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sabato 7 novembre 2015

ALBERTO MARIO MORICONI

ALBERTO MARIO MORICONI
(1920-2010)


IL CASO ALBERTO MARIO MORICONI
di Mario M. Gabriele

Di tutti i fatti e i misfatti compiuti nella lunga storia delle omissioni, tra i tanti nomi illustri o pochi noti, ricordiamo Testori, messo al bando più per la sua fede cristiana che per i suoi scritti, o ancora Sinisgalli, Bigongiari, Parronchi, Accrocca, Pierro, e quelli dell’area marxista presenti in La giovane poesia di Enrico Falqui, e i tanti polverizzati dal tempo, appartenenti alle varie generazioni: la quinta, la sesta, la settima ecc. tutti desaparecidos abbandonati nelle loro patrie regionali, o extraoceaniche e ai quali nessuna antologia o storia letteraria, si assumerà mai il compito di dare onore e giustizia.
Qui, tra i tanti esempi ricordiamo anche Alberto Mario Moriconi, mal tollerato nell’ambiente campano fatto di poeti bizzosi e individualisti.
Desiderando in questa sede superare il discorso di una eventuale linea napoletana, che non si addice al Nostro, per ragioni estetiche, tematiche, psicosoggettive e quant’altro, ci pare giusto collocare Moriconi (1920) nel diagramma delle voci metasperimentali, di carattere trovadorico, storico, aedico ecc.
In quest’area Egli si distingue per il vitalismo linguistico in cui l’ironia e il sarcasmo si associano ad un persistente stato di verifica dei dati presi in esame e provenienti da un protocollo poetico storico e contemporaneo, sottoposto a continue indagini e prelazioni di verità. Da qui l’uso del significante dalle diverse affinità culturali: un vero e proprio assemblage di tecnica letteraria e di coesione con i ritmi popolari e giullareschi, fino a trovare le ragioni di una poesia estetica ed etica, giocosa e malumorosa, che rimettono in gioco i segni del mondo e un pessimismo esistenziale come nel testo Fortuna del volume Decreto sui duelli, Laterza, 1982, /Caddi io, così; da zero al doppio / zero: versi che ci riportano al principio delle irreversibili conclusioni riduttive del nostro essere qui e ora.
Che sia questo un carteggio di un poeta con una visione umana del mondo, non ci sembra un’ipotesi azzardata, specie se andiamo ad esaminare il volume Dibattito su amore, Laterza (1969), che è un’appassionata esposizione di fatti ed eventi di cui il testo La tedesca al bosco calabro ne è un vivo esempio di speranza e sacrificio: un dilatare del sentimento come momento di sogno e di fede con ”gli occasionali eroi e le altrettanto occasionali vittime illustri e umili, innocenti e no, che sono chiamati dal poeta a testimoniare, o confessare, con lui, su altri punti, le solitudini, le viltà, le protervie, i furori dell’homo sapiens ormai onnisciente”. (Paolo Ruffilli Q/G. nn.37-38, luglio-agosto 1977, pag..57).
Su un piano generalmente epico si colloca Un Carico di mercurio, Laterza (1975); titolo di forte impatto ecologico, che non disdegna il senso di denuncia contro l’ambiente e il potere visti come soggetti primari nel testo Le inquinatore,pag.118, dove meglio si concentrano le forme del degrado. Tutto il volume è un autentico repertorio di occasioni poetiche millimetrate nella lunghezza della realtà in un procedimento verbale incisivo e autenticamente originale. Decreto sui duelli, Laterza (1982) è un ulteriore esempio e riconferma di una scrittura dal ritmo narrativo, dai diversi piani espressivi caratterizzati da commedia e tragedia, orrori e crudeltà storiche, con un suggestivo ricordo del sacrificio delle masse nomadi, come risulta nelle tre sezioni del testo dal titolo Nomadi, pag.7, anche se si tratta di storia datata, ma mai inattuale e sempre iscritta a futura memoria: ”convennero, compresse…./ in vagoni / piombati / ad Auschwitz, a Dachau… / Sempre cantarono, ballarono, incitavano, / fuori delle baracche, i bimbi, / malritti, scheletrici, / ai balli /, prima che in fumo migrassero al cielo”.
La poesia di Alberto Mario Moriconi può essere paragonata ad un diagramma supportato da un trend linguistico, che difficilmente trova assestamenti in basso verso una stasi cronica dell’azione verbale. Del tutto personale è l’attitudine ad attualizzare gli eventi esterni, attraverso l’uso reiterato degli attacchi ludico-satirico-epigrammatici, sfocianti nel più generale senso critico della riflessione morale, larvata o sottintesa. Sue ed uniche sono le frammentazioni sintattiche per accedere in diversi campi oggettivi e riportare allo scoperto temi e personaggi, sempre al centro di situazioni drammatiche in una fitta serie d’interventi stilistici, tra citazioni e allitterazioni, scambi plurilinguistici e reportages cronachistici, che vanno a caratterizzare i racconti poetici, correlati alla storia passata e a quella recente.
Ed è proprio questo il senso degli stili e dei generi letterari di Moriconi proposti in tutti questi anni, che gli hanno consentito di duellare con la poesia, con la punta dell’ironia sostanzialmente riflessa anche nel volume Il dente di Wels, Pironti (1995), che si apre ad una piccola Commedia umana, come Nella casa del Libro (Lamento a quattro voci), esposta a rappresentazioni postume, riguardanti il consuntivo della vita del poeta e il senso dello scrivere versi, il vano scrivere come dice lo stesso Moriconi: tutto un librosario da sradicare post mortem da parte dei sopravvissuti:“S’io morrò (Dio non voglia), appena fatto, / voi spianerete le costole /dei miei libri) ai vostri / muri, dico te, mòglietta, e figli; vi dite: / “Se, appena, costui sarà….ito / (oh possiamo parlarne senza scrupoli, / mica intendiamo eliminarlo, mica / l’avremo avvelenato, noi) – ne parlo! – diroccheremo quest’anomalia, che ci attanaglia / e soffoca, di casa nostra,/ sradicheremo il librosario / estirpo qui tu estirpa là”, ma è anche un messaggio di arte e vita, natura e storia, virtù e fortuna, come si legge in quarta di copertina.
Il volume affronta i fatti e i misfatti della Storia, tra inni goliardici, happening poetici e cronache di delitti eccellenti, che si vengono a realizzare all’interno di una poesia costituita da elementi espressivi diversi; gli stessi che troviamo in: Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti Pironti Editore (1999); assieme ad un piccolo album di ricordi di scrittori che rispondono ai nomi di Li-Po, Leopardi, Laforgue, Pindaro e Rimbaud, con l’autore medesimo, che con vario animo, tono e metro, li ricorda e si ricorda. (Nota editoriale). Esemplificando al massimo i giudizi espressi dalla critica sull’opera di Moriconi, riportiamo quello di Giuliano Manacorda apparso su Rinascita del 13 marzo 1970: “Non molti sono in Italia a coltivare, ad alto livello e come accento normale del proprio poetare, la poesia satirica. Moriconi lo fa con quel piglio sarcastico, con una tale imprevedibilità di sortite e una così ricca fusione di temi seri e del loro rovesciamento, da poter essere considerato forse un caso unico. In realtà, la definizione di poesia satirica, dice assai imperfettamente nei confronti della sua produzione, che è cosa assai complessa” .
Sulla poesia di Moriconi si può discutere a lungo circa l’uso dell’ironia di fronte agli orrori o alle cronache storico-sociali, ma non si può negare che in merito ad alcuni elementi seri, come per esempio la morte o l’ingiustizia, o ad altri temi di più ampio interesse, vi sia un forte sentimento umano che traspare più di quanto si pensi o si legga nei suoi volumi.
Moriconi ha posizionato la poesia su parametri linguistici che ci riportano ad un raffinatissimo aggancio con la letteratura popolare, i cui testi ci inducono a rimarcare un giudizio di Armando Maglione nella sua relazione sulla poesia a Napoli negli anni Quaranta, quando rileva già da allora, l’interesse di Moriconi per la realtà sociale, la cronaca e la storia, che animano quella sorta di “drammaturgia” poetica, moralmente risentita, e stilisticamente contaminata e trasgressiva che sarà la sua personalissima cifra confermata nel corso del tempo in tante short stories che sono libri di vita inseriti autonomamente nel complesso e variegato mondo della poesia italiana.

Alcuni testi di Alberto Mario Moriconi:

La mosca di Lindbergh

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota
della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico:
quello che pochissimi sanno è che egli ebbe
a bordo del fragile monoposto – lo Spirit of St.
Louis – un’importante passeggera: dico una mosca.
.
La prima clandestina che trasvolò
New York-Paris, quella cosina,
il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,
un bambinone
biondo, una brunettina,
che dal quadrante (mossa da fame?)
dell’altimetro, tutta un tremito
e minutina come è
un dittero,
lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse
gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,
le immense lingue e schiume d’azzannìo….
(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:
la forosetta, del Kansas).
Ma il bambinone
abbozzò,
la ignorò, trasse due sorsi dal termos.
La clandestina s’occultò.
“ E stia..”
il primo “ New York –Paris”
cartone e spago
-come una vecchia valigia –
e spirito di Saint Louis
“ Stia stia, Miss. Due alucce non guastano
in più, di riserva al mono-
plano, al mono-
posto, al mono-
motore: solo bi-
pala l’elica.
E or la brunetta bïala “
rise Charlie, cercandola: “Via via,
Miss, esca. E mi dica,
che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì
graziosa e ardimentosa vola brunetta?”
soffia
soffia sull’acque,
spirito di Saint Louis,
cartone e spago
Or la compagna di Lindbergh dormiva
cinta di stelle, obliosa di tele
di ragno, che forse fuggiva
dal Kansas, da New.
E a lui, l’aquila
giovane, ancora ignara
di ragne, più truci, umane, (1)
un punto
lui solo di sangue e d’anima
sopra i notturni oceani,
ebrïetà
eterëa di stelle e sogni;
e il pulsar dei pistoni, docile faustamente
monotono, oramai
ammalïava, il remeggio fluidissimo,
a un puerile sonno…..
si riscoteva
picchiando a dritta
e a manca l’ala,
o evoluiva libellula
l’aquilotto
e canticchiava un’arietta di favola
western, di carovane.
Ventinov’ore, due sorsi al termos.
Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.
Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,
lenta la cloche, all’acque,
ma dolce cala
spirito di Saint Louis….
Guizzò, ella! via su!…
Rientrò:
lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì
gli occhi lui abbrancò
la cloche.
Digrignò
le schiumose mandibole l’Oceano.
E a dritta dell’aquilotto fiorì
un primo gabbïano,
e altri
e altri,
bianco di sé scriventi in cielo “WELCOME”.
“Ci siamo, darling,ci siamo, baby….
no, bébé, à Paris. Thanks – no, merci –
amica mia…ma come
ti chiami?… Laggiù! laggiù!
è Le Bourget, bébé !”
Trionfò
la bionda aquila degli oceani.
– Il nome,
però, almeno, della compagna….Sparì. –
Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:
lei vi sparì.
Chi sa se la mosca del Kansas
trovò chi cercava a Paris.
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(1) Cinque anni dopo patì il rapimento e l’uccisione del figlioletto.

Fortuna

Gridar “Fortuna! ficca
un chiodo d’oro nella tua ruota” (1)
non potei, non la scorsi
neppure girar la ruota. Quando
godetti l’attimo
– vorticare
vorticare il suono
d’essa non colsi –
lo volli merito
mio: nessuna
bontà del Cielo, sull’idiota
nessun influsso
di luna
Cade così l’impero
a uno scettro ebro di sé, derisi
gli astri:
così l’Empire
all’ivre
Empereur, (2) all’impérieux
mépris.
Caddi io così : da zero al doppio
zero.
E ricaddi. E sempre,
col mio sprezzo, nel mio stazzo,
ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo
in me, e che sia
virtù una cosa, e uscir dal brago stia
in me:
mai
mi son visto tuo ragazzo,
guercia.
(da: Decreto sui duelli, Laterza, 1982)
(1) Così un personaggio di Lope de Vega.
(2) Napoleone.

Piromani d’agosto
Nell’aria, un pianto…..d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
Zvanìi Pascoli “La quercia caduta”
Evoluivano pazzi fischiavano
intorno ai due alberelli fatti torce
nugoli insupponibili d’uccelli.
Allo sconvolto strido,
accorsi, d’alcuno di loro,
padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido
arso e svanito.
Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio
crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica
musica, una scomposta rabbïosa farandola
di ali e ali, quanti….
I due incendiarii
di più si ritraggono,
ma più eccitati, il perché si domandano
di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,
perplessi un po’….”turbati: non sospettano
il nido incenerito”. Che hanno fritto.
“Chi poco cuor sortì cuor non sospetta
in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,
i tuoi, qui, uccelli i tuoi….!” (*)
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(*) I terribili pennuti del film “The Birds”.

Alberto Mario Moriconi, nato a Terni, il 26 gennaio 1920, morto nel 2010. Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti di Napoli, collaboratore letterario di quotidiani e riviste per “Il Mattino” ha tenuto rubriche culturali. La sua opera poetica: Vortici, rupi, mammole, Gastaldi, 1952; Trittico fraterno, Milano, Ceschina, 1955; Anno mille, Padova, Rebellato1958; Le torri mobili, Parma, Guanda, 1963; Dibattito su amore, Bari, Laterza, 1969; Un carico di Mercurio, ivi, 1975; Decreto sui duelli, ivi, 1982; Il dente di Wels, Napoli, Pironti, 1995; Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, ivi, 1999; Non salvo Atene, ivi, 2007. Sue poesie sono state tradotte in più lingue.

martedì 15 settembre 2015

LA POESIA DI MARIO M. GABRIELE CON UN INTERVENTO CRITICO DI GIORGIO LINGUAGLOSSA

Nel discorso poetico del tardo Novecento sono venuti a cadere le grandi narrazioni (della decadenza); restano i piccoli racconti dell’io solitario che accudisce la reificazione del discorso poetico ad uso privato del soggetto poetante (e mi chiedo quanta poesia dell’«io» che poeteggia intorno all’io abbia ancora un senso). La crescente inflazione di episodi biografici in poesia, che dovrebbero essere difesi dalla privacy e, se non altro, da un senso del pudore e di rispetto, almeno per il lettore (il quale ha almeno il diritto di non vedersi investito da confessioni eccessivamente pruriginose), va di pari passo con il crescente fenomeno di «de-realizzazione» del testo poetico oggi molto diffuso. Una volta abolita la cubatura spazio-temporale della versificazione, il discorso poetico si riduce ad alati aliti, disincarnati effluvi dentro una scansione narrativa che rende superflui e arbitrari gli a capo. La «derealizzazione» che ha colpito gran parte della poesia contemporanea fa sì che i contenuti di verità siano tra di loro indistinguibili in quanto contigui alla esperienze denaturate del «valore di scambio». Nei libri di poesia di autori anche acclamati si trovano un gran numero di esperienze virtuali, immaginarie, oniriche, insieme a quelle esperienze ad alto tasso di improbabilità statistica, che riscuotono una altissima percentuale di non accadimento.
Si parla oggi molto spesso di esperienze «non-reali», che l’autore non ha mai provato, delle esperienze del padre, del nonno e così via. Ma allora si scriva un romanzo! Ben più idoneo alla ricostruzione di una esperienza mai esperita. Nel romanzo questo è possibile, in poesia, no. Se nell’ipermarket tendono a scomparire i confini tra le varie tipologie di merci in un susseguirsi di produzione indifferenziata fondata sulla minima differenza e sul minimo scarto, si assiste al medesimo fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere, tra i singoli sotto-generi, de-vitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per trasformarsi in un «contenitore», un «palinsesto», tenda ad un «genere indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico e transpolitico:chatpoetry, pettegolezzo da lettino psicanalitico (Vivian Lamarque),pettegolezzo da intrattenimento ludico-ironico (Franco Marcoaldi), flusso di coscienza reificato e disconnesso, utopia agrituristica, monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione intellettuale per assecondare gli utenti di una cultura di massa (Valerio Magrelli). Ma il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1 afferma Vattimo; ma se la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del Progresso e alle istituzioni culturali che in tutto il Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno.
Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso. Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità» (come il concetto del «nuovo») è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è l’unica situazione immodificabile dalla quale bisogna ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico significa porre stabilmente il Discorso poetico entro le coordinate della sua collocazione post-moderna.
Per Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 2
Possiamo allora affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero. Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al Discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.
La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni. Queste poesie di Mario Gabriele partono da qui, sono il tentativo di ripartire dal significato di una immagine come effetto di superficie ed effetto di lontananza. Che cos’è l’effetto di superficie? Qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario: l’essenza, la coscienza, e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie», relitto linguistico che galleggia nel mare del linguaggio, il reale subliminale che sta appena al di sotto della superficie della coscienza linguistica. Non bisogna con ciò intendere, né vorrei darlo ad intendere, che il senso sia qualcosa di diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se fosse un segno o un sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro che ha contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa); né bisogna intendere la stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile», ovvero, non modificabile almeno per un certo periodo. Infatti, mi chiedo, può esistere qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale? – Ciò di cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, appartenente al sensorio (e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il senso abita l’immagine, il significato, ovvero, il sensorio? Forse. I personaggi delle poesie di Mario Gabriele sono gli equivalenti dei quasi-morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito (le categorie dello scambio simbolico), essi sì che corrispondono allo scambio economico-monetario al pari delle pagine di un medesimo foglio bianco che attende la scrittura. Al pari della moneta anche la parola poetica vive ed è reale soltanto nello scambio simbolico (ma qui il discorso si allungherebbe) . Anche se è da dire che nel tessuto fisico-chimico di questa poesia penetrano (osmoticamente, e quindi ideologicamente) lacerti, lemmi e immagini del linguaggio poetico orfico che si sono sedimentati appena sotto la superficie del testo, indebolendo (più che rafforzando) il passo della sintassi (claudicante in quanto non più originaria, non più ordo rerum né piùordo verborum).
«Effetto di superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze il senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma è un evento, sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di frammento (in rovina), ed è il prodotto di una «assenza» costituita (non originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio elegiaco o la poesia che si aggrappa agli «oggetti» come un naufrago al salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello «Spirito», non c’è nessuna «utopia» che ci riscatti dal «quotidiano» o dal viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffé, un aperitivo e un chinotto, o in un improbabile bosco con tanto di margherite e vasi di geranio ben accuditi). La poesia di Mario Gabriele non sfugge a questa problematica, ci sta dentro come nel suo elemento marino.
1Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 p. 114
2 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21


mercoledì 2 settembre 2015

Inedito 2015

Dura  ancora  questa vita di luce crepuscolare.
Nietzsche, perdute le scarpine, 
se ne sta solo nell'al di là,
dove brilla qualche lume
senza Cristo ed Ezechiele.

Madame Debussy 
cerca nel Getsemani
il pane dell'Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete. 

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio  e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il  Nasturtiuns With The Dance del 1912:
un secolo di arrivi e partenze, di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.


Mario M. Gabriele

domenica 16 agosto 2015

IL MONDO DELLE ANTOLOGIE E ATTUALITA’ DEL SELFPUBLISHING

IL MONDO DELLE ANTOLOGIE
di Mario G. Gabriele
Antologizzare un periodo della nostra letteratura, pone ai curatori non pochi problemi di coscienza e di comportamento critico informativo, specie quando l’esame ermeneutico colloca in una zona di invisibilità autori validi e di lunga militanza, esautorati da una regia manageriale rivolta sempre di più al profitto che alla realtà storica presa in esame.
Nel suo fortunato -Repertorio della poesia italiana contemporanea: Febbre furore e fiele, Mursia, 1983 – Giuseppe Zagarrio pone in essere un principio etico di chiara rilevanza, che dovrebbe funzionare da password per molti critici interessati a redigere – storie letterarie -. Infatti, nella sua relazione conclusiva, Zagarrio dichiara che “Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come i codici della giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque anche della loro utilità. Sempre che non pretendano di essere strumenti esaustivi della realtà e soprattutto non diventino operazioni politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio”. Quindi “no all’antologia per quel che è di elitario, parziale, autoritario, e sì alle tante, tantissime antologie in funzione di quel no”.
Purtroppo, a questo lodevole auspicio non sono seguiti segnali di ripensamento e di operatività critica, da rimodulare la topografia poetica del centro e della periferia. Cosicché assistiamo ad un reiterato – vulnus- che esaspera e inganna i lettori più avveduti ed esperti. Ne viene fuori un panorama letterario e poetico, con rifiuti e annessioni, di difficile accettazione, da quando la critica si è -chiusa nell’ambito accademico e del microspecialismo -.“Gli anni Sessanta coltivarono l’illusione che si potesse trovare a collaudare un metodo scientifico di analisi dell’opera letteraria; ma quella ipotesi,, non trovò una vera conferma, e dopo tanto laboratorio e collaudi di strutture, pian piano si lasciò perdere.- “Quella ipotesi, afferma Mario Lavagetto non aveva fondamento. La critica non è una scienza nel senso corrente del termine. Si fecero poi le cose più strambe accreditando una critica tematica, che naturalmente svariava ragionando sui temi più strani. Poi è subentrata la moda dei canoni, che sono in fondo classifiche d’alto bordo e comunque territori dai confini incerti e variabili. Poi l’accademia, che ha desacralizzato ogni forma di insegnamento, non sa che farsene dei critici, poco funzionale a corsi svelti e a testi di poche pagine possibilmente riassuntive”.
Avvenuta la scissione della critica dal potere editoriale, la metodologia pseudo informativa, si è così – istituzionalizzata – inserendosi autonomamente nei mercati librari, vuoti di storia letteraria.
“Un’antologia, è pur sempre un arbitrio, secondo il pensiero di Enzo Siciliano, “e non c’è criterio di presunta oggettività che possa giustificarlo”. Sono molte, infatti, le – premesse – poste ad apertura delle varie storie letterarie, che in vario modo, tentano di supportare l’autore e la sua ipotesi formalistica, spesso attraversata da presunte o pretese – irregolarità – che lasciano nel tempo l’omologazione della imperfezione, attraverso l’ondata delle rassegne di letteratura, dei canoni, della critica monografica, e di quant’altro asservito ai cosiddetti movimenti o periodizzazioni.
“Il critico, -scrive Giacinto Spagnoletti nella sua Storia della Letteratura Italiana, Newton, 1994- non è che un testimone, al quale sono concesse tutte le possibili interpretazioni, anche quelle che denunciano la sua pochezza d’intuito, e l’obbedienza ai luoghi comuni. Ponendosi dal suo punto di vista, sempre incapace di abbracciare l’intero orizzonte, si possono subito stabilire i suoi limiti, culturali, metodologici, di informazioni e di analisi.” Purché, aggiungiamo noi, non si faccia del pregiudizio intorno a coloro che non hanno avuto la fortuna di essere pubblicati da Mondadori o Einaudi, una regola discriminante, tale da farli dimenticare per sempre. In ogni caso c’è sempre l’idea della mistificazione che modula ogni evento critico strettamente legato al business imprenditoriale, che domina su ogni legittima richiesta dei lettori desiderosi di conoscere, ovviamente non in forma enciclopedica, il perché di tante estromissioni e silenzi.
Un’attenta analisi della faziosità che ha spaccato l’Italia, è stata esaminata da Roberto Di Nucci e Galli Della Loggia nel volume edito dal Mulino: Due Nazioni: legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, recensito da Giuliano Gallo sul Corriere della sera del 2 luglio 2004, dove emerge l’esistenza di una contrapposizione ideologica, più che sociale e religiosa. Non a caso lo storico Luciano Cafagna ha definito questo stato di cose con un sorprendente neologismo – la divisività – che non è nata oggi, ma che ci portiamo dietro dall’inizio della nostra storia di paese, apparentemente unito, le cui fratture hanno separato la politica e l’economia, la società e la cultura, e ciò che riguarda più da vicino la poesia, con le sue contraddizioni formali; un problema che esiste e il solo fatto di ignorarlo non aiuta a riportare a galla la verità, ma a far emergere le memorie tagliate, tanto è vero che si continua sulla strada del separatismo culturale, con le recenti operazioni editoriali pubblicate dal settimanale L’Espresso, in sedici volumi della Storia Generale della Letteratura Italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, che si sperava facessero un po’ di giustizia sui poeti desaparecidos, la cui dimenticanza è stata replicata nella Letteratura Italiana in diciotto volumi editi dal Corriere della Sera e nell’antologia La parola plurale pubblicata da Sossella, gestita da un team di otto curatori: Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublema, fino a dividersi la responsabilità e l’arbitrarietà (il corsivo è nostro), della scelta dei testi e degli autori, affermando che “ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione), è stata decisa collegialmente,” con buona pace di tutti gli altri poeti emarginati nel corso del Novecento, in cui non sono mancati modelli letterari oligofrenici, realizzati nel più completo caos della parola, a cui questa antologia tenta di porre rimedio attraverso un – proclama – della Forma, redigendo documenti di critica e di poetica su sessantaquattro poeti di diversa area territoriale, uniti da un criterio di selezione che dovrebbe far riflettere sul concetto di poesia, ridotto a fenomeno da baracchino e da ballon d’essai, da una – comunità ermeneutica che non mostra limiti nell’effetto-massa del pensiero critico e dei reperti testuali, prelevati in un arco di tempo- dal 1975 al 2005-, rimandando a future operazioni di omologazione i poeti degli anni Trenta-Quaranta, non antologizzati.-
Ancora una volta siamo di fronte ad una partnership blindata cui vanno contrapposte iniziative coraggiose, come quelle sorte a Nusco, per censire la vasta produzione letteraria del Sud, e rivendicare, giustamente, – spazi e credibilità nella cultura nazionale – reintegrando un patrimonio di voci, disperso da assurde arbitrarietà, “aprendo gli spazi a segnali forti, che provengano dagli intellettuali, dagli editori, dalle istituzioni, dagli amici lettori, se vogliamo essere protagonisti bisogna andare anche alla riscoperta della nostra cultura e della nostra poesia”, così come dichiarato da Paolo Saggese nel suo intervento – Per la poesia nel Sud -, su Secondo Tempo, Libro Ventesimo, pag. 94, che richiederebbe una lettura attenta per la specificità dei temi trattati, relativi anche alla compilazione di una eventuale Storia della letteratura degli esclusi, che non può essere il libro celeste di tutti i poeti vivi e di quelli morti, ma il dossier sui misfatti compiuti impunemente e giustificati da coloro che vivono al Sud e che costituiscono la colonna filonordista celata nelle redazioni dei Giornali per mettere sotto accusa ogni tipo di giaculatoria e di sconcertante meridionalismo critico inutilmente recriminatorio.
“Chi scrive poesie”, ha rilevato Adam Zagajewski, “si ritrova talvolta impegnato, in una difesa delle medesime”, a causa di continue delegittimazioni nel Novecento “che è stato il secolo ammalato di amnesie,” secondo un giudizio di Claudio Magris (in occasione della pubblicazione del volume di Barbara Spinelli – L’Europa dei totalitarismi, – Mondadori-), quando rileva che “la memoria è soprattutto giustizia resa alle vittime di violenza che la falsificazione ideologica cancella dalla coscienza o di cui deforma la verità”.
ATTUALITA’ DEL SELFPUBLISHING
Se aspirare ad una pubblicazione griffata diventa, per uno scrittore o un poeta un’avventura impossibile data la strategia programmatica delle Case editrici maggiori, impegnate ad un ritorno più che giustificato dei loro investimenti, allora non rimane che l’attualità del fai da te, o meglio del selfpublishing, che nella definizione letterale significa pubblicare da soli i propri testi.
Il fenomeno può essere definito per alcuni, editoria senza qualità, non avendo a disposizione la distribuzione del prodotto, che rimane l’unico modo per farsi conoscere. Tuttavia non è raro il caso in cui l’operazione porti a soluzioni per il richiedente, davvero ottimali. E’ il caso di tutti coloro che si autopubblicano, e che vedono coronare il loro sogno nel cassetto, con una modesta somma rapportata al numero di copie richieste.
Una indagine fatta dal New York Times Book Revev rileva che in America la “Authorhouse ha distribuito un milione di copie tra il 1997 ed il 2002, grazie alle nuove tecnologie digitali, che propongono edizioni significativamente decorose e a costi molto contenuti. Il meccanismo prevede che la pubblicazione su Internet produca dei commenti favorevoli offrendo all’autore la possibilità di contattare altri editori.
In Italia è ilmiolibro.it del Gruppo Espresso a offrire una significativa via d’accesso agli scrittori esordienti o di lungo corso con il selfpublishing, che consiste nella pura trasformazione di un manoscritto in volume, lasciando a chi scrive la scelta della sua eventuale vendita”.
Certamente i servizi offerti rispetto alla grande editoria sono diversi. Tuttavia se autopubblicarsi significa uscire dal silenzio e da un ghetto non più tollerabili, ricorrervi come approdo ad un’ultima spiaggia non è poi tanto disonorevole. Di questo sistema si sono avvalsi nomi importanti, come è avvenuto per “almeno tre best seller: La profezia di Celestino di James Redfeld, Eragon di Christopher Paolini e Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia.”
L’avvento di internet ha rivoluzionato il mondo della comunicazione, attuando una vera e propria mutazione antropologica dai risvolti imprevedibili, secondo i più esperti mediologi.
Ovviamente, non mancano voci dissonanti “trattandosi di un orizzonte che sembra dar ragione alle più fosche previsioni, anch’esse formulate negli anni Novanta della fase aurorale di internet dall’urbanista francese Paul Virilio in cui l’autore associa alla rete “l’ultimo atto di una guerra totale”. Al di là di ogni possibile catastrofe informatica e dell’uso improprio che se ne possa trarre, resta il fatto che siamo tutti sotto lo sguardo di“un grande occhio più implacabile di quello del Big Brother orvelliano”, e che milioni di persone stanno familiarizzando con l’high tech.
Nasce, come ha affermato lo psichiatra Tonino Cantelmi,”l’homo tecnologicus“, che vive di cellulare, di posta elettronica o di e-mail, ossia il digitalista, che non ha bisogno della linotype, ma della tastiera del computer per collegarsi on line con il resto del mondo, e nel nostro caso, con una community letteraria, che legge, registra, invia messaggi di riscontro, superando così gli obsoleti canali cartacei.
In La lettera che muore, Gabriele Frasca ha affrontato il problema della commercializzazione del libro, soffermandosi sul volume “Il Disperso” di Maurizio Cucchi, pubblicato da Mondadori, che a fronte di “una tiratura di 2.000 esemplari, di cui 100-200 sono stati distribuiti gratis a critici, amici, ecc e gli altri, presumibilmente, venduti in libreria o nelle biblioteche“, pone di fatto un problema già noto, che riguarda la collocazione della poesia nel mercato, dove i lettori interessati non superano le 500 unità. Discorso diverso per internet, dove si stima che l’utilizzo del web sia in continua espansione e che navighino circa“25 milioni di persone, (il 44% della popolazione) per oltre 80 minuti al giorno,con una crescita pari al 12%” come ha evidenziato in una indagine conoscitiva sul web Layla Pavone (AB), pubblicandola su Affaritaliani.it.
Il che non è poco, tenendo presente, che la poesia e la vita sono entrambe figlie dell’oblio e che anche in internet i corridoi di informazione sono diversi, secondo il grado di affidabilità.

Ma questo è un compito che spetta ad altri: all’uomo colto e tecnologico e alla community letteraria.