’Atlantide e attende
effimero agisce il rimedio
e taglia e ricuce il cerusico nostro
l’esangue rodeo dei sopravvissuti
profondi giacigli di occaso
qualcuno che chieda la buona morte
per sempre nell’utero mater per amnio
per flebo per vena per sempre
gli infetti no, vanno per legge isolati
per germi con maschera e guanti
monatti ed untori si nasce si muore
un caso assai raro da notti bianche
io qui vi presento e le fobie
il nome diventa numero al letto
salute uno stato precario
dal quale mai nulla di buono mi attendo
curabili casi i sentimenti
sui nostri lettucci laccati
con diagnosi prognosi e cura
la scialba memoria una cisti
accadde che mentre in Gerico entrava
in strada vi fosse un cieco a mendicare
ragazzo che a un niente arrossivi
le date più assurde della tua storia
in pillole e fiale
nessuno sa l’ora il te mpo che manca
aspettano al ponte guerrieri,
liocorni liocorni anch’essi infermi
frammenti di sogno ben custoditi
così inerme e bianca la corsia
annotta in silenzio e croce rossa.

INVECCHIANDO

Col rimpianto amaro degli orti
il pendolo tradito
a Natale papà viveva ancora
attento alla sua digitale in gocce,
caute scommesse di futuro a bocce
noi per fede s’intende, per esempio,
la pelle iridata del mondo
restarvi spettatori a lungo
di amati enigmi paradossi il no
e di tanto in tanto un capogiro
un incidente dentro le mura,
nato a residente a
le piccole attenzioni dovute
ma in resto ci danno caramelle
i misteri della materia
e il telefono sempre guasto
meglio proteine che grassi e non fumo,
la maturità è tutto e crepò
saggiamente votato all’entropia
con soli tre denti e mezzo lato,
così rompo occhiali da presbite
e ci offrono medaglie,
in guerra sono i padri invece
a seppellire i figli e sia,
persone o vecchi personaggi a scelta
e chi a memoria recita giornali
violenza da sovraffollamento
neonato con organi al contrario
chi si converte in zucchero filato,
cercasi un’antica follia:
il giardino dovrà esser venduto
il caro estinto riconosciuto
ma davvero tornare presto
nel gran letto a giocare
e chiuso per ferie il Karma
l’ora esatta
o il codice cavalleresco
di quando ammazzo l’animale
e invecchio,
in attesa del giudizio universale.

IL MIO PAESE

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina,
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Matteo.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per le vie.

CIRCOSTANZA

Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai complici ammiccare
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere,
dita a intrecciarsi per niente
affusolare un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater,
ma a che misteri
nel morire tuo lieve
mi iniziavi
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza

AMATE GRONDAIE

“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre dei bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio alle parole,
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’umile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi

IN VIAGGIO

Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dei lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
nati vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria,
non è dove si nasce la terra
partenze departs qui e là
quasi” rosa la rosa ” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte senpre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici “ passengers
are kindly requested “io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone.


NOTTURNO CITTADINO

Coi giornali freschi di stampa
e tu le gambe lunghe della sera
la popart sui marciapiedi e uno guarda
uno, due se non hanno altro da fare
mormorando strane frasi di niente
come il cinese sfiora l’Occidente
passando in lontani torpedoni,
le facce chiuse in cieli finti
salgono, salgono dal profondo Sud
se non ti va di emigrare sta’ qui
dove non vagano più tra né voglie
sui corpi delle ragazze incinte
una banale emicrania a passeggio,
uno pelato sembra mi somigli
ma non io, non avevamo sosia
io son quell’altro fermo ai quadrivi
miliardi e miliardi di cellule, sai,
facendo amicizia con la notte in giù
fino a vuotarne bene il contenuto
a contarne le insegne sgargianti
e impacchettano statue e monumenti
comprese le mura di cinta e di noia,
alle calcagna d’ansimanti sogni
ancora la ronda dei soldati in tre
o quei brevi marinai allegramente
le navi scritte in oro sulla fronte
né vi sono altri curabili indizi
girotondi magri di drogati e di
bigi topi corrono ebbri, corri
il sangue sprizza dal pronto soccorso
e docile imbocca i tombini, laggiù,
prima ch’io ne riconosca il gruppo
la notte impudica già si denuda,
in ghingheri, fontane del tempo,
con la violenza ci fanno bottoni
quest’ultimo è sdentato e grida forte
mentre io giungo trafelato al portone,
le stesse ombre di ferro e di silenzio
qualche folle tornato dalla guerra
e più o meno il respiro aspro dei morti


GIOSE RIMANELLI

Ad una ampia campionatura di immagini-sensazioni e resoconti autobiografici, dove la sopravvivenza psicoemotiva di profondi soliloqui si alterna con i luoghi della memoria domestica e storica, tra visi, gesti, luoghi geografici diversi, come diverse ma non disgiunte da tutto il corpus poetico sono le due figure rappresentate dalla vita e dalla morte, che tra l’altro appaiono dominanti nella raccolta dal titolo: “Sonetti per Joseph” Caramanica Editore, 1998, s’affida Giose Rimanelli, tutto portato sul versante di un umanesimo illimitato e assoluto nella esaltante dichiarazione di un perduto bene che permane anche quando le rapine della morte mettono a soqquadro cuore e ragione e fanno della generosa illusione dell’esistere un delirio-rovello esplicato attraverso un lessico lirico assai singolare nella operazione di collegamento dei sentimenti , sia se si tratti di discorso neutrale che partecipe dei fatti e degli eventi. “Sonetti per Joseph” lancia messaggi psicoemotivi e linguistici che vanno al cuore della dialettica esistenziale, in una atmosfera familiare fatta di cronache e di racconti, di confessioni e delusioni , che si riannodano in un unico bozzolo dal quale fuoriescono filamenti memoriali, come disperato bisogno di ricucitura del tessuto quotidiano attraverso un’ampia galleria di personaggi, come la figura della madre, del Reverendo Mich ed i suoi cantori, di doppi se stesso del poeta, che riaffiorano come isole nel grande mare delle dispersioni con una febbrile volontà di esistere, anche dentro il “male di vivere”, non importa se poi tutto questo si riduce a uno smarrimento dell’io e a uno stupore delle cose passate e presenti.

RITORNO
LIII
Mia madre muore a Windsor, nell’Ontario,
in una casa abbandonata all’ombra.
L’abbraccio, la vezzeggio, non s’adombra:
lei sa d’esser sola nel suo santuario.

Qui a suo modo ognuno fa il solitario,
come a intrattenersi con la penombra
che a poco a poco invade i vetri, e sgombra
d’ogni residuo d’olio il lucernario.

Nella mia terra abbarbicata ai muri,
mia madre visse un riluttante esilio.
Ora qui siamo, nella sua: duri

da rompere col rimpianto, l’ausilio
dell’incognita, la testa agli scuri….
La Gloria? Passa sotto il peristilio.

Windsor, Ontario
Domenica 5 novembre 1995

MIA MADRE
XLVI
Joseph, non è morta , anche se lo penso.
Ha perso quasi tutte le sue piume
e il gesto, la parola. Già l’incenso
tinge la sua stanza di là del fiume.

Alla sua vita non c’è alcun compenso,
eccetto un pensiero: ci è stata lume,
porta aperta sul mondo in quel suo denso
ipotecare la speranza. Schiume

d’ignoto pianto battono le sponde
d’America, fino alla patria Italia,
e sfumano. Nessuno mai risponde.

Vanno e vengono, aggobbiti d’alia,
figli e nipoti e parlan di Laonde
la mamma/nonna, stelo della dalia.

Pompano Beach, Florida Martedì, 31 ottobre 1995

SALVE REGINA

XLIX
Aspetto la mia morte con lo sguardo
di mio padre, a cui sempre più somiglio:
chiaro, con tutta una sua grazia; il cardo
che pungeva è perso, tra grano e miglio.

Aspetto la mia morte, col ritardo
mitico dei treni, nel ripostiglio
della mia gloria; odorerà di nardo
e farro, vuota quanto uno sbadiglio.

La morte è rito solo per chi resta:
per me c’è il canto del Salve Regina
nella Valletta dove ognuno appresta

una tela sospirosa , in sordina;
e dove incontrerò te pure, in testa,
Joseph, a una brigata d’albaspina.

Pompano Beach, Florida
Giovedì, 2 novembre 1995


LA ROSA
XXXIII
Per i tuoi settanta, sapienza e amore
te ne danno appieno….venti di meno;
e, Dio voglia, ce ne saranno almeno
cent’anni ancora a salutare altre ore

di lieto conversare, di sereno
scrivere nel reciproco pallore;
è questa la vita, è questo il suo odore?
La barca cerca altra sponda, il seno

sempiterno che ci ripaghi a fondo
d’ogni umano dolore — quella spola,
Joseph, che tesse o inceppa il girotondo.
La rosa odora una giornata sola,
(come la nostra vita in questo mondo,)
e Amore canta, ride e se ne vola.

Election Day Pompano Beach, Florida Martedì, 6 novembre 1994

SIS
XVII
Mangiavano peperoni salati
sotto il fusto d’una palma, in un fosso
di fango e rettili, semi affogati
nei loro tatuaggi; e nient’altro addosso.

Uno d’essi si rosicchiava un osso,
ed un altro i capelli insanguinati
d’un terzo che piangeva, “Ummm, yes, ti posso…”
e mormorava un blues di stralunati.

“Yes mama, mama look at Sis, lei è fuori
on the levee, facendo il doppio salto
col Reverendo Mich ed i suoi cantori”.

“Rum in here, you little sow, lo smalto
sulle unghie is bad, girl, you know how? Se muori,
you little sow, mama too vola in alto.

Jacksonville, Florida
Sabato mattina, 17 settembre 1994

PREGHIERA

XXIII
La pioggia che ti sfruscia nel pineto,
e quella che t’affoga nei diluvi
è la stessa che monda e ti disseta,
è la stessa pioggia che carezza e urla.

Sei come il passerotto che si burla
sul filo del giorno giunto a compieta,
e si stordisce al buio negli effluvi
di paludi che vegliano il canneto.

Joseph, aiuto! Sempre stessa storia
on Television, da mattina a sera:
soap opera, politica, violenza.

Questa porosa cosa, la mia scoria,
(permetti?) eleva ancora una preghiera:
che presto arrivi l’ultima partenza.

Jacksonville, Florida
Martedì, 11 ottobre 1994

VENTURA

XXV
Ognuno costruisce la sua casa
nel deserto, ed ara, scava e coltiva.
Poi — passa un giorno passa un anno — arriva
il vento e l’acqua o il fuoco e la travasa.

C’era sempre un fiore sulla cimasa
che ci donò guidogozzano: estiva,
con i colori di Domani, e viva…
come i bei sogni morti in quella casa.

Ora la gente passa e mi domanda:
“Di cosa ti lamenti, la paura?”
Tutta la vita è fatta di chi sbanda,

o arranca, cercando la via sicura.
Ma poi si affonda. Paura? La banda
suona al solito il blues e la ventura.

Jacksonville, Florida
Sabato, 15 ottobre 1994

CATULLIANA V

XLVIII
Godiamo in santa pace il nostro amore
perché la vita è luce che si spegne.
Lo dico a Bimba con aperto ardore
siccome a lei non vanno le consegne,

le morali delle favole, le ore
attorte e un tantino pregne alle insegne
delle scuole, o assorte nel luccicore,
Joseph, di tutte quelle cose degne.

Ho perso sempre tutto nella vita,
Joseph rispose , eccetto la mia croce.
Vi sono entrato come in una gita,

petto in fuori, melodica la voce.
Onestamente, me la son goduta:
godendo anche l’amaro della noce. (66)

Pompano Beach, Florida
Mercoledì, 1 novembre 1995

NICOLA IACOBACCI

Il risultato sorprendentemente più avanzato sul territorio delle immagini-percezioni, (quando l’occasione poetica non è dettata solamente dalla suggestione del paesaggio o dalle relazioni storico-familiari o affettivo-sentimentali), è quello della prefigurazione o rappresentazione del Nulla, come ci viene proposto da Nicola Iacobacci il quale affidandosi a un lessico scopertamente fruibile anche nei termini analogici, riesce a far proprio un messaggio poetico in sintonia con i brividi culturali del nostro Tempo, che sono poi quelli della percezione del trionfo dell’empirico e della crisi del trascendentale.
In quest’ambito il senso profondo del sentimento della morte, recepito come fatto ineludibile, assume nella valenza della denuncia un significato di forte impatto sociologico.
Da qui il recupero tradizionale del “consolo” o della partecipazione al dolore , che poi altro non è che un ulteriore richiamo antropologico all’antico culto dei morti magnificamente descritto ne: “Il cerchio si stringe”, un testo singolare, interamente trasferito sul piano delle impressioni e dei sentimenti: “Attorno al morto vegliano gli amici; / per ingannare il sonno bevono vino di melappia; / tra un sorso e l’altro la consolazione / d’essere vivi:/. Ma dove l’immagine del “viaggio” s’affaccia con più graffiante incisività, portandosi a un livello di prefigurazione del rito funebre , in particolare quello della vestizione, con tradizionali richiami a figure mitologiche è nell’ultimo testo che chiude il volume “La baia delle tortore”, sintesi di una sincera e appassionata rigerminazione dell’amore che va oltre i confini stessi segnati dalla scia della barca di Caronte :”Agghindami a festa. / Il vestito di seta, la camicia, celeste, / come i miei occhi pieni di luce. Sei tu la luce e i miei occhi che vedono oltre la barca / e il fiume di Caronte, l’angolo di cielo / dove aspetterò il cavallo alato che ti condurrà da me./
In quest’ultimo senso la poesia di Nicola Iacobacci toglie all’impietosa presenza del Nulla il suo potere di distruzione e di terrore “accettando anche, serenamente, la morte, come un momento necessario di quel fluire perenne” (Carlo Saggio)

CIV

L’ultimo rintocco spezzerà il volo della rondine
nel gelido cristallo d’alba equinoziale.

Non coprirmi di lacrime e di baci.
Gioia è l’amore, cuscino d’erba e viole,
non pietra nel calco d’un sosia glaciale.

Bianca la veste, fiori d’arancio, fulgida spada
sul velo che copriva il tuo rossore. E ti baciai.
Il miele grondava dai telai dell’arnia
quando la maschera e il fumo allontanano la pioggia
e le api sui poggi di campanule e ginestre
gonfie di polline e profumi.
La vita sembrava eterna. Ed è eterna
nel sorriso delle figlie che nuotano nel grembo
come in un lago d’acqua azzurra e quieta.

Restami accanto, conosci il mio tremore
e la paura di restare solo.
Il mondo schiaccia ogni saggezza, non il pensiero,
fragile specchio che ha la forza di respingere il sole.

Agghindami a festa.
Il vestito di seta, la camicia, celeste,
come i miei occhi pieni di luce.
Sei tu la luce e i miei occhi che vedono oltre la barca
e il fiume di Caronte, l’angolo di cielo
dove aspetterò il cavallo alato che ti condurrà da me.

Non scordare le mie scarpe di vernice, silenziose e comode
Le tue scarpe di raso .
Insieme, sulla scala di vetro dell’eternità.


IL CERCHIO SI STRINGE

Perché dovrei pensare come gli altri
e credere alle cose che durano nel tempo:
è la vita che non dura.

Attorno al morto vegliano gli amici;
per ingannare il sonno bevono vino di melappia;
tra un sorso e l’altro la consolazione
d’essere vivi. Ma il cerchio si stringe,
il filo spinato s’attorciglia intorno al cuore
duro come il cristallo del lago ghiacciato
che cede improvviso al sole che rinnova
la gioia di vivere.


GLI ORECCHINI DI CORALLO

Gli orecchini di corallo
m’incantano più della fonte di maga
nel giardino degli uccelli;

come due bacche rosse
tintinnano sfiorati dalle labbra,
parole dal suono di foglie secche
tritate nella mano e ventilate
senza che resti nulla di ciò che dico
perché non dico nulla di ciò che penso.

Un giorno forse sarò sepolto nella neve;
dalle mie parti fiocca a pelo di gatto
e la campagna diventa un manto
senza strade né foglie;
travi tarlate crollano sotto il bianco peso.

A te non piace il mosto cotto
sulla neve che crocchia nel bicchiere
perché la neve è una lastra
sul tuo cuore di fanciulla
inorridito dal pensiero della morte.

QUANDO MUORE LA REGINA

Quando muore la regina degli zingari
quattro cavalli neri portano la bara
sul manto di garofani steso sull’asfalto.
Anche gli zingari hanno la corona
sul palo della tenda al centro del campo
tra mucchi d’erba
e pietre affumicate dal freddo e dalla fame.

La libertà è la maschera che copre la vergogna.

Libero è chi lavora forgiando con le mani
il metallo per ferrare i cavalli
e correre sulle prode erbose dei pascoli,
non chi ruba il fieno del vicino o la gallina
come cagna randagia per nutrire la nidiata
dalla buca aperta nella rete.

E i figli piangono venendo al mondo,
la pelle scura e il sangue caldo
e la bocca aperta alla gonfia mammella.


IL SONNO E’ LA MORTE DEI VECCHI

L’ala del passero preso alla tagliola
è immobile sul muro rosso del bastione.

Odore di sorbe sui tetti
e di cotogne che il vento gonfia
sul dorso della costa
quando i tordi, a coppie,
scompaiono tra i rovi.

L’ombra sonnolenta si sdraia sotto il tiglio
e nelle viuzze dormono i ragni
accanto alla preda impigliata nella rete.

Il sonno è la morte dei vecchi
sui scanni di pietra addossati ai muri scalcinati
delle case rosse di gerani.

A MIA MADRE

In questa stanza bianca
la lingua è legata nella bocca
come il battaglio della campana
nei giorni di passione;
ancora un giro intorno all’asse:
l’eternità gorgoglia nell’acqua
accanto alla bombola d’ossigeno.

Dal vetro brunito della finestra
lampeggia la prima lucciola;
tante lucciole tra i fili della memoria
impigliati a tarda sera
nei cespugli fioriti della costa.

E’ il segno dell’età,
felice perché passata:
l’attimo non rivela la gioia
o il dolore che lo sostiene.

Tempo d’addio:
la sedia di paglia è già pietra
per l’allodola stanca di volare.

TORNEREMO INSIEME

Mio padre e mia madre
non hanno più voce
ma continuano a cantare
con le mani tra le spighe;
il tempo non tradisce mai
quelli che aspettano.

Torneremo insieme
nella luce che solleva gli oceani:
l’attesa della primavera
finalmente si coprirà di rondini.
Entreranno le rondini nella mia stanza
con un soffio d’aria nuova.
O è forse la pietà
che addolcisce il senso delle cose,
le ore di pioggia nei pagliai,
le notti pesanti come pietre,
il pensiero del domani.


MARIO M. GABRIELE

Con “Astuccio da Cherubino” il sondaggio esistenziale assume un ruolo prioritario che si dilata “lungo una esplorazione della morte piena di infinita pietà” .(Giorgio Bàrberi Squarotti). L’aspetto storico e domestico riservato alla figura del caro estinto, rievocato nel momento del distacco, permette un’avvolgente visione e rapporto tra l’Hic et nunc e l’oltre, spaziando nella parapsicologia “rinuncio all’assurdo, ai contatti / con le ombre, mentre gira a vuoto / il nastro del vecchio Grunding / per un tuo messaggio che non arriva /”, e nella metempsicosi “Io, in disparte, / lontano da quella archeologia / ti penso altrove: bruco, passero, girino./ ”fino a recuperare attraverso “il vetro che si incrina” l’improbabile segno proveniente dall’aldilà, come estremo tentativo di porre in una dislocazione atemporale l’immagine paterna passata ormai, definitivamente, nella penombra “se per te mi fingo / una nuova vita e mi calmo soltanto / sapendoti felice in altre ionosfere,/ fuori da questo luogo / che se mi volgo intorno / è una lunga città di morti, di segni, / di epitaffi strani./”
“Il vocabolario di Gabriele è estremamente semplice desunto com’è dalla quotidianità del vivere, ambiguamente usato per esprimere il “mondo dei morti”.
C’è da notare che la struttura del testo nel suo complesso si sviluppa, a partire dalle Epigrafi, in un discorsivo che ha come interlocutore il Tu. Chi non ricorda il “tu” di Montale? Chi non ha nella mente il dialogato di Eliot? Chi non ricorda lo Spoon River di Masters? Ma il “tu” di Gabriele è nello stesso tempo il poeta che si guarda allo specchio, è l’uomo dell’oltretomba che si evidenzia come anima, ossia come umanità.. (Gaetano Salveti: Introduzione alla poesia di Mario M. Gabriele su Nuova Letteratura 1985).
“Poesia sociale, dunque, che si veste di analogie e di simboli, che assume la solennità pensosa di una parabola evangelica o il tono sferzante di una indagine rivelatrice”. (Intervento critico di Lidia Ratti a "Il giro del Lazzaretto di Mario M. Gabriele su QG., anno XIV novembre-dicembre n. 149; dove “ l’esilio e l’eclissi scandiscono i ritmi di un esistere, segnato da morti e resurrezioni, da ciclici abbandoni e ritorni alla voluttà della parola, tra sogno e veglia. Il risultato allucinato, ma autentico è l’essere, al principio e alla fine, ombra di se stessi, immagine stemperata di una presenza, che evoca fantasmi di assenza”. (E' quanto si rileva nella Introduzione di Francesco D'Episcopo nel volume Moviola d'inverno di Mario M. Gabriele, Riposte, 2003).

EPIGRAFE N.1

Bisognava attendere,
essere composti nel dolore
trovare un angolo e rimanere soli
mentre c’era chi trafficava per le stanze,
chi raccattava la speranza caduta a pezzi
e l’abisso oscuro allontanava da me
ogni tu forma, i molteplici colori……
Anche così
La morte non ha reciso molto
se qui, nella tua casa,
ancora c’è chi ti ravviva di porta in porta,
riesumando oggetti, incespicando storie
per nulla desuete o lacrimose,
se m’ostino come sempre
ad attendere nel vetro che s’incrina
il tuo graffio dall’al di là.


EPIGRAFE N. 2

A volte
è come un rito d’altri tempi:
c’è chi accende il lucernario,
chi divaga sulle notizie della lapide
e gennaio fa prodigi contro un muro
di gerani e non ha senso abbellirti
come un piccolo giardino
se per te mi fingo
una nuova vita e mi calmo soltanto
sapendoti felice in altre ionosfere,
fuori da questo luogo
che, se mi volgo intorno,
è una lunga città di morti, di segni,
di epitaffi strani.

EPIGRAFE N.3

Non sempre la tua assenza
è un lunghissimo-black-out-.
Spesso riemergi dal buio
in piccole intermittenze, baluginii,
vicino al lumino sopra la consòlle.
-Non è che si ricavi molto con le preghiere-
dico agli altri
mentre sgranano la corona e attendo un tuo segnale
-tremolio o luccichio-,
brevi notizie dal tuo mondo.
A quest’ora,
-essenza o crisalide-
probabilmente già in un’altra dimensione,
dovrebbe soccorrerti un Dio di pace e non di guerra.

*
La tua fede si riduceva al minimo:
pochi idoli, feticci effimeri
di chi crede che la vita sia solo un caso.
La Pasqua ti abilitava,
ti scioglieva dal martirio
del Dio assente o presente.
E come avrei allora potuto non amarti
scioglierti dal dubbio totale?
-Si tratterà- dicevo,
-di un vuoto da colmare-.
E ne venivi fuori, titubante,
un poco in disagio per il lungo subbuglio
della ragione al profilo morbido dell’aurora.

*
Il tuo guscio di noce,
troppo angusto in un viaggio d’eccezione,
era un astuccio da cherubino
e tu un archetto incantatore
per cipressi e rododendri,
sempre più in fondo a un cunicolo di sogni
se mai ne avessi uno.
Ma è assurdo
pensarti altrove, chiudere per sempre
con gli anemoni e le cose
lungo un fiume di nebbie e di carrubi,
con un lupo trifauce a guardia dei tuoi occhi,
lasciati al buio, al silenzio che deturpa.

*
Come posso ritrovarti
tra mattoni e calcina,
qui tutto ben squadrato, livellato,
con questa frana all’improvviso
di terra e di radici?
E’ già molto
ricomporti nel ricordo,
mentre c’è chi tenta l’omelia
sul tuo bozzolo di neve.
Se qualcosa emerge
è subito un collage di fossili e lumachine.
Io, in disparte,
lontano da quella archeologia,
ti penso altrove: bruco, passero, girino.

Parlarti è impossibile
se in fumo o in sogno
sempre mi ritorni
per un monologo o per le tue pozioni.
Ma fu il colpo d’ala quando ti chiesi
perché mai ti trovassi nella necropoli.
Ora l’inferno è sapere
quando riapparirai,
come farai a battere alla porta
con quelle mani già ali di farfalla?

*
Sempre verrà l’autunno,
il rosso delle vigne
a terrazze sulle colline
fin che dura l’estate
sui boschi e i ramarri.
E’ un’erba verde
la voce che non torna
chiusa nell’orto antico
nel tempo dell’amore.
Legno nero e fumo.
Si riapre il dolore
come una finestra vuota.
Sempre se ne va l’autunno
in una tristezza
che nessuno più direbbe antica,
di ramo in ramo, di foglia in foglia,
come un furto vero
il nostro pianto greve.

La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea

Seconda parte


LE ANAMNESI DIFFERENZIATE SUL NULLA/MORTE

Il Novecento italiano col suo ampio repertorio letterario sul tema del nostro essere — qui e ora - offre un flusso ininterrotto di testi che, se non rimuovono totalmente le domande sul senso della vita, prospettano anamnesi differenziate dell’interrogazione esistenziale, con interessanti margini di interpretazione proiettati su alcuni momenti riflessivi e meditativi, tra dialogo e soliloquio, per una dialettica sulla morte, legata in larga misura al ricordo dei cari estinti e ad una forte e marcata problematica esistenziale come in Montale, Sereni, Luzi, Pavese e Caproni, che hanno autorevolmente segnato il loro cammino con opere che riflettono il destino dell’uomo e della sua fragilità, anche attraverso un'appassionata ricerca etico-morale, fortemente combattuta, fino all’estremo (ir)razionale gesto del suicido in Carlo Michelstaedter il quale, nella continua lotta tra spirito e ragione, recupera con la poesia la strada dei suoi meandri esistenziali e la luce vivissima del suo processo di liberazione: “Lasciami andare , Paula, nella notte, / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andare oltre il deserto, al mare; / perch’io ti porti il dono luminoso”. Alcuni documenti poetici provenienti dal Crepuscolarismo, a parte Corazzini che vede nella Morte la fine dei suoi mali fisici nella composizione dal titolo: la “Desolazione del povero poeta sentimentale” Perché tu mi dici : poeta?/ Io non sono un poeta./Io non sono che un piccolo fanciullo che piange./ Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio./Perché tu mi dici: poeta? ……” io so che per essere detto: poeta , conviene / viver ben altra vita! Io non so , Dio mio, che morire “, fanno parte di un più ampio archivio di sentimenti ed emozioni come in Guido Gozzano che, accanto ad una descrizione provinciale e ironica della vita di provincia, ci trasmette una visione della morte (senza querele) portatrice di benessere e di dolce (sapore),definita la grande (eguagliatrice), o ancora in Camillo Sbarbaro che, attraverso un colloquiare dimesso e a bassa voce, alza i toni del ricordo, magnificando la figura del padre in “Pianissimo ”Padre, se anche tu non fossi il mio/ Padre”/, per te stesso ugualmente t’amerei/, portando al limite del prosaicismo lirico gestualità affettive e memorie incancellabili.
In molti poeti l’atteggiamento correlato alle stagioni dell’autunno e dell’inverno, che meglio esprimono metaforicamente le età mature della vita rievocate tra delusioni e inganni, tra sogni e luoghi della memoria, è spesso sentimento di difficoltà nel cercare varchi di salvezza al di là di ogni inconfessabile dubbio davanti all’imperscrutabile. Ecco allora la scelta di correlativi oggettivi nel tempo che passa e nella stagione che scolora o che annulla la visione dell’orizzonte con elementi fisici quali la pioggia, la nebbia e la neve. E’ la metafora della desolazione della vita e di un male di vivere portati al limite di una tensione spirituale sincera e fortemente elegiaca come in questi testi dal titolo “Autunno” di Vincenzo Cardarelli e di Adriano Grande e in “Fuga di giovinezza” di Hermann Hess.

VINCENZO CARDARELLI

AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento di agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

ADRIANO GRANDE

AUTUNNO
Autunno la tua musica!
Un’uguale tristezza in me discende
a quella che t’avvolge, o età dell’anno
che scendi a morte con mesta allegrezza.
Concedi ch’io mi accordi sui tuoi flauti.
Prestami una tua forma.
Dammi i tuoi frutti accesi :
una vite arrossata; od una pergola
dove io mi stenda e dorma.
Mi cullassero i rami di una quercia,
nei tuoi profumi passeggeri e blandi
si placassero, come a un oppio nuovo,
l’aspro pensiero teso,
il vivere penoso
e l’obbedire inutili comandi.

HERMANN HESSE

FUGA DI GIOVINEZZA

La stanca estate china il capo,
specchia nell’acqua il biondo volto.
Io vado stanco e impolverato
nel viale d’ombra folto.

Soffia tra i pioppi una leggera
brezza. Ho alle spalle il cielo rosso,
di fronte l’ansia della sera
e il tramonto e la morte.

E vado stanco e impolverato
e dietro a me resta esitante
la giovinezza, china il capo
e non vuol più seguirmi avanti.


EUGENIO MONTALE

L’itinerario poetico di Eugenio Montale è tutto un descrittivo tomo intorno al “male di vivere”, che dall’iniziale testo dal titolo: “Meriggiare pallido e assorto” in “Ossi di seppia”, è venuto via via, a fissare i termini di un percorso esistenziale di ansia metafisica e di recupero dei luoghi della memoria, approfonditi nelle successive opere, testimoniando con la sezione “Xenia” del volume “Satura”, il rapporto affettivo con la moglie scomparsa, chiamata “Mosca”:
” Caro piccolo insetto/ che chiamavano mosca non so perché / stasera quasi al buio / mentre leggevo il Deuteroisaia / sei ricomparsa accanto a me , / ma non avevi occhiali, / non potevi vedermi / né potevo io senza quel luccichio / riconoscere te nella foschia
o ancora…
"Al Saint James di Parigi dovrò chiedere / una camera “ singola”(Non amano/ i clienti spaiati) … per poi cercare subito / lo sgabuzzino delle telefoniste, / le tue amiche di sempre, e ripartire, esaurita la carica meccanica, / il desiderio di riaverti, fosse / pure in un solo gesto o un’abitudine./
Il discorso con le ombre è sempre, pudicamente sommesso, volto a recuperare “l’assenza” che per il poeta è richiamo alla vita, pur nella singolare illusione della finzione, attraverso il recupero memoriale del volto, e dei gesti, come estremo rapporto affettivo dei vivi verso i morti.
La poetica montaliana, complessa ed eterogenea di fronte ai fatti della Storia, si è sempre adattata alle domande che più distruttivamente azzerano la ricerca esistenziale dell’uomo, portando su punte di estrema disperazione la ricerca della Verità, tra momenti di ansia religiosa e impennate illuministiche, al fine “ di scoprire uno sbaglio della Natura, / il punto morto del mondo, l’anello / che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente / ci metta / nel mezzo di una verità./ “ Il suo manifesto poetico, già dichiarato in “meriggiare pallido e assorto” è la dichiarazione della Vita come Nulla.
“Arsenio”, “ I limoni” ,“Stanze”, “Iride”, ”L’orto”, sono soltanto alcuni dei percorsi “aridi” di Montale, che affida alla memoria l’unica via di fuga dal vivere quotidiano.
Luciano Minguzzi, tracciando uno schizzo del poeta sul letto di morte, ci fa vedere un Montale pacificato con le sue inquietudini, con i suoi tremendi quesiti esistenziali, con i suoi dubbi e le sue incertezze, solo, in quel gorgo che accomuna uomini e cose, mentre il “girasole impazzito di luce” si allontana per sempre dal “terreno bruciato dal salino”, ultimo emblema di una felicità e di un possibile barlume che non ci è dato di avere o di scoprire.
Ora che Montale è fuori da questa “amara tortura senza nome”, apprendiamo con sorpresa la sua grande lezione di poesia e di umanità. Il varco o il punto di fuga che Montale ci ha additati, è nella nostra coscienza, nella nostra solidarietà e pietà fuori da ogni turbamento che ci proviene dalla nostra condizione di esiliati incapaci di trovare il senso della vita “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Come per Giorgio Caproni, poeta della ricerca metafisica, in continua lotta con se stesso e con Dio, che ne “ Il muro della terra” ha mirabilmente scritto: “Ho provato anch’io. / E’ stato tutto una guerra / d’unghie. / Ma ora so. / Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra.” / ; così anche per Montale il doloroso problema del Dio assente o presente, si riaffaccia costante in tutta la sua poetica. “Nelle mie poesie”, ha scritto il poeta, “ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta.” E Montale la risposta non l’ha trovata, nessuno gli è venuto incontro, neppure il “Volto insanguinato sul sudario”, come nella bellissima “Iride”, un’altra poesia onirica, dove il poeta si rivela come un maudit, fortemente conscio delle umane ferite e delle profonde contraddizioni del vivere e del morire.
L’umano dolore e il senso estremo della vita sono stati espressi da Montale con ironia e tragedia, in un notturno dolcissimo che ha suggestionato intere generazioni di lettori e di poeti. La sua poesia si è sempre esposta allo scoperto, nei confronti degli inganni e delle illusioni del momento, se il poeta, già a sedici anni, riesce a dare una rappresentazione esatta del mondo e delle cose, come in “meriggiare pallido e assorto”, dove disperazione e senso del Nulla sbarrano la via a qualsiasi ipotesi di fuga o di salvezza.

Nella disgregazione cosmica delle cose, perenne ed eterna, Eugenio Montale si è identificato, ha tracciato il segno effimero delle stagioni, ha mosso con decenza e dignità, la catena del nostro purgatorio quotidiano, con un rigore morale e culturale sul grande tema delle negazioni e dell’esistenza per farci superare la “dannazione” come una “amara oscurità che scende su chi resta”.
“ La poesia di Montale si propone come discorso sulla poesia stessa e sulla sua tradizione e sui suoi segni, ma anche, al tempo stesso, allegoria della condizione umana e del rapporto con la morte e con la sempre più improbabile divinità. Penso a …. “Ti libero la fronte dai ghiaccioli”, dove c’è la contrapposizione fra l’angelo sceso in terra e le ombre di qui, le solite ombre dei morti (dei morti / vivi, degli uomini ormai ridotti a ombre, ormai coinvolti tutti in una finzione di esistenza fantasmatica), fra il viaggio cosmico fra nebulose e cicloni che ha un che di pascoliano e il vicolo di qui, lo scantonare nel vicolo come unico e infinitamente degradato cammino quale possono compiere le ombre.” (Giorgio Bàrberi Squarotti: La poesia del Novecento", Salvatore Sciascia Edizioni, Ottobre 1985, pag.220).


TI LIBERO LA FRONTE DAI GHIACCIOLI

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.


ALFONSO GATTO

Poeta ermetico della seconda generazione, ma con moduli linguistici dichiaratamente meno oscuri e più aperti all’emozione, Alfonso Gatto ha fissato, sin dalla sua prima raccolta dal titolo “Isola”, i parametri poetici dai quali traccerà, in seguito, delle bellissime pagine poetiche, allusive e disincantate, sensuali e malinconiche entro i limiti di una descrizione dell’amore e del ricordo, musicalmente recuperati tra surrealismo e metafora. La sua “isola” è un lembo d’anima nel grande azzardo della vita, che si dilata di fronte alle vicende della resistenza e della guerra con poesie di ampia partecipazione e sofferenza .Cromatismo linguistico e disposizione emozionale al ricordo e all’amore, caratterizzano questa poesia psicoemotiva che si lega e si scioglie, di fronte alla morte, all’interno di una poetica sempre “solare” e “azzurra”, attraversata dall’immagine della “sera”, vista quasi sempre con malinconia e come limite temporale del vivere quotidiano.


A MIO PADRE

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

PAROLE

“Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: - io lo dicevo all’ombra
ch’eri nel vano della stanza — attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo”.
Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna)


CESARE PAVESE

L’avventura poetica di Cesare Pavese si circoscrive in un unico progetto strutturale e linguistico che il poeta stesso volle proporre come documento alternativo all’ermetismo, riunendo in “Lavorare stanca” (1943) i suoi versi in forma di poesia-racconto, opera unitaria e massimamente rappresentativa dello sperimentalismo realistico, anche se le ”Poesie del disamore” (1934-1938) e quelle riferibili al periodo 1931-1940 ne prolungano il clima letterario senza, tra l’altro, farne parte.
Né i versi di “Poesie d’amore” 1934-1938, né quelli di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” 1945-1946, possono essere considerati organicamente attigui a quelli di “Lavorare stanca”, perché riflettono situazioni esistenziali molto forti, che non hanno nulla di paragonabile alla solarità della prima raccolta dove è insistente il desiderio di fuga dalla vita di provincia , con le sue problematiche sociali e politiche nel conflitto generazionale che si viene a determinare nel dopoguerra, tra mondo contadino e mondo industriale. Pavese inaugura una stagione poetica del tutto nuova all’interno di una rappresentazione delle cose e della natura che, pur ricollegandosi alla civiltà contadina, se ne allontana dai suoi miti per indagare su una realtà extrarurale fatta di nuove tensioni e aspirazioni in un quadro sempre più dinamico della società fortemente dilacerata dai desideri e dalla voglia di cambiare.
Il mondo delle fabbriche, le verdi colline delle Langhe, le osterie, i rossi vigneti di S.Stefano Belbo, sono gli “ esterni” più rappresentativi della sua poesia racconto, che con l’interno “esistenziale” forma un unico canto epico intorno alla triste condizione umana. vista come “stanchezza” , ovvero come “tensione drammatica dell’uomo contemporaneo” , definizione quest’ultima che si rileva in una nota del volume “Poesia non poesia- anti poesia del 900 italiano” di Vittoriano Esposito, Bastogi 1992, dove tra l’altro si precisa: “Altra spiegazione, forse un po’ capziosa ma ugualmente interessante, è data dal Fernandez, in una sua altrettanto ponderosa quanto celebrata monografia, là dove scrive: ”Riassumendo le nostre scoperte, giungeremo a questa conclusione, che il personaggio principale di “Lavorare stanca” è la morte. Ma domandiamoci innanzitutto il senso di questo titolo. Per Pavese, allevato da una madre sola, portata a tanto più rigore verso suo figlio quanto l’esiguità del suo bilancio la renda più austera, l’identificazione tra la vita e il lavoro, il lavoro ingrato che affatica, cioè la madre che si affatica al lavoro (vita = madre),non è inevitabile? La morte, confusa con l’immagine del padre scomparso e rimpianto, scintilla nella notte come una stella magica. Non è tanto lavorare che affatica, quanto vivere.
Vivere, quale usura inutile: la sola maniera d’esistere che non sia assurda è attendere la morte” (cfr. L’èchec de Pavese, Editions B. Grasset, Paris, 1967)
La fine dell’avventura di “Lavorare stanca” è dichiarata da Pavese nel secondo dei suoi due scritti posti in appendice al volume “ A proposito di certe poesie non ancora scritte, datato febbraio 1940) E se “Lavorare stanca” nell’edizione 1943 includerà parecchie poesie scritte dopo questa dichiarazione, è un fatto che esse sono molto diverse dalle precedenti. E’ il distacco da quell’ideale di poesia racconto che Pavese perseguiva dal 1930 e che dal 1936 già dava segni di stanchezza. Dopo la dolorosa esperienza di tre anni vissuta al confino di Brancaleone Calabro, e ad una intensa attività narrativa". Il bisogno di scrivere per Pavese tornerà solo in occasione di episodi della sua vita amorosa; e saranno sempre versi per una donna presente nella raccolta “La terra e la morte (1945) e “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. (E' quanto si rileva in una nota dal titolo Il distacco dal mondo di "Lavorare stanca" a cura dell'Editore e in appendice al volume: Cesare Pavese- Poesie del disamore, Einaudi, ottobre 1968, pag. 96).

PROPRIETARI

Il mio prete che è nato in campagna, è vissuto vegliando
giorno e notte in città i moribondi e ha riunito in tanti anni
qualche soldo di lasciti per l’ospedale.
Risparmiava soltanto le donne perdute e i bambini
e nel nuovo ospedale — lettucci di ferro imbiancato —
c’è un’intera sezione per donne e bambini perduti.
Ma i morenti che sono scampati, lo vengono ancora a trovare
e gli chiedon consigli di affari. Lo zelo l’ha reso ben magro
tra il sentore dei letti e i discorsi con gente che rantola
e seguire, ogni volta che ha tempo, i suoi morti alla fossa
e pregare per loro, spruzzandoli e benedicendoli.
Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto
Una vecchia coperta di piaghe, era stata sua madre.
La donnetta era morta al paese, perché l’ospedale
le faceva paura e voleva morir nel suo letto.
Il mio prete quel giorno portava la stola
dei suoi altri defunti, ma sopra la bara
spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche più a lungo.
Nella sera già calda, la terra rimossa odorava
Sulla bara dov’era un marciume; la vecchia era morta
per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre
che - rimasta sola — spettava a lei sola salvare.
Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate
che , da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta
s’eran messe in miseria. E il mio prete pregava
che potesse venir perdonata la temerità
della vedova che, mentre il figlio studiava coi preti,
s’era — senza cercar consiglio — presunta da tanto.
L’ospedale ha un giardino che odora di terra,
messo insieme a fatica, per dare ai malati aria buona.
Il mio prete conosce le piante e i cespugli
Anche più dei suoi morti, chè quelli rinnovano,
ma le piante e i cespugli son sempre gli stessi,
Tra quel verde borbotta — a quel modo che fa sulle tombe —
negli istanti che ruba ai malati, e dimentica sempre
di fermarsi davanti alla grotta , che han fatto le suore,
della Natività, in fondo al viale. Si lagna talvolta
che le cure gli han sempre impedito di dare un’occhiata
degli alberi secchi e che mai , da trent’anni,
ha potuto pensare alla requiem eterna.


GIORGIO CAPRONI

A leggere bene tutte le opere di Giorgio Caproni dall’iniziale “Il passaggio di Enea” 1956, a “Il seme del piangere” 1959 , da “Congedo del viaggiatore cerimonioso” 1965, a “Il terzo libro” 1968 , fino a “Il muro della terra” 1975, si rimane alla fine di fronte a tre topografie spirituali che hanno come riferimento: la città natale, il ricordo della madre e il tema assiduo della ricerca di Dio.
Insolita è la struttura poetica che si rifà alla ballata del duecento con vigore linguistico novecentesco particolarmente documentabile nel “Congedo del viaggiatore cerimonioso” e ne “Il muro della terra.”
Per le considerazioni di carattere tematico attinenti a questa antologia, si reputa opportuno indicare alcuni esiti poetici che riguardano il tema del “viaggio” che il poeta intraprende, di volta in volta, nelle pluralità delle cose e degli eventi , anche dolorosi, che lo portano a chiedere, a fare domande, a insistere su alcuni aspetti “oscuri” della vita e dell’esilio di ognuno di noi: tutti “viaggiatori” in procinto di partire o già partiti “ Sono partiti tutti.” / Hanno spento la luce; / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno dopo l’altro /…… “ E io, / io allora, qui, / io cosa rimango a fare, / qui dove perfino Dio / se n’è andato di chiesa /”
Quella di Giorgio Caproni è una denuncia amara dell’esistenza che ci conduce alla fine nello stesso luogo dove si è partiti per cercare un senso a questa vita. Il luogo è spesso oscuro e misterioso. I segni sono pochi e tra l’altro anche indecifrabili .
La ricerca di Dio diventa affannosa e inconcludente.
“Caproni non ha fatto altro che “ congedarsi”…. dalla terra e dalla speranza, come se davvero fosse venuto per lui, poeta viaggiatore, il momento di “chiedere l’alt (La citazione è di Giovanni Raboni che ha firmato la prefazione al volume L'ultimo borgo, di Giorgio Caproni-Poesie1932-1978,Rizzoli Editore, Milano1980, pag. 13),. come se fosse uno di troppo , un intruso in un mondo di rovesciamento dei dati delle mappe nautiche il cui Zenit è sempre puntato davanti a un “Muro”, che va comunque scalfito per aprire una breccia che possa alla fine porci nella condizione di rimanere “viaggiatori” in una città di sole. Il risultato è soltanto una avvilente avventura al di qua di tante rese e sconfitte:“ Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia / Anche se non so bene l’ora / d’arrivo e neppure / conosca quali stazioni precedano la mia”.
Il “viaggio”, assai disorientato, non può che portare al fallimento dell’avventura iniziata senza alcun progetto metafisico: “Ho provato anch’io. / E’ stata tutto una guerra d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra” , pervenendo semplicemente a: “Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato” /. In questo suo “congedo” di “viaggiatore cerimonioso”, Caproni riesce , pur nell’assenza di guide sicure e di indicazioni precise per tutti, a picchettare un territorio dell’anima dove aridità e desolazione, amarezza e spaesamento, lasciano alla fine un messaggio di umana partecipazione al dolore degli uomini.

GIOVANNI RABONI

Con “Parti di requiem”, apparse nell’Almanacco dello Specchio, n. 4, a cura di Marco Forti , Mondadori 1975, Giovanni Raboni riesce a creare tutto un mondo di sensazioni e sentimenti, dentro e fuori l’ambiente familiare visitato dalla morte, che mette a soqquadro la “normalità” della vita e la stessa privacy domestica dalla quale emerge un dolore filiale, al limite dell’annichilimento e del grido soffocato.
Protagonista di “Parti di requiem” è la madre del poeta che finisce con l’essere l’unica dialogante prima di interrompere per sempre il discorso quotidiano con il figlio poeta, che percepisce a fondo l’attimo estremo della vita: “Sempre c’è / poco tempo quando dobbiamo fare / i conti con i morti. E così dico / a mia madre di aver pazienza — a lei / che vicina a morire, ancora / vuol sapere com’era la mia cena…/. E’ un discorso di lucido dolore intorno alla eccezionalità di un “evento” percepito in tutta la sua inevitabilità, che dura anche dopo la scomparsa della madre, con gli oggetti da recuperare, da salvaguardare, da portare altrove e per sempre, come in “Trasloco” / Bisognava rincorrerli — gridare / slittando sulla ghiaia / abbattersi sui platani, volare / sui tre gradini di graniglia /…. prima che qualcuno / (la Gondrand, anche allora?) bestemmiando / per troppo noce, / ansando cieco per le scale /, portasse dentro - prima la testata, poi le molle, le sponde / - il letto di mia madre /.Da qui il senso altissimo e fortemente umano di opporsi all’inevitabile distacco: ” Mi chiedo se una bara / può essere così calda, davvero, come è stato / questa notte in un sogno - / dico calda da dentro se per ridere / cerco di sollevarla, se la tolgo / al furgone, alla fossa, / se l’abbraccio, sapendo nel legno che sei viva/.. . Anche nell’ultimo volume di Raboni dal titolo ”Quare tristis”, Mondadori, Milano, 1999, la tematica del dramma della vita e della Storia si configura in un ampio scenario di nebulosa presenza, come una minaccia su tutta l’umanità.
Il registro poetico è costituito da toni bassi che riecheggiano le vibrazioni del pensiero e dell’anima sempre vigili nell’innescare il ricordo doloroso del passato e le incertezze del presente. : ”C’è luce di purgatorio in questo libro. Le cose sono spiate da pupille socchiuse — / come uno che sta sognando e sa / di sognare e nel sogno si ribella /., per la consapevolezza che “la vita è senza varco liberatorio”, “guardata dal punto di vista della morte” come ha scritto Luigi Baldacci a proposito di “Quare tristis”, perché / “ nessuna storia si può scrivere / se non nella cenere” . (La sintesi riportata che fa parte di un più ampio discorso critico su "Quare Tristis", è di Enzo Siciliano su La Repubblica, giovedì, 18 marzo1999, pag.42.)

TRA FEDE E RAGIONE

Le risposte al problema della dialettica vita-morte hanno costituito da sempre un’ampia campionatura di documenti poetici strettamente correlati ad una visione teistica e atea dell’esistenza.
Rientrano in quest’ambito alcuni poeti dell’area cattolica come Giovanni Testori, che con “Conversazione con la morte”, Rizzoli (1978) grida il suo fervore poetico con un linguaggio dichiaratamente mistico e ossessivo, lo stesso di Davide Maria Turoldo , e che in Mario Luzi ne: “Il giusto della vita ” -Garzanti 1979, si fa sommesso periodare , tra monologhi e dialoghi in una attesa tutta cristiana della vita ’E’ qui , è in queste opere miti / e chiare che trascorre e brucia / quel che non ho e che pure dovrò perdere/ Tempo passato e prossimo si libra…/ Io, come sia, son qui venuto, avanzo / da tempi inconoscibili , ardo, attendo; / senza fine divengo quel che sono , / trovo riposo in questa luce vuota./ Ma ancor più da vicino si seguano i risultati di alcuni poeti come Andrea Zanzotto, che nella raccolta “La beltà” e nel testo “ Sì, ancora la neve” pone inquietanti quesiti filosofici di assoluto silenzio nelle risposte : “Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso “ , e che ci riportano immediatamente per congiunzione analogica ai primi versi del: “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” di Leopardi : “Che fai , luna in ciel? Dimmi , che fai, / Silenziosa luna?…..”Dimmi…. a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? / dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortal?, e ancora alcuni spunti maudit di Dario Bellezza circoscritti in forti sigle d’angoscia e di autodistruzione: “Dio può pensare se stesso essendo / puro spirito. Ma pensando sé / ci annulla vigorosi nel corpo /a cospetto del micidiale sonno / che ci tiene e ci lascia / ma sempre inconcludente / ci depone alla fine dei giorni, / delle ere, e tutto è notte / conchiusa nel vetro stellare / della luce senza speranza ( di vivere oltre i mondi e le età “., per finire, con Pier Paolo Pasolini che , con “Le ceneri di Gramsci” , s’apre ad un colloquio sofferto e solitario davanti alle pietre tombali evocanti il passato dopo l’offesa della morte“ Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo. / Scelte, dedizioni… altro suono non hanno / ormai che questo del giardino gramo / e nobile, in cui caparbio l’inganno / che attutiva la vita resta nella morte. / Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno / che mostrare la superstite sorte / di gente laica le laiche iscrizioni / in queste grigie pietre….”
Sono questi i risultati etico-morali che s’aprono a diverse soluzioni provvisorie o definitive nella complessa ricerca della verità. L’avventura della vita è anche impatto con la morte continua ed eterna. Il Nulla presente e globale investe più da vicino la paura dell’essere - qui e ora - come momento effimero su cui fare i conti.
Permane nella nostra civiltà occidentale la certezza del cupio dissolvi, la condizione contraddittoria tra fede e ragione. Niente è definitivo e tutto è discutibile.
La Natura vive e si rinnova. Ad essa apparteniamo dal principio alla fine.
“Cercare il senso della vita? E’ il modo consolatorio che tutti in certi momenti e passaggi, adottiamo per bisogno di consolazione. Ma trovare quel senso e precluso dalla conformazione stessa della mente è domanda alla quale non c’è risposta. Il senso della vita è la vita, che non ha alternative. La natura si pone forse quella domanda? La natura vive e basta. E noi, non siamo forse natura, a meno di non compiere un atto di luciferino orgoglio che ci vorrebbe far superiori al resto della natura? Noi siamo diversi, ma non superiori. Diversi solo in alcuni aspetti, ma anche noi natura per tutti gli altri” . (E' un frammento di un articolo di Eugenio Scalfari apparso su La Repubblica di mercoledì 24 gennaio 1995, pag 30, come risposta ad una polemica di tipo esistenziale e teologico con il Vescovo di Como).
A queste considerazioni, tutt’altro peregrine e che rispecchiano il libero pensiero contemporaneo della morte di Dio, si frappone e, per alcuni aspetti sovverte le tesi eretiche dell’Illuminismo kantiano, la presenza millenaria della fede e il mistero della Resurrezione di Cristo.
Alla morte pacifica e serena si contrappone quella , violenta e orrifica, delle guerre e dei genocidi.
Qui non mancano testi esemplari per la loro drammaticità e per le sequenze di dolore e di smarrimento.
L’orrore della guerra e il senso effimero della vita sono ricondotti in un unico momento di pietà da Giuseppe Ungaretti che testimonia , nel giro di pochi versi, una realtà d’esistenza precaria :”Si sta come/ d’autunno / sugli alberi / le foglie ”che è già annuncio di premorte e di attesa dolorosa, la stessa che ha portato Salvatore Quasimodo a dire: “ E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici , per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento”, e a rappresentare con Vittorio Sereni la delusione del tempo e della Storia ne il “Diario D’Algeria” e ne “Gli strumenti umani”, due realtà poetiche scandite da un presente che è assenza e graffio autobiografico sull’esistenza, che diventa indagine prospettica del futuro, come in ”Autostrada della Cisa” in “Stella Variabile” , Garzanti Editore , 1981- “Tempo dieci anni, nemmeno / prima che rimuoia in me mio padre / (con malagrazia fu calato giù / e un banco di nebbia ci divise per sempre) /. Oggi a un chilometro dal passo / una capelluta scarmigliata erinni / agita un cencio dal ciglio di un dirupo, / spegne un giorno già spento, e addio /. Sappi — disse ieri lasciandomi qualcuno - / sappilo che non finisce qui, / di momento in momento credici a quell’altra vita ,/ di costa in costa aspettala e verrà / come di là dal valico un ritorno d’estate”.

GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

Il discorso sulla salvezza e sulla perdizione trova in Giorgio Barberi Squarotti uno dei più acuti osservatori della realtà contemporanea dove la vita è già predestinata al nulla e in questa percezione trovano ospitalità storie, profezie, ammonimenti, descrizioni di uomini e donne collocati in bolge sulfuree e senza via d’uscita, il tutto magnificamente trasposto in una ampia galleria di personaggi di dantesca memoria, che discutono ”dell’inesistenza del Nulla”, tra finzione e realtà, in un clima di sangue e orrori, di storie e luoghi non facilmente individuabili, eppure straordinariamente (pseudo)reali, collegati da un ininterrotto continuum lirico che ha nel suo interno il ritmo incalzante delle favole.
Solo quando il tema esistenziale si complica metaforicamente allora si fa più complesso il discorso di Squarotti che affida al significante ogni forma di messaggio posto come veicolo di indagine sui grandi temi contemporanei e metastorici.
Ciò che colpisce è la capacità del poeta di riproporsi come soggetto abilitato a trasmettere il codice della realtà secondo le proprie chiavi di lettura, con la presenza di Dio che, secondo un verso di Barberi Squarotti, “c’è capitato in mezzo da sempre”.
In quest’ambito si colloca una delle sue opere : “Notizie dalla vita”, Bastogi Editore, 1977 , a metà strada tra la poesia-racconto e le infiltrazioni sperimentali dell’Avanguardia.
Trattasi di un dossier-poetico sull’agonia di eventi storici e sociali nei quali la spinta emozionale di tipo privato forma un’unica e organica rappresentazione della vita, vista come una via crucis con tante stazioni di dolore.
La fustigazione e lo strazio delle carni sono il risvolto metaforico di un clima politico e sociale concomitante agli esiti storici che caratterizzarono la presenza al potere dei colonnelli in Grecia, “il Cile di Pinochet, la guerra del Vietnam e la nostra stessa esistenza in Italia, fra sussulti , rinnovamento e complotti oscuri e crisi economica”.
Più in specifico si può dire che il volume è la rappresentazione di corpi violati e battuti a sangue, in un passaggio di anime destinate al dissolvimento e avviate verso un luogo “ove è tenebra e stridore di freni e fiamme”..
Certamente in una operazione poetica dove l’occasionalità dei dati a disposizione è spesso molteplice e pseudoreale, la letterarietà assume un ruolo egemone sui sentimenti a tutto vantaggio di un prosaicismo lirico per una grandiosa visione della realtà riportata come Storia e Commedia.
Ma già con le raccolte successive riunite nel volume antologico “Dalla bocca della balena”, Genesi Editrice, 1986, si assiste ad una personale adesione ad un codice linguistico tutt’uno con l’io narrante che si sviluppa attraverso una ”scrittura straordinaria, che dà fondo al massimo delle risorse psicolinguistiche per denunciare l’onnipotenza della “Morte” nel suo globale aspetto del “Nulla”, ma anche della “Vita” come tale, a partire dalla megavita cosmica a finire a quella microbiologica dell’uomo e della sua storia e fino alla cronaca del suo “non essere” spicciolo e quotidiano”. (Giuseppe Zagarrio, da "Febbre, furore e fiele" Mursia 1983, pag. 577).

DA UN TRENO

La ragazza nuda (dal treno, mentre andavo a Milano
per parlare di Gozzano o di altri prodotti di bellezza,
non ricordo), fra i rami giallo-rosei dei salici e
le fogliette pallide, appena esplose dalle piogge
di primavera, non altro che un’immagine, e già più non ricordo

forse bionda o, e rosei i capezzoli, la mano
sopra il pube oppure sotto le pallide mammelle? soltanto
ormai una macchia bianca nella memoria come dentro il verde

del fosso, dopo Vercelli, non altro e presto una
vuota voragine che inghiotte questa giornata di aprile (o
di dolce autunno, ancora tiepido?) come quarantaquattro anni di

quasi vita e troppe parole scritte e dette e altre non
pronunciate quando era il tempo, tutto quello che
non ho fatto o ho visto o non saputo, e
anche questa ragazza che
forse soltanto un luogo letterario o un’occasione per
parole parole parole sulla pagina in realtà sempre bianca dove

dovrebbe essere scritta una storia mal raccontata ma viva
almeno un poco,
e tu allora, così chiara distesa sopra il letto
nel tramonto quieto di Pasqua, dopo la grandine livida nei fossi

dove? o la luce del tuo corpo nudo nella notte di?
o fra l’erba e le canne, quando? Dieci
inverni prima o domani? O solo una confusa fantasia,un pò

morbosa, un sogno di solitario? Ecco: restano poche
parole sopra fogli
quasi illeggibili, il fantasma di un aprile improbabile
di gioia e lacrime (quanto diverso da questo e da ogni altro,

qualche reminiscenza letteraria, ma nulla della vita se mai ci

fu vita, neppure un’ombra, dentro o fuori, di
ciò che è stato o ho creduto di vedere, chi sa dove.
aprile-agosto 1974



*
Tre soli anni, e già più non ricompongo i
tratti del tuo volto che per quarant’anni e più mi ha vegliato,
e allora che posso dire ormai di te, di me, di una vita d'amore e
pena per un’altra di parole e vento e gesti
venuti sempre troppo tardi, all’orlo di
una stanchezza mortale o anche un poco oltre, dove è
lo scherno dell’inutile e del vano, e non c’è più risposta,
da nessuno ?
Se ti riporta il sogno, ma sei tu se ora
il tuo passo è così lieve e rapido, i capelli neri il
volto senza rughe, la voce non interrotta dall’affanno?
Mi dicono che ora sei così, nell’altro spazio
dove nulla si perde, e nella noia dei vizi ripetuti, delle
viltà moltiplicate nello specchio di ogni anima,
nei rancori, nelle ire, nelle quotidiane crudeltà
così uguali per tutti che neppure Dio distingue vittime e
colpevoli, il bene che solo è tuo risplende. Io non
vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro
a sé, e
preferisce le voci d’altri libri i cataloghi gli archivi;
ma so forse che questi colpi da basso, fitti contro la
porta, e i passi più numerosi nella strada delle
scarpe chiodate, e i lamenti e le grida e i colpi di
frusta e anche questa primavera stenta e le tempeste
che abbattono alberi e uccelli e l’acque torbide,
sono perché il mondo t’ha perduta, e
il giudizio di Giona può ormai compiersi.
(in treno, 18 aprile 1974)


LO SGABELLO DI DIO

ad Angelo Jacomuzzi

Sì, è vero, anche se accumuli a migliaia
fogli su fogli scritti ai margini
(e anche qualche disegno d’angelo, una rondine
in un angolo del cielo bianco), il tremore di una foglia
dove è caduta una riga, forse, un volto
vecchio si affaccia da una macchia bruna,
sembra voler parlare, poi gli occhi come se
per la prima volta avesse visto davvero il libro scritto
del mondo, troppo lungo e confuso, pieno
di storie senza senso e tutte di morti da chi sa
quanto tempo o uno traballa un poco, poi si lascia
cadere troppo lentamente a terra,
allargando le braccia, mentre ancora
in una mano convulsamente stringe
una bandiera vuota); ecco, neppure —
mettendo l’uno su l’altro tutti i sogni
sognati sul Parnaso e altrove si può giungere
anche soltanto a intravedere lo sgabello
dove i suoi piedi a volte posa Dio —
un passo lento, un’orma pesante sul broccato
rosso, la punta di una pantofola un po’ lisa
nel tremare dell’aria come dopo
il primo tuono della primavera
proprio niente di tutto questo, solo un muro
di carta o di cartone, e quale spazio
può rimanere oltre un angolo d’aria muta e morta,
un lembo di tenda grigia che un vento
inesistente a volte spinge fino
ai fogli, una mano di bambino che saluta
in un’alba d’inverno, il punto animato di una mosca
che cerca a lungo la parola fine
dove fermarsi.


Squarotti si serve dei dati minimi della quotidianità per approdare ad una sorta di spartito teatrale dove i personaggi sono presenti con tutte le loro pene e le loro confessioni, che la Storia o il semplice Caso mettono a centro di una Commedia nella quale sempre più incisiva e persistente è la denuncia del Nulla .
Il risultato è quasi sempre una sconcertante ed epica rappresentazione della realtà nella quale si vengono a inserire alcuni rapporti autobiografici come consuntivi di una vita .
A ciò si aggiunga una insistente accentuazione del racconto tra “finzione e dolore”, dove i dati esterni sono sì denunciati con vigore e ironia, ma si propongono anche come visione dell’occhio interno del poeta che non concede nulla al patetico o al mimetismo emozionale.


XXXV

Una lenta vecchiaia, lunghi anni vuoti ormai
di lamenti di ire, di perdute profezie, di
affannose occasioni, e anche della fatica di vivere:
in riva a qualche collina senza venti
o accanto a un antico fiume che non varia
con le stagioni e nulla scorre in esso né
foglie né le ore della luce e dell’ombra né barca più
che l’attraversi carica di anime tenere e nude e un po’
piangenti
al contrario di te, aveva molta paura della morte
o forse troppo amore per i corpi nuovi in ogni primavera
subito
scoperti un poco nella luce ancora cruda senza
verde di foglie, per la ripetizione delle
albe, per l’arrivo dei merli, per le viti
nere sullo sfondo di neve, per i ritorni trepidi di te,
per la fuga della ragazza bionda avanti al dio che ride:
troppo poco ti ebbe, il tempo fu quasi
tutto sprecato senza che se ne accorgesse, scrivendo
parole come chi beve vino per stordirsi di
qualche cosa che neppur più ricorda: ecco, anni
avrebbe voluto per guardarti con i suoi occhi sempre
meno capaci di riconoscere quel che non c’è oppure non esiste
una vecchiaia anche con tutti i mali e uno spazio esiguo,
una finestra, una poltrona, pochi passi pieni di fatica fino al letto .e
anche un lungo tempo per morire in una nebbia
lentissima, ma per riempirsi la memoria di te,
e le carezze e i baci e la tua anima
più chiara della luce di quell’alba di luglio, quando
capì che l’ironia di Dio lo avrebbe inviato molto
lontano da te, in qualche nobile castello d’anime
eloquenti, che discutono dell’inesistenza del nulla.
(Venezia, 5 settembre 1975)

XXXIX

Ecco che cosa ti lascerò: questi cinque altri morti
dopo un’infinità di altre morti che neppure
tutte le foglie di tutti gli autunni di tutti i
tempi da che c’è l’autunno; in fila, di corsa o
legati a qualche albero, bendati o con gli occhi pieni della
luce splendente del mattino o trascinandosi ai piedi
di Creonte
o nudi e già mangiati un poco dalla morte e quale
scriba nella cancelleria di Dio più ne tiene il
conto per l’improbabile resurrezione della polvere:
la Storia, insomma, che anch’io ebbi da mio padre,
ufficiale sul Carso e su chi sa quali altre montagne dell’
inesistenza, questo dominio del nulla dove tutti
(anche tu, dopo di me) abbiamo un posto
inutile.
Porto Sant’Elpidio, 28-29 settembre 1975)

SCRIVERE NON VIVERE

Non riuscì a fare molto più che scrivere,
eppure sapeva che ben altro bisognava
perché meno dolore fosse al mondo
e un poco più di pace , per te, dopo le fatiche della sera.
Non capì mai se quello era davvero l’ordine di Dio
in cui credette troppo poco per
non avere dubbi sopra la giustizia delle piogge
d’autunno sull’auto rovesciata per la strada
di Narzole, con dentro gli occhi ancora aperti
di non si sa se bambini oppure vecchi,
o per non scendere al Campo dei Miracoli
a porre i quattro talenti (ma se ne dimenticò,
poi, e non ritornò mai a vedere se la Volpe
li avesse dissotterrati, oppure il Cane
fedele, che è amico dell’uomo, come è noto).
A metà della pagina si alzò
per baciarti, uscì nella nebbia smorta della
sua città d’anime zoppicanti, quasi mute
per il male alla testa, non capaci
più neppure di un saluto, in qualche luogo
illuminato bene pronunciò
le solite parole, e nulla fu mutato nulla
nel mutare della storia, nel tuo sonno
agitato, nel respiro un poco affannato dei
bambini, come per un brutto sogno.
(Roma. 7 maggio 1977)


I LIBRI

Dicevano di lui che troppi libri
e poi ancora i sogni di altri libri
e tutta una biblioteca di Babele
versi smisurati storie di minimo
poeta di qualche osteria di Cesenatico
o scriba nel comune di Monforte,
fantasmi appena citati negli archivi
di Apollo, righe, righe di parole
poco comprensibili, descrizioni del nulla, il
nulla che l’acqua limpida del fiume
porta insieme con le foglie le nuvole
le barbe delle capre il volto stupefatto
della ragazza nuda, sorpresa mentre contempla
nel tremolio delle acque il tremito del corpo
troppo ancora bianco nel primo sole d’aprile;
il nulla che viene a galla nello specchio
in un giorno di pioggia, mentre attendo
il tuo ritorno a casa, e non rivela
nessun futuro, non illumina nessun passato che
non ci attende, in nessun luogo; ecco:
ma pensate a ciò che non ho scritto,
eppure i tempi gli chiedevano, inni
ai marinai di Odessa, carrozzine
di vecchi giù da strade in discesa da
colline, bandiere secondo le ore del giorno e gli umori
dei troppi capi nelle piazze, la
Verità nuda per i fotografi sul palco
del comizio, sorridente, girandosi
con lentezza perché tutti le vedessero
bene le lunghe cosce, il pube biondo,
i trionfi di carta e legno trasportati
per le strade sui camion rossi, le sentenze
dei vescovi, elenchi di puttane, il prezzo
degli operai beatificati su tutti gli altari,
discorsi in versi sopra i versi mai
scritti da nessuno, il suo cuore un po’ pavido,
le vicende di un’infanzia in campagna,
con troppi compagni morti giovani per non
piangere dolcemente sui ricordi, e tutto il resto che
la Morte invano in quegli anni contendeva alla
Moda: lodatemi per quel che non ho scritto e avrei potuto
scrivere, chiese alla fine, citando
a memoria, e bruciò la sua vita in mille
falò nel prato di Monforte, non i libri, non
i libri nei quali è noto che non c’è nulla se non morti
e qualche verità non molto utile.
(Marina di Carrara, 29 giugno 1977)


XLIII

Visse in una città, per lo più poco accorgendosi di vivere
(un margine di pagina, non più, gli bastò per quasi
quarant’anni,
cercando un posto ma fatica fra
Baltusaraj e Baudelaire nei dizionari, poi tu
gli desti un po’ di disperazione e un po’ d’errore, e
s’accorse delle foglie rosse d’autunno, delle mura
macchiate della stanza, di te a poco a poco nuda nella
lunga spiaggia di primavera, nella stenta luce del
crepuscolo, del
resto non si hanno notizie (ebbe figli? Visitò
l’Averno? vide Dio o, miope com’era, per Lui scambiò
Giordano
Bruno o un ignoto poeta dei seicento? Conobbe erbe
boschi le
orme della volpe? o si smarrì fra le case le nebbie le
rapine
alle banche le povere anime ignude le foglie lievi di
Sibilla?, è
certo che non scrisse libri, forse qualche poesia per nozze o per
monacazioni, non altro risulta a questo archivio.
(Padova, 18 maggio 1974)

*

Sotto una quercia o fosse anche soltanto
un tiglio o un gelso, ma che c’è mai di male
se vedeva in quell’ombra esigua voli d’angeli
che venivano a porgergli bicchieri
colmi di latte e miele e mormorii
di parole quasi già ordinate in versi,
o la luce di colpo vi si apriva
di un giovane corpo nudo, sorridendo
la ragazza restava a lungo lì,
a farsi guardare, fra rapidi rossori,
non chiedendo nulla più di uno sguardo sereno,
ed era forse più grave se era un cane
con grandi macchie brune sul mantello
candido, si sedeva ai margini del foglio,
come in un’attesa festosa che poteva
durare anche tutta una giornata e forse più ancora,
perché una gioia deve pure giungere
da oltre il muro che circonda il giardino
quieto, e se davvero ha visto il volo rumoroso delle gru,
davvero l’acqua scura della fonte
della vecchiaia che dà finalmente la saggezza,
o il volto di Dio in tutta la sua terribile potenza:
si dice che abbiano parlato insieme a lungo (no,
non da solo, non al vuoto del vento,
non alle ombre delle nuvole che passano
sullo specchio lucido del prato
e vi lasciano macchie un po’ sfrangiate,
come tracce di perdute anime a cui non disse nulla
quando era tempo), e dopo, allora, come
non rimanere lì, ad attendere se mai
volesse ritornare, o almeno un segno
di lui, se s’alza ancora la brezza della sera,
se il tramonto si riflette rosso su una foglia
tenera (e non c’è altro segno, non altro, ormai,
cancellato com’è quello di Giona),
se una colomba becca nella terra
bruna, se giunge il richiamo di un ragazzo
dalla strada, risponde forse un sussurro,
forse solo il brivido della vita che sfugge,
al di là di tutti i muri del paese di pianura,
nel sogno della folla irosa di domenica
che passa calpestando rose alberi
cespugli dove vecchi stavano nascosti
a guardare se passassero ragazze
abbracciate a caproni neri con occhi di fuoco:
ombre di vivi che si tenevano per mano
nel cieco giorno, e anche Dio che c’è capitato in mezzo
da sempre, resta in ginocchio, appoggiandosi a terra con
il braccio,
muove le labbra come per un richiamo o almeno
per una battuta finale: e credete
che sotto l’ombra di un faggio o di una quercia
nel chiuso del giardino non si possa
udire anche ciò che è quasi muto ormai?
Ecco: piega un poco il capo, anch’egli
muove le labbra e anche la mano come
per un saluto estremo, fissa le
stelle che risplendono nel cielo
pur nella luce altissima del giorno,
i re che passano in corteo, con le corone
d’oro sulle fronti sporgenti, ossute,
mutando luoghi dalle grotte del cielo,
dal trono al buio di capanne e canne
e la doppia schiera dalle due parti del sole,
infine tutto così chiaro per una volta, tutto così logico
e concluso per sempre nel delirio.
(Roma, 30 marzo 1984)

SULLA STRADA DI TRAMARIGLIO

Infine, sulla strada di Tramariglio, incontrò
il suo serpente, esiguo, stento, grigio-verde come
un misero soldato d’altri tempi,
e neppure sapeva parlare molto bene,
col suo accento un poco dialettale e una leggera
balbuzie: gli indicò appena le ragazze
che correvano nell’aria umida di pioggia
quasi nude, il libro che tirò fuori dalla borsa
di finta pelle, lo sfogliò distratta-
mente, si fermò su una pagina, lo chiuse
con un sospiro senza dirgli di leggere,
rassegnato estrasse la Morte, il Re di quadri, la
regina di Saba, il Sole, la Città inventata,
lo Scettro, l’Annegata, il Pinnacolo del Tempio
da cui tutti i deserti della Terra
e d’altri luoghi ancora e i monti magri e
le vuote cavità del Nulla (e anche due
o tre fotografie, consumate, un po’ sfuocate, di serene
foreste, di acque tranquille, di ruscelli
fra lisce pietre candide di giovani donne con abiti celesti
e pizzi intorno al lungo collo bianco
e gli ombrelloni a righe e saluti quasi
invisibili su labbra che si sfanno:
con un sorriso invitante, ripassandole
davanti ai suoi occhi, poi tristemente riponendole)
due o tre versi bellissimi, poi un lungo silenzio:
-Venga a prendere il tè (indicando il
nero antro la strada,, e dentro , a tratti,
qualche breve bagliore e qualche voce),
ma forse è tardi, forse (guardando il suolo arido)
prima di notte pioverà, ma le posso offrire anche la pace,
questa pace dell’anima nell’ora
in cui nulla accade in nessun luogo e
nessuna notizia giungerà al suo riposo se si siede
sulla candida pietra presso l’albero
di noce, neppure un alito di vento o
una foglia che cade o la fila di formiche che
interrompa un passo o il franare di un mucchio
minuscolo di terra: adesso devo andare
(toccando timido l’orlo del cappello
stinto), un po’ soffiava , era molto pallido,
gli sorrise in risposta , lo aiutò
a strisciare fra i lentischi e i sassi
aguzzi dove meno ripido ed erto era il pendio,
verso il cielo smorto del tramonto.


GIOVANNI RAMELLA BAGNERI

A spingere la tensione mentale e psicoemotiva oltre i confini dominati dal negativo, è Giovanni Ramella Bagneri che, in uno dei suoi volumi più significativi dal titolo “Il teatrino del mondo”, Forum 1984, mette in evidenza un mondo collassato e privo di luce , con visioni sulfuree e infernali di prospettiva postnucleare dove la morte occupa davvero un primo piano, per rivendicare un ruolo primario sulla vita, attraverso alcuni aspetti orrifici e opprimenti, che richiamano alla mente certe atmosfere del romanticismo inglese caratterizzate dal senso del macabro e della ineluttabilità corrosiva delle cose. Quelli di Ramella Bagneri sono attacchi a fondo portati su tutto il fronte dell’esistente. Tutto e vuoto e niente si salva davanti agli occhi del poeta. La morte è già nel nascere di ogni cosa. Niente resiste e tutto brucia o si dissolve perché questo è il luogo dove “nessuno è veramente” .
Per Ramella Bagneri non c’è neppure la speranza di un giudizio finale e collettivo. Non vi sono interlocutori, né messaggi da far pervenire per una proposta di salvezza. Siamo davvero davanti al negativo universalizzato dalla morte e al trionfo della concezione meccanicistica della vita., che coinvolge tutti, senza alcuna possibilità di fuga, nonostante le piccole felicità, e le brevi illusioni alle quali far ricorso per esorcizzare “ il luogo della paura deforme” dove qualcosa pure si scorge, ma sono soltanto / impronte, scritte oscure, arcane / segni non segni, forse labirinti”; tracce di ciò che già è stato e che non ha nessuna possibilità di rigenerarsi.
“Il suo è un mondo rigorosamente oggettivo. La fantasia opera a partire da un giudizio di annientamento della presenza dell’uomo sulla terra (come Soggetto), e delle possibilità future di ricostituzione. L’accedere storico è finito nel cul-de-sac di una palude dove pullulano solo germi mortiferi. Un poeta che, tra gli anni cinquanta e sessanta, piuttosto che dialogare col suo tempo (tutto proiettato nell’ansia dello sviluppo) si elegge a compagni di viaggio i poeti del tempo della fine (nonostante la pluralità delle ascendenze, non necessariamente limitate alla cultura mitteleuropea) si connette con questo nostro tempo di restaurazione e di crisi (di ristagno o blocco dello sviluppo) che ha restituito un potere inquietante a Hòlderlin e a Tralkl, a Baudelaire e a Eliot ,a Rilke e a Kafka, neutralizzati dallo strutturalismo a meri sistemi di segni linguistici.” . (Nota di Tiziano Salarei in quarta di copertina del volumeIl teatrino del mondo, di Giovanni Ramella Bagneri, Forum, QG, Forlì, aprile1984).

CORO

Niente può essere completo,
manca sempre qualcosa,
ma ecco la nave laggiù
e la vacanza è finita.

Prendiamo su i nostri quattro straccetti,
arrotoliamo i nostri sacchi a pelo,
è stata proprio una bella esperienza,
abbiamo visto quello che c’era da vedere:

non abbiamo visto quasi niente,
ma diventerà bello un po’ per volta,
quando saremo vecchi
ci sembrerà una favola.
Ecco la nave laggiù,
dondola dolce nell’acqua inquinata.
A bordo a bordo a bordo a bordo.

Non posso più lasciare questo luogo.

-Vieni via, vieni via:
non è posto da restarci a lungo.
Sei sceso nel profondo,
hai avuto la tua illuminazione:
che cosa cerchi ancora? Non c’è altro.
Altrove tornerai quello di prima.
Ma ecco sei già docile e quieto
e il viaggio fino a casa sarà dolce.

Quando saremo laggiù
ripenseremo a tutto questo.
Non ne caveremo forse niente
o forse , chi lo sa, qualcosa
che ci aiuti a tirare avanti un poco.
Non pretenderemo di capire.
Un sogno, forse, un ricordo, è già molto.
Noi, non siamo di più.

VOLPE E GATTO

Cercando le ossa, i due, incontrati
dove l’albero serpeggiante ha brevi,
piccoli bagliori crepitanti:
volpe e gatta, goffe curve maschere
con bastoni da cieco e mantellucci
di tela di sacco, ragnata:
tendono il piattino, lo ritraggono,
ripetono una loro cantilena
che dice: “Non si parla più di te,
non si parla più di nessuno, qui:
ormai parlare è assurdo, qui si perde
consistenza, si perde tutto, qui:
anche tu sei già nebbia,
ti guardiamo attraverso”:
vengono avanti, zampine rattratte:
ma falsi ancora una volta,
pronti a scattare, unghioni duri, aguzzi,
manico di coltello da una tasca;
respinti frignano un poco;
“Non mi lascia cavare gli occhi, lui,
non si lascia striare:
ma crede di essere vivo,
crede di esserci ancora”;
se ne vanno, si voltano ogni tanto,
scendono per la china
fin dove sprizzano piccoli fuochi
azzurrini di rocce;
nebbia dissolta, cielo
che fiorisce di stelle:
vorticano scintille nel vento
gelide stelle bianche palpitanti,
compongono figure geometriche;
ora come una frana,
cielo vuoto, di nuovo
gremito, un luccichio che brucia,
le voci dal basso : “Tu, ci sei?
No, qui nessuno è veramente”.

DOPPIO CANTO D’AMORE

(A)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
uscirò sotto la pioggia a cercarti una corona
di ortiche e penne di corvo e un manto di carta di giornali
e, preso l’anello regalo trovato nel detersivo,
ti condurrò a un altare ornato di corna di becco.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
con una borsa di tue fotografie proibite
andrò a propagandarti per i quattro punti del mondo
finchè tutte le camere le cucine delle casalinghe
non siano piene di strilli e di pantofole scagliate.

(B)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
mi alzerò dalla panca all’angolo del camino,
mi toglierò il grembiule cenerentolo,
mi laverò la faccia e mi riavvierò i capelli
e farò passi di danza fino a te.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
tornerò al mio cantuccio e spingerò via il camino,
mi leverò il vestito da ballo e le scarpette di cristallo,
m’infilerò i blue-jeans e accenderò il televisore
e aspetterò che venga qualcuno più bello di te.

(A)
Se ti amerò, da mattina a sera sarò in giro
a cercare fuscelli per il nido,
ti coverò le uova perché tu prenda respiro,
insegnerò ai pulcini a far pio pio
e sarò tutto fiero e soddisfatto di me.

Se invece non ti amerò, butterò all’aria il tuo nido,
non ci saranno più uova e tanto meno pulcini,
ti beccherò e ti caccerò via,
poi sul ramo più alto starò io
a fare in modo che non torni più.

(B)
Se ti amerò, ti darò da mangiare
sempre la stessa minestra, ma con una tal grazia
che non sentirai più bisogno d’altro,
e se alla fine sarai grasso e sazio,
sarò tranquilla e sicura di te.

Se invece non ti amerò, quella minestra
diventerà un’acquaccia mal salata,
buttata lì senza un minimo di grazia,
sbrigarsi perché poi c’è da fare altro,
e se non sei contento prenditela con te.

(A)

Da gennaio a dicembre ti amerò per il sì
e ritornando indietro ti amerò per il no.
Ti amerò con la pioggia e con la neve ,
col caldo e il freddo e il bello e il brutto tempo.
Amerò in te ciò che passa il convento,
quello che prendi perché non c’è altro,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.


Amerò in te gatta e capra e gallina,
quella che morde e quella che ti becca,
quella che graffia e quella che t’incorna.
Amerò in te la notte e il giorno,
ma così rassegnati tutti e due
che non mi accorgerò nemmeno della morte
quando verrò a riprendersi la museruola e la catena.


(B)
Dal lunedì alla domenica ti amerò per il diritto
e ritornando indietro ti amerò per il rovescio.
In ogni settimana mese stagione anno ti amerò.
Amerò in te ogni mia sconfitta, ogni vergogna,
il brutto della vita, il disgustoso,
ciò che si vorrebbe dimenticare,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.

Amerò in te il caprone, l’asino, il topo e il pidocchio,
il viscido, lo sporco, ciò che ti salta addosso
e mai riesci a scrollare da te.
La paura, il sonno della ragione.
Ciò che ti rode, ti strania e ti svuota.
Alla fine sarò così contenta di morire
che quasi non sentirò cadere a terra la catena.


DON GIOVANNI

L’aria greve, rossastra ,aveva lampi
e nembi si addensavano su quella
fine di settimana. Risalivano
soffi caldi la valle accesa e rombi
attutiti, da un indistinto inferno,
si protendevano. Sopra
poi piombava la notte.

Si riscosse ed accese
a sigaretta. Poi fissò una luce
angolata, in un brivido, e gli chiese
l’ora. Il tempo moriva: sprofondava
torpido (-siamo vivi
come morti-) nel luogo: case
di cartone, palazzi
altissimi, campagne,
il riarso vallone del giudizio
e penitenti in bianchi paesaggi
invernali rigati di acque gelide,
immagini di copula e parto,
travolte, ora pianure e treni fino
alla sala da ballo, corpi come
torce accese, qualcosa che bruciava,
si contorceva, un atto di possesso
e ritmici tamburi, come cuori,
nella nebbia, brandelli di giornali,
in una piazza un comizio; nel luogo
sdoppiato, lei nervosa,
luce radente sugli occhi, parole
rapide, lui con la catena al collo,
quieto, forse felice, nell’ombra
calda, automobili ferme, qualcosa
da acquistare, possedere e squilli
di cornetta, feroci,
da sala da ballo,
giardino di delizie, vuoto dietro,
il Demonio e la Morte
in una superficie liscia, fredda;
invecchiare con faccia senza rughe;
corpi elastici, eretti
una maschera in faccia,
catena al collo: il tempo
divampava, ardeva lingueggiando,
contorcendosi: e ancora
quel torpore infinito,
giù nel pozzo delle delizie, immersi
in un vento in un suono sempre uguale,
la stessa nota tenuta, dolcissima,
acqua mossa, ninfee sull’acqua trepida,
larghe foglie sull’acqua,
gesti grevi: e la stella
cadente, l’ora affondata nell’ombra
calda, il materno battito di cuore
nella notte estenuata, lunga,
popolata da sogni, regredendo,
nebbia e nebbia, gente per una strada,
fuoco dall’alto, la notte materna,
la punizione, oh la punizione,
catena al collo, sognando,
maschere nel luogo vuoto dietro.

- Questo è tutto: il futuro è incerto ed io
non posso vivere così. Una qualche sicurezza
e sempre meglio di niente. Ti seguirò in capo al mondo,
ma una casa è una casa
e un anello al dito è pur qualcosa.

II
(Nella casa)

Questa è la nostra casa,
la bella ,solida casa
dove potrai vivere tranquilla.
La bella casa sicura
con le finestre aperte sulla strada
per guardar fuori la gente che passa
per guardare il traffico fluire
guardarti la civiltà
far passare il tempo in qualche modo,
o accendere il televisore.
Seguire il tuo programma preferito,
con le spalle protette,
al calduccio d’inverno.

Qui c’è il televisore
e anche il frigorifero,
c’è la cucina elettrica
e la lucidatrice e il frullatore
e il giradischi con gli ultimi successi.
Ti ho comprato tutto, proprio tutto.
Potrai vivere bene,
almeno fin che dura.

Fin che dura? Come fin che dura?

E’ così. Ti sbatteranno fuori
e non protesterai nemmeno.

- Tu dici fuori di qui?
Chi mi sbatterà fuori?

Tutto quello che c’è dentro.
Tu credi che una casa
sia fatta solo per te.
Una casa è una casa
e tu sei solo una donna.
Se non obbedirai,
ti sbatterà sulla strada


Non mi sbatterà sulla strada.

Dovrai lasciarla sfogare
E poi chiedere scusa.
Una casa è una casa
e noi siamo di troppo.
Da queste parti è difficile vivere.
Occorre rassegnarsi, amore,
perché ne abbiamo bisogno.
Forse, una volta o l’altra
ci brucerà il paglione
e allora sarà finita.

Perché? Finita?
Perché non siamo niente.
Poi verrà qualcun altro e sarà uguale.
Non siamo proprio niente.
Gente che va e che viene
e che non può mettere radici.
Una casa sente queste cose
e allora ti brucia il paglione.

Non voglio andarmene di qui.
Ho lottato tutta la vita
e non mi lascerò cacciare.
Dovremo fare qualcosa.

La lasceremo sfogare,
poi torneremo con la faccia allegra.
come se non fosse stato nulla.

Non possiamo vivere così.
Questo non durerà a lungo.
Occorre essere forti,
dire quello che pensiamo
Tu credi che una donna
non sappia ciò che vuole.
Volevo un anello e ce l’ho.
Volevo una casa e ho anche questa.
Saprò farmi obbedire in un minuto.
Lascia alla donna il suo posto
è fatta per queste cose.

- Ti brucerà il paglione.

Non me lo brucerà.

La prenderai di punta
e ti farà filare.
Una casa è una casa:
chi non si adatta va fuori.
Poi fai la barba e rientri,
ma trovi tutto cambiato
e nemmeno più di tuo gusto.
D’altronde non sarai la prima.
Qui succede sovente.

- Che succede? Che succede?

- Quando ti sbattono fuori,
puoi rientrare dalla parte sbagliata.
- Io non mi sbaglierò.

- Ci farai l’abitudine.
Tu credi di essere davanti
e invece ti ritrovi dietro.
Aspetti di vedere il traffico
e invece non passa nessuno.
C’è solo un vallone di cespugli.

- Un vallone di cespugli?

- O forse è la parte giusta.
Quando rientri, non c’è niente.
Allora accendi il fuoco
e metti i panni ad asciugare
Tireremo avanti in qualche modo.
Coltiveremo la terra,
alleveremo bambini,
almeno fin che dura.
Quando sbaglierai entrata
non ci farai più caso.
Ogni tanto di qua,
ogni tanto di là:
in fondo non c’è differenza.


- Non coltiverò la terra
e nemmeno laverò i panni.

- Coltiveremo la terra
alleveremo bambini.
Quando siamo di qui
è già molto se si mangia.
Ci guadagneremo il pane
col sudore della fronte.
Andremo a dormire presto.
Ascolterai la notte
dilavata. Andrai fuori
se lo vorrai. Non sei la prima che
vi resista.
- Resistere?
- Resistere. Questo è
il luogo della paura deforme
che strepita e impedisce di pensare.
Qui si vive in attesa,
qui si stenta e si spera
di andare via, qui sale il freddo e c’è
chi urla a lungo e ha sempre fame e sete
e di notte si leva dal suo angolo
e ringhia e raspa sulla porta se
nessuno scende: questa è la mia parte
d’eredità e la tengo preziosa.

- Chi è? Chi è?

- Qualcuno , e tutto. Sono due, e tutto.
La Morte e il Diavolo.
Vivono qui da tempo. Sono amici.

- Io non li voglio per amici. Dove sono?

- Nella stalla.

- Nella stalla?

- Ruminano in pace
e mi dànno da vivere e ne ho cura.

- Io non ne avrò cura. Tu, ci penserai.
Anzi, no. Dovrai mandarli via.
Voglio dormire tranquilla.

- Tu non dormirai.
Io non dormirò.

- Perché? Perché?

- E’ così: non dormirai.
Io nemmeno.
Noi non dormiremo né qui né fuori,
potremo al più ripararci dal freddo,
perché quando la Morte ha fame
e il Diavolo ha sete,
perché quando hanno fame e sete
e la Morte urla
e il Diavolo risponde,
e il Diavolo urla
e la Morte risponde,
fanno un frastuono per la casa
e raspano sui muri e sulla porta
e cercano la botola per salire
nella stanzaccia dove stiamo col
lume acceso e rabbrividiamo stretti,
e gridare non val nulla perché
quando vogliono balzan fuori e corrono
per la terra e nessuno può fermarli:
poi tornano quieti
e se siamo fuggiti
ci vengono a cercare.

MA DOVE SONO
LE OSSA DELLO SCRICCIOLO?

Nel luogo oscuro, basso,
la domanda, in affanno,
sempre la stessa, insistente.
“Dove sono le ossa dello scricciolo?”.
Poi le tre piccole piume
portate fino a me
da un breve soffio rischiarante.
Cercare ancora, ancora, ancora.
Non ci saranno ossa qui,
non ci sono mai state.
Ma dove sono le ossa dello scricciolo?
Il percorso segnato
che rade gocce di sangue
fino al cespuglio spinoso,
fino alla pietra piatta, a niente..
“Dove sono le ossa?” Sono qui.
Cerca bene, cercale a lungo, a fondo.
Ti diremo acqua, fuochino fuoco.
“Ma cerca bene, cerca bene,
perché se non le trovi
anche tu sei in bilico