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lunedì 14 giugno 2010

Carlo Felice Colucci


UN FIERO TRACCIATO DI VERSI E DI SUONI BECKETTIANI

Prima parte


In uno dei suoi libri più recenti Tempo di bilanci (Einaudi), Cesare Segre si chiede se sono utili i consuntivi e se si può credere ancora alla loro funzione pedagogica in un tempo in cui l’umanità sembra rifuggire dall’esercizio della memoria cancellando quel che resta del suo patrimonio culturale e civile, dandosi alla fine una risposta negativa. Il fatto è che i bilanci letterari, al di là di qualsiai frenaggio pregiudiziale, sono una necessità culturale irrinunciabile, non potendo la critica sottrarsi al suo ruolo informativo, per ridursi, come ha affermato Romano Luperini, a chiacchiera impressionistica e mero intrattenimento. Questo saggio monografico vuol essere un consuntivo dell’impegno letterario di Carlo Felice Colucci; un poeta di lunga militanza che, nel suo congedo dalla poesia, così si esprime: “Una cosa ancora: è nelle intenzioni mie che i versi de “Il tempo del seme” siano gli ultimi che pubblicherò, seppure certamente continuerò a scrivere poesie: ché senza di esse la vita mi risulterebbe ancora più squallida e impraticabile. Ma dopo aver tanto scritto ed anche pubblicato, perseverare a dare alle stampe cose che quasi nessuno legge, non vale più la pena. Meglio interromperlo in tempo, questo “viaggio inutile”…. Meglio andarsene in punta di piedi, mentre vi è — forse — ancora nell’aria l’eco di qualche applauso, divenuto ahimè sempre più raro. Né credo, fermamente, di riuscire mai più a scrivere dei versi belli — almeno per me — quanto quelli pubblicati negli anni 70 e 80… E poi, combattere con gli editori è terribile! Oggi più di ieri”.
Certo è che “ogni rinuncia ha i suoi canoni”, come insegnava l’avvocato Clamence di Albert Camus:” può essere drammatica e farsesca, dolorosa o serena”, e quella di Colucci è sicuramente una decisione sofferta, che chiude quarant’anni e più di esperienza poetica, caratterizzata da un linguaggio, fluido ed ellittico, sul tema dell’assenza, con la citazione postuma “fate questo in memoria di me”, che ci riporta a certe gestualità da Ultima Cena, in un viaggio, contrassegnato da una mappa di messaggi laterali ad un discorso tecnico-scientifico, patologico?, anamnèstico?, rivolto ad una umanità condannata al disamore e all’oblio, come i due personaggi-giocatori, Hamm e Clov di Samuel Beckett, in Finale di partita, in cui gli spazi della vita si restringono nella loro inesorabile nullità. In questa realtà in frantumi s’innestano ologrammi di memoria, a cominciare da “Una vita fedele”, (1963), sebbene qui il paesaggio si esteriorizzi come metafora del Sud e radicalizzazione dell’elemento naturalistico e mentale. Ma è con “La pagaia” (1967) e “Placebo” (1975), e, in particolare, con i volumi successivi, che Colucci abbandona ogni residuo incantamento del territorio esterno, per accompagnarsi ad una poesia riflessiva, in cui Egli stesso svolge il ruolo di un giocatore perdente, di fronte al volgere di un’età, dove il senso riduttivo delle cose, è riportato con una scrittura introversa e di lutto permanente, con brevi pause nel ricordo, come approdo ad un paradiso perduto, dove la felicità è nel tempo ritrovato e solo, momentaneamente sottratto al suo inesorabile processo di autodistruzione.(Remo Bodei, in Destini personali, L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano Feltrinelli, 2002, pag. 131).
Tutto questo è ampiamente rilevabile nella sua poesia di ieri e di oggi, difficilmente cancellabile dalla nostra memoria, per via dei tanti incipit, che si distinguono per la loro originalità, come in “Preghiera occidentale“: un volume fondamentale per assimilare la poetica del Nostro, qui documentata: “E certi hanno profonde cunette / ho finito i gettoni, / altri i mocassini a punta / gambe di legno cuori d’anginosi / e svolto agli angoli del tempo, / di sogni siamo fatti / miei compagni cancerosi /”, o ancora : “Uno con due valigie grandissime / e mai sapremo chi, e cosa portasse / e il soldato che arriva trafelato / assieme a cifrati ordini matti / io sto solo invece, e non ho donne / o le serene monachine estive dal gelato innocente sotto i voti / chissà come sarà dopo tanto / né somiglio all’uomo dei lustrini / ma dentro un vecchio lessico infedele / un bastardo buono da odiare / con cura e nostalgia ragazzi / nati vissuti nel terrore, / chissà uno come farà dopo tanto / un diario di sistoli e diastoli / se manca perfino la memoria “ /, fino alle tante chiuse d’intervento autobiografico: “Ma in pigiama nessuno mi ricorda / nessuno crede che sia dottore / che abbia una paura più grande / pro e contro dentro e fuori fa buio / e so di non rispondere a tutto / solo rifarei il cammino a ritroso / lentamente, con estremi passi / dicendo a ognuno per sempre “/, realizzate con un linguaggio di carattere cifrato, franto ed emozionale, (diverso dalle sequenze surrealistiche, continuamente portate al limite del grottesco da Cesare Ruffato, un altro medico-poeta), per scandagliare le patologie umane, e ricavarne specifiche similitudini sul terreno dell’esistente, con retrospettive domestico-familiari: “Col rimpianto amaro degli orti / il pendolo tradito / a Natale papà viveva ancora / attento alla sua digitale in gocce”; versi che hanno il ritmo affabulatorio del racconto, quando i temi puntano su un Eden lontano, come approdo ad un paese di piccole cantine, racchiuso in un’arancia, con tanti spicchi di memoria, ognuno con un proprio elemento di rifrazione, modulato da un lessico attestante la fine delle illusioni e della speranza. Su questi parametri oggettivi si forma una poesia di grande amabilità, nonostante le spietate relazioni sugli aspetti residuali della vita, riproposti con criticità espressiva, tramite l’aggancio ad una lingua ironica e mitopoietica, alta, rispetto alla verticalità dell’ispirazione, (si legga, ad esempio, il testo dal titolo “Eurobarcarola” (All’Europa) da “Il viaggio inutile”, nel quale si armonizzano insieme, letteratura e poesia, citazionismo e plurilinguismo; ma ve ne sono tanti che meritano una doppia lettura e attenzione), e poi ancora, naufraga e superstite, erogatrice di pulsioni, immaginosa e reale, crepuscolare e nostalgica, transitiva e luminescente, eversiva nella costante dichiarazione del negativo, ma sempre coerente nei dati assertivi, correlati al paradosso dell’esistenza, come all’ossessione del conoscere del ricercatore, sembra poesia dell’assurdo, qui e là. Ma è molto altro. Più in generale, è un viaggio poetico di concretezza espositiva, alla ricerca di punti di fuga, per depressurizzare il negativo, subito dopo ricomposto in La bella afasia- Lacaita -(1983); “Memoria e fuga” (1987); “A fuochi spenti” (1992); “Il viaggio inutile” (2003); pubblicati presso le Edizioni del Leone e, ultimamente, ne “La Materia dei sogni” -Lo Spazio, Ed. d’arte, (2004), in “Io per le strade”, (Sabatia Editrice, 2004) e ne “Il tempo del seme”, Gazebo, (2005): volumi che testimoniano un’operatività poetica, compressa da una visione esterna, drammatica e inquietante: un vero teatro dell’assurdo, contaminato da continue prefigurazioni della morte, con tante piccole sentenze, in un pessimismo che “appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò l’universo con il male e ne rimpianse l’esistenza” (Giancarlo Rugarli). Si comprendono, così, certi esiti testuali, portati a incenerirsi di fronte alla realtà, e al gioco poetico dell’assenza e dello smarrimento. In questo caso, il senso critico del poeta, si scinde in mille atomi concettuali che, come ha scritto Giorgio Caproni di sé, sono “la condizione dell’uomo contemporaneo con sulle spalle un passato che crolla”e di cui si fa fatica a puntellare, tanto che anche nell’ultimo volume Il tempo del seme, Colucci rimarca le tracce di un viaggiatore cerimonioso, che ha dialogato con la Morte nelle buie stanze delle dissolvenze, attivando tutta una serie di contrappunti, fuori dall’orrido e dall’orrifico, per una ragione più alta: quella dell’umanizzazione del Nulla, per ritrovarsi, alla fine, solo, in un mondo sepolcrale alla Friedrich: a volte, tragico e romantico, ma di un romanticismo che si sbrina davanti agli stilemi e ai neologismi, mantenendo inalterato il proprio linguaggio testamentario e noir, intorno al tema dell’horror vacui; Lui “che dopo aver sfiorato e affrontato anche lenticolarmente gli esperimenti e le avanguardie letterarie del secolo, i loro parasintattismi e i loro iposintattismi pur volando basso, ha preso proprio, ineluttabilmente a volare alto. E certo, non da ora” (Marco Forti). E qui come non citare qualche verso da “Il tempo del seme”: Dovevamo imparare a vivere, noi, / e a morire per essere uomini / a non sentirci Dio, Universo, Luce / quando scrutavi il mare, isole perse / e sapere che l’Atlantide non c’è, / padre come l’ombra che a notte viene / e che non sa, o come il mio doppio per vie / remote e sempre più anguste le porte / ove per traverso bussava il vento, e / capire dovevo chi sono e dove / entrare nel gioco di suoni e foglie, / imparare tutte le voglie strane / il taglio del cordone, una festa, / complimenti, ossequi di vetro, gli addii / quei rochi ebbri ritorni di gabbiani, / l’isola di Arturo qui dovevamo / imparare il pudore violetto, occhi, / pescare nelle sfondate borse, ime, / sigarette e Upanisad quelle sere / invernali (il nastro più non scrive ormai), udire in silenzio di nuovo il cigno / l’ultima sinfonia della partenza / (tango, vivir y morir abrazados,) imparare ad essere il dottor Niente. “Da questo luogo tutto interno e invisibile della sua scrittura in cui dopo aver a sua volta superato un lungo percorso sobbalzando, caracollando, irridendo, inseguendo, contorcendosi e, citando, sacrificando al giuoco sempre mutante della modernità un tenace sentimento poetico: al momento di cantare, di coglierne i simboli in verticale, lo sfida, lo suscita, lo risuscita e lo fa agire sì con forza e furore “(Marco Forti), prima di immaginarsi solo come Malone, col poster d’una vita in due, in tanti / i fiori secchi della ricorrenza / e poco altro, poco. Ed è proprio in questa plurale oggettivazione del dire che si evidenzia l’identità poetica di Carlo Felice Colucci, espressa su un tracciato di versi e di suoni beckettiani, su cui si vengono ad accumulare le fobie esistenziali e i ritmi, percussivi e grotteschi alla Günter Grass, dei tamburi di latta: emblemi di un mondo larvale, fino a denunciarne le cadenze d’inganno, accelerate nella sintesi e nello scatto figurativo, di fronte al martellante remember me, aspettando, inutilmente, Godot. Altri segni diversi da quelli che abbiamo letto, li troviamo negli ultimi Inediti, attraversati da un pensiero nomade, che non esclude nel significato il gioco distruttivo condotto da Hamm e Clov, nonostante il poeta ci abbia abituati da tempo, a sostare in una zona, luminosamente oscura, nella quale naufraga la marginalità della vita descritta con una modulazione lessemica, proveniente da più spazi psicosoggettivi, per rappresentare, nel più aperto spirito di laica religiosità, un viaggio solitario al centro della notte. con un codice linguistico tradizionalmente alleato con il pensiero negativo di certa letteratura mitteleuropea, o del tempo della Krisis, che si riflette sul male di vivere, nell’illimitato senso del Nulla, riportato in tante short stories in cui la riflessione avviene per scansioni temporali nelle quali fibrilla e si perde un Io pluriautobiografico. E’ questa la strada percorsa e amata dal poeta che transenna la propria vita, con immagini urticanti, e di estremo pessimismo, nel denunciare la fragilità delle cose, fino a formulare ineccepibili — cantos — dove la condizione di provvisorietà si allinea col più alto grado di sofferenza che, come scrive Giorgio Barberi Squarotti, diventa messaggio di — bellezza e di verità — di — tragicità e ironia. Un impegno tutto esistenziale, dunque, e quasi mai ideologico.
Dopo la neoavanguardia, i poeti hanno estremizzato i caratteri della Forma, con messaggi inesistenti, attraverso i quali “si può stare in ascolto, si può sprofondare nei suoni, si può, se si desidera, comprendere, attraverso le note, come sono strutturati, ma non si farà molta strada cercando di verificarne il messaggio generale e i nessi logico-causali”(Hans M. Enzensherger). Per fortuna non sempre è così, e più recente, lo dimostra la poesia di Colucci, orientata, una volta smesso quasi il verso libero, su nuclei di realtà oggettivati dall’uso degli endecasillabi, lievitati da improvvisi coups d’aile, che riportano in superficie la centralità del segno poetico, non importa se alla fine del tunnel non troviamo la luce, ma solo il luogo del nostro buio, attraverso considerazioni antropocentriche relazionate con un linguaggio neurofisiopatologico, dopo la perdita della Favola e del Sogno. Non a caso l’esistenza per Colucci è un corpo autoptico, di fronte al quale non esiste prontuario terapeutico, capace di guarire il male di vivere.“Lo strumento di conoscenza” finisce con l’essere la malattia, esplicitata anche nei suoi romanzi, con un lessico gaddiano, di tipo ematologico in La corsia, gerontologico ne I figli dell’arca, orgonico ne I fuochi di Sant’Elmo, e psicologico ne Il gatto e il Rembrandt, nel pieno conflitto di segni e significati, psiche e soma.
E qui, per chiudere, in qualche modo, codesta prima panoramica esegesi, ci vengono in mente, per il viaggiatore notturno, che sembra essere il Nostro nel suo duro, sofferto cammino poetico, i versi di T.S.quattro Quartetti)Eliot, (….) “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà arrivare al punto da cui siamo partiti e conoscere il luogo per la prima volta”. (Quattro Quartetti).



Rovine sparse confuse con la sabbia grigio cenere
vero rifugio. Cubo tutto luce bianco assoluto facce
senza tracce nessun ricordo. Sempre e soltanto aria
grigia senza tempo chimera la luce che passa. Grigio
cenere cielo riflesso della terra riflesso del cielo.
Sempre e soltanto questa fissità immutabile sogno
l’ora che passa.

Samuel Beckett


A colloquio con l’Autore

Quando anni fa manifestai a Colucci la mia intenzione, già da un poco vagheggiata, di dedicargli un saggio monografico - da far nascere nella nostra amata Terra molisana- lessi subito sul suo un po’ attonito, stanco volto un’espressione di stupito disappunto. E, trascorsi i primi momenti di interrogativo silenzio, mi sentii dire che lui, cose del genere non ne aveva mai pensate e tanto meno chieste; che s’era fermato a qualche sporadica prefazione - genere di cui si considerava non simpatizzante, con le debite eccezioni- ed alle recensioni, nate qui e là per la Penisola. Solo una volta, a Napoli -nel 1993-, prima di entrare nel lungo tunnel di malattie da cui stava appena uscendo, Carmine Di Biase, dell’Università di Salerno, gli aveva voluto dedicare un breve profilo critico, cui teneva molto: così concluse, come avesse voluto liquidare lì l’argomento, mentre lo sguardo —ancora un poco spento- sembrò come illuminarglisi appena. Sapevo bene che nemmeno a Napoli, -dove egli ha sempre vissuto ed operato giuntovi in fasce dalla natia Riccia (nel Molise)- qualcuno se n’era preoccupato mai, sulla scontata scia del Nemo propheta in Patria!
Sicché quel discorso, là finì, non desiderando più nessuno di noi due, forse, approfondirlo. Mi dissi, però, che non mi sarei dato per vinto, anche per la profonda stima che ho sempre nutrita per Colucci: da me —e non solo da me—ritenuto il più significativo scrittore vivente della latitudine Abruzzese/molisana, considerando anche la sua ragguardevole produzione narrativa —ed, episodicamente, saggistica- accanto alla prevalente attività di poeta: che certamente ha operato spinte innovative e rinnovative in terra di poesia, già dagli anni Settanta, molto apprezzate da buona parte della critica. Inclusa una parte di quella che non ha disdegnato e non disdegna di rivolgere uno sguardo anche al Sud, dal “lontano” Nord: di quella, per intenderci, che in assoluto non si identifica con i vari Cucchi e Giovanardi e le loro un po’ imprudenti conclusioni neganti l’esistenza di Poeti degni d’esser ricordati in cinque regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna). Ma non sono stati e non sono i soli a praticare questa sorta di “leghismo” letterario strisciante, come pittorescamente si esprime Daniele Giancane in una delle ultime, ahimè neglette, antologie dedicate al Sud (Vertenza Sud) e, detto francamente, anche malfatta ad opera di taluni compilatori regionali poco provveduti! E si ritornerebbe, purtroppo anche qui, al fatidico Nemo propheta in Patria….
Di Napoli e della Campania invero non mi sono mai molto interessato. Ma, in genere e fatte le debite eccezioni di cui sopra abbiamo -seppure fra le righe- citato un esempio di grande disinformazione-, anche nella sua Patria di adozione, il Nostro riscuote una meritata stima, ben presto allargata al campo nazionale, come già accennato. E basterebbe qui ricordare la folta schiera di letterati suoi manifesti estimatori: da Accrocca a Baldacci, a Bassani, a F. Bruno, a Forti, a Manacorda, a Pomilio, a Prisco, a Ravegnani, a Sereni, a Spagnoletti, a Squarotti, ecc., per ricordare solo taluni nomi di più ampia risonanza.
Eppure, Carlo Felice Colucci, ripigliando il discorso della sua più che quarantennale attività letteraria, mi confidava di avvertirsi come spaesato, in qualche modo, dopo essersi ridestato —per fortuna dal lungo letargo patologico ed essersi affacciato, timidamente quasi, sopra l’attuale orizzonte letterario, piuttosto diverso da quello lasciato parecchi anni addietro ed, in genere, assai meno accattivante. Non si rendeva conto, ad esempio, della strabocchevole fioritura di neonarratori, pubblicati -fra l’altro- anche da primarie case editrici.

“Immagina, sebbene qualcosa tu già sappia”, mi disse quasi come confessandosi e non senza una certa reticenza “che tutti i miei romanzi furono regolarmente respinti dalle grosse case editrici, tranne l’ultimo pubblicato dalla Rusconi con il viatico del compianto amico Mario Pomilio. E che, per ottenere la pubblicazione di una decina di poesie sul prestigioso Almanacco dello Specchio Mondadori, apparse col titolo di Check-up nel 1983, occorsero vari travagliati, per me, anni di attesa sotto l’egida di Vittorio Sereni e di Marco Forti, e dopo che Bassani generosamente s’era offerto per una presentazione che, infatti, stilò: comunque, sono rimasto sempre molto grato a questi scrittori e - soprattutto - all’ottimo Marco Forti. Ma fu tale lo shock, per così dire, che poi non riuscii mai più ad inviare un mio testo completo di liriche presso nessuna delle massime collane di poesia esistenti in Italia. Temendo un quasi certo rifiuto, accompagnato dalle solite -odiose- letterine di prammatica. Alle quali, “aggiunse contrariato”, avevo ormai quasi fatto il callo, per così dire, riguardo alla narrativa. Ma per la poesia ho sempre pensato che non avrei sopportato impunemente quei rifiuti ben confezionati e, molto spesso, riservati agli scrittori del Sud più o meno profondo; ai quali è stato quasi sempre negato l’accesso alle collane mondadoriane, einaudiane, garzantiane e così via, quasi sempre un po’ riservate -per non dire altro- salvo miracolose eccezioni a conferma della regola: eccezioni che a me non toccarono mai in sorte”.

“Comprendo bene; e noi tutti, quaggiù, ne sappiamo qualcosa, pur senza volere ingigantire il fenomeno. D’altronde vige sempre il bell’adagio “habent sua fata libelli” e, perché no?, scriptores ! Ma ora un’altra domanda mi intrica, in apparenza appartenente alla sfera dei cosiddetti luoghi comuni, ma che in realtà non lo è. E ti chiedo perché si scrive?”

“Scrivere, come leggere, vedi, io credo sia essenziale nella vita; dalla parte di chi scrive e, reciprocamente, di chi legge. Flaubert diceva che leggere non significa divertirsi (intrattenersi), non significa istruirsi, bensì vivere. Ed io estenderei una tale bella asserzione agli scrittori: lo scrittore, piccolo, o grande che sia, purché in qualche modo degno dell’appellativo e del ruolo, se non scrivesse, metaforicamente morirebbe. E, talvolta, si ammala proprio fisicamente a causa d’una forzata inattività. Ciò premesso, è piuttosto opinabile ed ha fatto il suo tempo, secondo me, quel famoso, banale adagio che: si scrive per sé, si dipinge per sé, e così via. Sarebbe troppo facile, troppo semplice una conclusione simile. L’artista - scrittore, pittore, musicista che sia - opera sì in quanto spinto dal bisogno creativo, insopprimibile, ma vuole, deve, anche riuscire a comunicare agli altri almeno qualcosa della propria creazione, piccola o grande che sia. Lo ha energicamente sostenuto - ed a più riprese — un nostro grande poeta che ho sempre molto amato: Alfonso Gatto”.

“Hai perfettamente ragione. Viceversa il tutto si ridurrebbe a una forma di esercizio piuttosto sterile, ripiegantesi sull’Autore e con lui destinato a nascere ed a morire!”

“Esatto: sarebbe, se si cancellasse l’opera finita, il libro stampato, il dipinto incorniciato, insomma, una mera manifestazione di autoerotismo, solo masturbatoria, a così dire: mentre l’artista ha l’esigenza, anch’Egli, di fare all’amore. Di farlo col fruitore dell’opera, con il lettore. E, naturalmente, più lettori ha e più all’amore fa! Quindi, per concludere, io ho sempre asserito che l’esprimersi sia prioritario per qualsiasi artista. Ma che se poi quest’artista riesce anche e bene, a più o meno comunicare, Egli così raggiunge la meta ambita, la sua massima soddisfazione di creatore d’arte. Io, ti confesso altresì, che quando ho terminato di scrivere una poesia, un racconto, ecc., miro letteralmente a ricorrere alla lettrice mia moglie: la quale, da buona pittrice con una propria sensibilità artistica, talvolta mi elargisce anche ottimi suggerimenti”.

“Ma se questo è stato il passato -seppure un po’ deludente rispetto alle tue aspettative di scrittore-, quali i progetti per presente e futuro, ora che sei fuori da quel terribile tunnel di malattie?,” chiedo a Colucci.
Ed Egli, pacatamente ma con voce ferma, mi anticipa in qualche modo ciò che in pentola già bolle, dicendomi subito che è in corso di stampa (uscirà per i tipi di Alfredo Guida, entro il dicembre) una nutrita raccolta di elzeviri, interviste e note, in massima parte pubblicate nei primi anni Ottanta sul quotidiano napoletano “Il Mattino”.

“Ho preferito rivolgermi all’editore Guida, gloriosa firma dell’editoria napoletana, gruppo editoriale in espansione, piuttosto che “mendicare” un’improbabile pubblicazione oltre il Garigliano; anche perché “ho fretta” di rivedere —dopo tanto- un mio libro. Dopo tanto forzato e penoso silenzio”.

Poi mi parla delle poesie, mentre nei suoi occhi azzurri si riaccende quella enigmatica luce che ormai gli conosco bene quando si tira in ballo la ”nostra” adorata poesia.
Ne possiede una nutrita silloge composta da un gruppo di oltre venti liriche scritte fra il “92 e il 95” (prima della caduta, precisa!) e da un più nutrito gruppo scritto fra il 2000 ed il 2001:circa una cinquantina.

“Ebbene, caro Gabriele, per la stampa di queste poesie, intendo “lottare”. Finalmente le invierò presso lo Specchio mondadoriano (quella collana che già mi tenne a battesimo dei grandi editori nel 1983), la collana “bianca” di Einaudi, la Garzanti, ecc. Ho però un desiderio, prima: di pubblicare un librettino col per me “mitico” Scheiwiller, rimpiangendo io molto la perdita del grande Vanni e quella del favoloso marchio “All’insegna del pesce d’oro”.

“Vedo che stavolta sei deciso a mirare in alto; penso che un poeta come te ne abbia ormai tutto il diritto”.

“Io, francamente e presunzione a parte, immagino di sì. Decisamente di sì. E’ come una sorta di piccolo, onesto risarcimento che infine mi spetta; convinto come sono che i miei elaborati poetici, passati e presenti, possono ben reggere il confronto con quelli di molti, ma di molti poeti del Nord -visto che ci hanno costretti ad una tale assurda "separazione"-, e, talvolta, uscirne perfino vincenti. A parecchi dei quali Mondadori o Einaudi, ecc. hanno già stampato più di una plaquette. Io fermamente
credo di aver diritto almeno alla stampa di un libro… Non mi arrenderò facilmente, stavolta, né mi appagherò delle belle letterine ben confezionate ad uso dei “gonzi” del Sud! Sebbene debba -per obiettività- ripetere qui di non avere mai inviato, finora, ad una delle suddette collane di poesia un mio manoscritto”.

“Ma tu non pensi che oggi qualcosa finalmente sia cambiata rispetto —mettiamo- a cinque anni fa?

“Lo spero, voglio sperarlo, ma -sinceramente- non lo credo. E ti dirò anche il perché di un tale mio scetticismo. Tu forse, non hai avuto occasione di avere tra le mani una delle più recenti -forse la più recente- antologia di poesia, dal bel titolo “Il pensiero dominante, Poesia italiana 1970-2000,” a cura del “dialettale” Franco Loi, operante a Milano, e dell’emiliano Davide Rondoni, di cui invero non ho mai udito parlare prima d’ora: ma sarà certo una delle mie tante lacune. Ebbene, questi due poeti di differente età ed estrazione - come il Loi ripetutamente precisa nella sua non molto chiara introduzione -, hanno avuto il coraggio (sic!) di includere nella loro “opera” ben l’85% circa dei poeti del Nord - più o meno giubilati -, alcuni poeti del Centro, e pochissimi del Sud limitatamente ad operatori per lo più “dialettali”. Ergo, con tutti i distinguo e la richiesta venia per le (volute) omissioni su cui il Loi si arrabatta nella predetta introduzione, al Sud -e forse anche al Centro- NON esistono poeti di gradimento dei due superbi curatori.
Beati loro che sono così esigenti. Io, allorché mi è capitato di parlarne, NON sono stato tanto esigente coi colleghi (sodali ?!) del Nord”.

“Non posso che darti ragione tutta la ragione del caso, naturalmente, rifacendomi banalmente alla “solita storia del pastore.” Ma, lasciando da parte queste autentiche tristezze, cos’altro di bello vai preparando oltre le ormai già pronte poesie?”

“Si, lavoro anche ad un libro di racconti, sperando che il Padreterno mi conceda la salute per portarlo a termine. L’avvenire essendo -ahimé- sempre nel grembo non troppo ospitale di Giove!”

“Te lo auguro di vero cuore, caro Colucci, ben consapevole che potrai ancora darci tanti bei libri.”

Credo, a questo punto, di avere in qualche modo esaurito l’interessante colloquio con Colucci, ma ho la netta impressione che il Nostro voglia dire ancora qualcosa, quasi come a trovare un più concreto finale al discorso. E nel mentre mi stringe forte la mano, a più riprese, con aria rattristata, infatti, soggiunge:

“Sai, al termine del nostro colloquio, non posso non confessarti anche, come, a volte, la fredda mano della depressione, che per anni mi ha torturato, torni a sfiorarmi. Ed allora, per un attimo, vorrei adagiarmi in una sorta di quieta fine e tutto dimenticare magari sussurrando: “Oh allora sballottati, / come l’osso di seppia dalle ondate / svanire a poco a poco”. Perché, vedi, anch’io ho sempre creduto — con Emile Cioran- che la vera quiete, contrario dell’indifferenza, il vuoto, insomma, possano dare come la massima percezione raggiungibile di benessere ”solo quando nessun pensiero sfiora il mio spirito”. E non per parlare di meste cose — giacché ci siamo! — ti voglio altresì confidare di avere scelto per la mia sepoltura, speriamo il più tardi possibile!, il bel Cimitero degli Inglesi, di Napoli, e di avere espresso la volontà che sulla mia lastra tombale sia apposto pure il verso di Ungaretti da me più amato: “La morte si sconta vivendo”.

Orbene, questo colloquio — come forse il lettore meglio capirà appresso — avveniva alcuni anni fa, oltre un lustro per l’esattezza: quando appunto venne subito dopo dato alle stampe il volume “Poesie, 1960 — 2001”, di cui il presente è la legittima continuazione. E chiusura. Anche perché Colucci ha deciso, come si è detto, di non pubblicare più versi…E qui non possiamo — quasi a proseguimento ed “epilogo” del colloquio — non riferire, senza commenti, quanto l’Autore molisano ci ha raccontato della propria vicenda “editoriale” dal 2001 ad oggi. In breve: i non pochi “sogni” di Colucci, a pubblicare presso il mitico Scheiwiller dai big Mondadori, Einaudi e Garzanti, ecc., sono miseramente naufragati: “costringendolo” a stampare la produzione in versi degli anni 2000, come più avanti risulterà, presso piccoli editori, talvolta in odore di anonimato! Il che significa — lo ribadiremo nel capitolo Finale di partita — che anche un ottimo poeta del Sud, oggi ancora più di ieri, non può mirare alto, né in campo editoriale, né in campo critico — saggistico. Più o meno destinato com’è ad una sorta di relativo cronico oblio.


Una poesia lunga quarant’anni e più


Una presenza letteraria e culturale costante nel tempo, quella del Nostro, dunque, tra libri di narrativa, una raccolta di elzeviri, di interviste e note, a Personaggi — grandi e meno grandi — della letteratura italiana, oltre ad un’antologia monotematica sulle Città viste dai poeti, e ad una nutrita sequenza di libri di poesie pubblicati dal 1960 al 2005: ecco il curriculum bibliografico di Carlo Felice Colucci a cominciare da Fenèste ‘int’o scuro, con prefazione di F. Bruno, Roma 1960; un libretto di poesie in dialetto napoletano sul quale Carlo Betocchi ebbe a scrivere una interessante lettera all’Autore, che comunque non si è mai riconosciuto come poeta dialettale; lettera che qui pubblichiamo volentieri come documento storico eccezionale:

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Firenze 17 aprile 1961. ”Egr. prof. Colucci, il buon amico Pomilio mi ha spedito, un mese fa, certi versi che lei desiderava leggessi. Un fascicolo di versi italiani (che è quello che Le restituisco); aggiunto un libretto di versi dialettali con una Sua cortese dedica della quale La ringrazio, e che trattengo. L’amico Pomilio faceva conto, certamente, su una mia maggiore solerzia. Sono stato un gran lavoratore, in passato: ma da un anno a questa parte un’ulcera duodenale, che ha portato a livelli inconsueti i miei già abituali disturbi nervosi, e in questi giorni dopo Pasqua la morte della madre di mia moglie, hanno di molto ridotto le mie capacità, la mia voglia, il mio desiderio di contentare gli amici, e di andare incontro - come usavo fare - a chi mi si rivolge. Pazienza: e soprattutto abbia pazienza anche Lei e mi scusi il ritardo. I versi dialettali ho cominciato a leggerli ma non ho avuto pazienza di continuare: c’era il fatto del dialetto, ad ostacolarmi e c’era il fatto dei versi cantilenanti ai quali le consiglio di non tornare più. D’altra parte a me è bastato il poco che ne ho letto, e il confronto di esso con i suoi versi italiani, per convincermi che se anche Lei parlasse costantemente il dialetto, (dico nella vita sociale e magari nella professione),tuttavia del dialetto non sa fare strumento d’arte; voglio dire che la sua capacità di restituzione poetica della vita non attinge dal dialetto, ma dalla lingua. Ciò significa che la sfera dei suoi interessi di poesia è stata educata nella lingua: che la zona profonda da cui Lei può restituire certi sensi di poesia, i propriamente suoi, è stata toccata solo dalla lingua, non dal dialetto: che perciò stesso i suoi interessi sono intimistici, introspettivi, non estroversi, non capaci di afferrare , col dialetto, la vita del popolo che lo parla, o sia pure la singolar vita e il sentimento di un popolano. Rinunziare, dunque, al dialetto: tutto ciò si ritrova poi leggendo la sua poesia in lingua dove (e qui mi scusi se Le accenno una piccolezza, ma insopportabile al mio orecchio toscano, quel ”pure” che vi si trova così fitto in luogo di ”anche” andrà sterminato senza pietà): si ritrova che la Sua poesia, quando è raggiunta o avvicinata nasce da certe zone dell’animo privatissime ma nelle quali è deposto ed alligna nei casi migliori il seme di quella libertà della fantasia per cui la poesia giunge a trascendere il caso privato. Torna ad essere cioè oggettiva.
Discorso un pochino imbrogliato. Ma che sta bene al caso Suo, e che può essere suffragato rileggendo per esempio una delle Sue poesie a parer mio meglio riuscite,
come “Sosta a un casolare”. Sono fatti di libera fantasia, e di poesia bene oggettivata, le restituzioni di un clima date da:

Un cuore caldo di ragazzo
sui tappeti di granturco.
E non dicono molto.
Un lume accendono a mezz’aria
appena a ridestare l’ombre,
e intorno pare sera.

I vecchi erano fuori
a guardare dentro l’aria,
e il respiro dell’orto ci cullava.

Quello che Lei qui ha detto ha valore anche universale, può servire per un contadinello e per i suoi ricordi di ragazzo di famiglia borghese, ma non potrebbe dirsi così senza la mediazione di una cultura poetica che non ha le sue basi nella tradizione popolare e dialettale: le sue basi sono nei diritti e capacità della poesia accertati dalla rivolta poetica del novecento.
Il fatto che la Sua poesia nasca da certe zone privatissime dell’animo è evidentemente un pericolo grosso: perciò Lei si guarderà sempre dal compiacersi, o meglio dal compiacere a tale intimismo, sfuggirà più che può tutti i temi nostalgici, e cercherà di tener desta nel fondo dell’anima la forza vitale di quel seme della libera fantasia di cui ho dianzi accennato, Questo, essenzialmente, mi pare utile consigliarLe; mentre Lei troverà indicate con puntini rossi le composizioni che a parer mio sono le migliori. Ed ora mi scusi se La lascio: metà della mia vita dipende dalle collaborazioni che riesco a fare; e in questo stato di salute non ci riesco: se poi mi dedico ad altro, addio! Abbia dunque i cordiali saluti. Carlo Betocchi.”

E Colucci ha di certo seguito -forse nel miglior modo possibile- i suggerimenti cordiali del grande poeta in questa lunga lettera che -vogliamo dirlo- è anche un bell’esempio di una -ahimè- quasi perduta civiltà letteraria. Vediamo in dettaglio.
Anagraficamente, Carlo Felice Colucci appartiene al gruppo dei poeti della quarta generazione (dal titolo della silloge di Piero Chiara e Luciano Erba, Edizioni Magenta, Varese, 1957), da cui se ne distacca per un impegno poetico e linguistico più alto, dopo esser passato “con grande intelligenza e saggezza (e anche con un signorile distacco da gran maestro della parola, che sa sempre porre l’ombra dell’ironia, anche nell’esperimento più audace e strano della poesia) attraverso l’avanguardia: con lo scopo di acuire, con gli strumenti che le sono stati propri, da un lato l’analisi tesa e inquieta dei sentimenti, togliendo loro ogni pateticità e ogni carattere autobiografico, nonché i rischi del compiacimento descrittivo, per renderli invece le misure assolute di un giudizio fra grottesco e tragico di un mondo che appare fondamentalmente malato e corroso; dall’altro lato, una visionarietà paesistica e memoriale che sembra, con una lucidità e una razionalità quasi geometrica, accumulare nel verso le immagini di un inferno della ragione ferreamente logico, ma, appunto per questo, insopportabile al limite del grido (che pare circolare sotto la limpidezza rigorosa del verso, come sussultando nelle sfasature, nei lapsus, nelle impuntature che, a tratti, si aprono all’interno di così precise strutture verbali). La favola, che sembra ammiccare spesso nei testi di Colucci, è, in fondo, un incubo: nella misura sapiente del discorso c’è sempre qualche scatto inatteso, qualche iato logico improvviso vi si determina, qualche parola risuona o troppo alta o troppo sommessa, qualche furore d’espressionismo s’innalza a segnalare il carattere fondamentalmente angoscioso e disperato della rappresentazione, pur tanto lucida e ben calcolata, d’una realtà senza salvezza, non più frequentabile dalla poesia se non attraverso l’accettazione in sé dei segni della distruzione di se stessa, come sono le tensioni verso il non senso, la perdita di peso effettivo e di significato del discorso proprio nel momento in cui si propone come esatto, netto, logico, razionalmente costruito”, come ha giustamente evidenziato Giorgio Bàrberi Squarotti in uno dei suoi autorevoli interventi “ Dai Postermetici alla postavanguardia” in “Letteratura Italiana Contemporanea”, Lucarini 1982, vol. III pag;545/546. E così come rilevato da Giacinto Spagnoletti quando scrive di “Una metafora del confronto umano, talora non lontano dal documentarismo di laboratorio (e da ciò una scelta linguistica fra le più pregnanti) che tuttavia si stacca dalla” forma-diario”, da una pseudo relazione tecnica, quale viene tentata da altri, nell’artigianato ormai artificioso dell’avanguardia. Esiste invece per Colucci, visionario a suo modo del reale, la possibilità di scandire col suo affilato mezzo linguistico, relazioni e distanze, quasi che alla totalità del suo sguardo si presentasse un mondo in frantumi, spezzettato, convulso, ma sempre codificabile. Di questo Universo Egli conosce la corrosione, l’autodistruzione e perciò tenta di fermarlo
ironizzandone i bordi, parafrasandone i segni parodicamente” (da una presentazione in “Lunarionuovo”, gennaio/febbraio 1982).
E ancora, proseguendo la nostra analisi critica, da Giuliano Manacorda nella sua prefazione a “La bella afasia”, (1983) “Quello di Colucci è un vero allenamento alla morte, un check-up del vissuto esistenziale, un trattato poetico de senectute anche, in cui dal ghetto del vivere si intravede con certezza solo l’immancabile precipitare lungo l’orribile via d’uscita, ma non la meta
dove essa potrà condurre: Dio è “smarrito”….Semmai sullo sfondo di questa amara constatazione sulla vita che si disfa, su questa sorta di nuova fallimentare sapienza popolare “crepando s’impara”, una nota appena di conforto la danno quelle remote figure familiari- il padre centenario, la mater che possono ancora alludere a un sistema d'affetti che resiste. Così la donna, cui tante poesie sono dirette.…Eppure perché non viene dalla lettura un messaggio tetro e insopportabile? Perché la parola coraggiosa non è mai disfatta e piagnona…La parola coraggiosa, sincera senza crudeltà e senza sadismi. Colucci tira le somme- il pranzo è servito- sulla propria e altrui esperienza d’essere al mondo…non può che chiudere il bilancio in negativo, senza consolazioni illusorie, ma, appunto per questo, senza inganni; con quella verità ritrovata che è il ribaltamento dell’afasia esistenziale nel dire della poesia”.
A questi risultati Colucci perviene gradualmente, attraverso un lento lavoro sulla langue, a partire dal 1967, anno di pubblicazione de “La pagaia,” che già contiene segni verbali interessanti, che troveranno una più ampia diversificazione nelle opere successive, con un linguaggio autonomo risalente dai profondi strati di un mondo fossile e magmatico, caotico e tellurico, con ricorrenti relazioni sul “corpus” della vita, su cui il poeta pronuncia “diagnosi e prognosi,” piccole fedi in extremis, cristallizzando memorie e ferite, con la tenace volontà di andare al centro delle cose, esplorandone le tracce e i segni, al di qua di una lucida denuncia sul “male di vivere”, tra tumulto poetico e avvitamenti psicosomatici, con storie che sembrano non finire mai, da “Placebo” a “Fuochi spenti”, senza punteggiatura, come a voler rimandare il lettore ad un altro appuntamento; caricando d’attesa i percorsi poetici, che si sviluppano con la tecnica del monologue intérieur e della riconiazione della lingua, dando luogo ai “prodotti”; secondo P. Valéry: poesia significa “fabrication”.
In realtà, nonostante Colucci sia stato sempre uno scrittore un po’ appartato nella sua temperie di schivo molisano trapiantato, vissuto ed operante da sempre a Napoli —una realtà letteraria invero poco frequentata da critici e saggisti, molto si è detto di Lui e —va riconosciuto- quasi sempre con una notevole, buona comprensione di ciò che davvero è il nucleo fondante, la partenza da precise radici, il viaggio difficile attraverso la vicenda dell’ars poetica del Secondo Novecento; di quanto Egli ha inventato e puntigliosamente, con costanza e coerenza, creato in uno dei laboratori della parola che, certo, a chi scrive —ed a molti Altri- s’è da tempo rivelato uno dei più laboriosi, produttivi e singolari. Ma siamo convinti che tanto resti ancora da dire, da verificare, da esemplificare, da confrontare, da storicizzare, magari avanzando alla fine un meglio valido ed esaustivo bilancio dell’Opera in versi ed in prosa del Nostro: per la cui migliore conoscenza e —soprattutto- per la cui diffusione, tocca da fare ancora parecchio alla nostra Società Letteraria. La quale, è bene qui ribadirlo senza mezzi termini, permeata dal relativo oblìo, destinato da sempre alla maggior parte degli artisti del Sud, soffusa di quel precoce leghismo strisciante radicatosi anzitempo, rispetto a quello sociopolitico, in letteratura, forte di un potere arroccato soprattutto al Nord, non ha mai prestato al Nostro l’attenzione dovuta.
Eppure Colucci ha operato da autentico poeta e innovatore del linguaggio in tempi nei quali dominavano le riviste underground ed alcune antologie storiche come I Novissimi di Alfredo Giuliani, Tam-Tam, di Adriano Spatola e Niebo di Milo de Angelis ecc. a parte i ciclostili e i samizdat circolanti come materiale di impegno e di lotta. Per meglio definire il quadro poetico e gli iniziali sviluppi della vicenda linguistica di Colucci, è necessario ricordare la sua posizione di innovatore anche nei confronti dei poeti dell’area molisana dalle cui radici Egli non può sentirsi certamente estraneo, avendo coniugato molto bene le realtà del centro e della periferia, realizzando un progetto non verificabile in nessun poeta della tendenza eversiva, quasi tutti impegnati più a decostruire che a realizzare un nuovo segno poetico nella naturale metamorfosi linguistica. Dal caos della parola risorgono la forma, il ritmo, gli stilemi, la musica, l’iperbato, i familiari accumuli della memoria, le transizioni del quotidiano, le percussioni allarmanti e cupe del dato storico, pubblico e privato, l’automatismo espressivo tra sinestesie e vocazione al racconto, in una generale trasformazione del tessuto stesso della lingua. In questa direzione si muove Carlo Felice Colucci, passato, sì attraverso l’avanguardia, ma (…) “in maniera, aggiungerei io, da riuscire a modularne, con i propri strumenti, le intemperanze, i malumori, le ambiguità e da riuscire, spesso, a conciliare l’esigenza di esprimersi e di comunicare senza mai scendere a compromessi” (Giorgio Bassani). Tutto il resto l’ha fatto la sua sensibilità, ma soprattutto il tema della memoria-morte. E poi c’è il trionfo dell’ironia che sembra giocare un ruolo prioritario tanto da essere “protagonista del discorso, con funzione esorcizzante nei confronti sia delle non mai disciolte neiges d’antan, sia della ricerca stessa del linguaggio”(Giorgio Bassani), espletato all’interno di un realismo umanistico, espressione e sintesi di una visione del mondo come pietas di fronte ai mali quotidiani: siano essi rappresentati dalle “bianche leucosi o blastosi” o addirittura dall’incubo della fine.
In un clima, nient’affatto favorevole ai moduli linguistici meno scissionisti, c’era chi lavorava per restituire alla parola il naturale codice genetico, operando sul significante cauterizzato negli anni Sessanta che hanno prodotto anche esempi di poesia autonoma tendenti alla formulazione di un progetto linguistico capace di alternarsi allo sperimentalismo: ci riferiamo, in particolare, ad alcuni esiti poetici di Giorgio Bàrberi Squarotti e di pochi altri ancora. E’ innegabile che anche Colucci, pur del tutto avulso da una certa avanguardia, quale quella del Gruppo 63, dei Poeti e poesia visivi ecc., e pur rivestendo, in poesia (e forse anche in prosa), un particolare ruolo di ricercatore del linguaggio: (con una sorta di metalinguaggio), ricerca cui si potrebbe addire anche l’appellativo di “paravanguardia”, è insomma un singolare caso a sé. Che per qualche verso lo farebbe accostare a Zanzotto: con connotazioni più antropocentriche e meno naturocentriche e con la pratica d’un linguaggio anche medico-scientifico, piuttosto logico e non prelogico, alla Zanzotto; anch’Egli, comunque, innovatore e ricercatore col suo plurilinguismo a sé stante; seppure più destruente che ricostruttivo.
A questa operazione linguistico-culturale e di ricostituzione del testo a livelli di lingua parasperimentale (metasperimentale), Colucci giunge dopo aver valutato le varie possibilità di interpretazione tra linguaggio poetico e linguaggio scientifico, derivante quest’ultimo dalla sua professione di medico-ricercatore. Sul rapporto arte-scienza già Bassani, a suo tempo, si chiedeva se ci fosse un nesso logico tra le due forme; questione più volte affrontata da Colucci in varie interviste e presentazione dei suoi libri, ricordando come fosse proprio il Nobel Rous ad affermare che la scienza e l’arte nascono entrambe dalla fantasia.
Colucci si è sempre sentito un ricercatore sia nel domani scientifico sia nella creazione artistica, via via che le due attività si sviluppavano in direzione del nuovo, e della scoperta. E che proprio nel corso degli anni Settanta, allorché apparivano le poesie di “Placebo” (1975) e poi di “Preghiera occidentale” (1981), Egli pubblicava in sede scientifica, su alcune importanti riviste, anche in lingua inglese, in Gran Bretagna ed in U.S.A., le prime interessanti ricerche sui Ritmi circadiani nei ciechi, che gli valsero l’apprezzamento di non pochi Studiosi in Italia ed all’Estero: ecco l’inequivocabile matrice, la genuina ricerca in utroque, costante e pertinace fino ad un qualche risultato, ad una prefissa meta; il che è di fondamentale importanza per penetrare le origini di tutta la sua scrittura in versi ed in prosa. Anche l’arte, l’opera creativa, ha, al pari d’ogni umana manifestazione, una parabola, e non sempre nel senso di un diapason unico e d’una successiva decadenza, ma sempre —o quasi- nel senso d’un mutamento e d’una variazione sul tema. Ce lo ricorda, se occorresse, anche Ernst Junger: “Nulla è costante quanto il mutamento, e contro un tale dato di fatto s’infrange ogni sforzo mirante al contrario”. Col che vogliamo dire che anche Colucci, nel corso della sua avventura letteraria, ha mostrato e mostra di non sfuggire a una simile Legge in qualche modo ineluttabile. Ma v’è mutazione e mutazione: implicando quella genuina e spontanea, non artificiosa ed opportunista — cui spesso s’è assistito e s’assiste in Terra di Scrittori-, una logica, una coerenza, una maturazione obbligata d’interiorità sempre sustanziata da cose che ne marchino inesorabilmente l’autenticità! Ed è altresì di questo che fra poco dovremo dire, anche alla luce degli inediti che il Nostro ha voluto in anticipo farci leggere, seppure limitatamente a pochi testi, per un eventuale raffronto con i versi pubblicati. Inediti, appunto, che sembrano -qui e là- mostrare un certo mutamento, una qualche maggiore o minore variazione rispetto agli spartiti precedenti. E qui ci è venuta in mente l’esperienza di Arnold Schonberg -l’autore del bel Pierrot Lunaire-, che, come si sa, ai primi del Novecento, fu il principale artefice della dodecafonia, rivoluzionando decisamente le leggi dell’armonia in musica, con l’introduzione della composizione atonale ed anarmonica, in una sorta di nuovo ordine/disordine delle dodici note nella scala cromatica. Ma, dopo la dodecafonia, sarà più possibile comporre altra musica, inventare altri moduli compositivi? Si sono chiesti illustri musicologi. E ricordiamo come il grande Carlo Maria Giulini abbia risposto decisamente di no, ad un giornalista che lo intervistava, asserendo che, ormai, la musica può essere solo interpretata o reinterpretata…Ed è a questo punto che poi -da convinti assertori della globalità (unità) dell’arte- è scattata in noi una sorta di riflessione analogica tra la dodecafonia schonberghiana ed i sommovimenti del linguaggio, nella stessa epoca avvenuti, a partire dalle avanguardie storiche e dalle “parole in libertà”, dall’ “aereopoesia” di Marinetti, alle “licenze poetiche” di Palazzeschi, agli arbìtri dadaisti di Tristan Tzara, ecc. Dove certamente e attraverso gli stilemi delle successive neoavanguardie, i poeti come Colucci hanno affondato più di una radice, seppur dando luogo alla crescita di piante ben diverse, autonomamente coltivate e -non di rado- singolari. Sicché -anche procedendo per analogie, appunto- non è forse giunto il momento, e magari già da un pezzo, di fermarsi a meditare, anche per i poeti, e di non oltre perseverare nella ricerca di improbabili (impossibili?) nuovi stilemi? Tornando a reinterpretare -invece- la “musica” (scrittura) precedente: come in qualche modo diceva il Maestro Giulini in merito al dopo -Schonberg! Con la visione forse -o meglio, l’aspirazione- di allontanarsi via via dalle forme del linguaggio franto, babelico e disperato, -atonale-, insomma; rivisitando (riscoprendo) in qualche modo una certa armonia dei versi…Stiamo (staremo) a vedere! Per esempio -a proposito del frequente registro ironico, seguito da Colucci, non solo in poesia, ma anche nella narrativa -Egli ebbe a dire in un’intervista a Mario Miccinesi, curatore a Milano della bella rivista Uomini e libri, da qualche anno purtroppo finita, come l’ironia, nella scrittura, gli sia molto congeniale. Ma che, a furia di praticarla, gli si siano svelate sempre più le innegabili difficoltà di gestirla; ben consapevole dei possibili “inganni” e trabocchetti! Senza dimenticare, poi, che essa è in fondo una sorta di amore indiretto -come acutamente asseriva Savinio-, il più pudico, il più geloso amore. In conclusione, non bisognerà mai dimenticare che il Colucci -al pari di vari altri operatori in poesia che di essa sono stati i più o meno dotati e fortunati innovatori e riformatori- ha fra i suoi remoti progenitori Nietzsche, addirittura, considerato a ragione una sorta di padre di tutte le avanguardie e le neoavanguardie. Convinto come era che la realtà, il discorso e lo stesso Io finiscono col dissolversi in una sorta di “anarchia di atomi” che sconvolgendo ogni gerarchia, comportando una lenta dissoluzione del soggetto e del linguaggio, conduce (può condurre!) al naufragio nel mare della vita. E lo ha di recente ricordato Claudio Magris, nella prima sua lezione di quest’anno al prestigioso Collége de France, a Parigi (da un brano riportato nel Corriere della Sera del 26/10/2001). Ma sarà bene qui ribadirlo, Colucci -nella sua relativa singolarità- non ha solo teso alla dissacrazione del linguaggio, ma pure ad una sua ricomposizione in una sorta di “ordinato microcosmo sotterraneo”, come appunto ebbe a far rilevare Bassani. Ed ora passiamo ad un’analisi più diretta, testuale.

da “Una vita fedele” (1963) a “La pagaia”(1967)

Restando specificatamente nell’universo linguistico e tematico di “Una vita fedele” e “La pagaia” non può passare inosservato il tema dello sradicamento dalla terra-madre, che rivive attraverso il complicato meccanismo della memoria, con una sottile analisi di indagine psicologica anche sul rapporto vita-morte e paesaggio-amore, “una tematica” come ha scritto Mario Pomilio, “dalla pressante, mai estinta nostalgia pel suo Molise, per certi interni familiari, per certi spazi domestici precisati e resi netti dal continuo ritaglio che fa torno torno la memoria per oggetti e luoghi d’infanzia, o
comunque mitizzati come appartenessero sempre all’infanzia, ai quali poi lo stretto lavoro di lima dà la giustezza di quadri del genere, e un istinto un po’ crepuscolare
di vecchie stampe”, che risultano naturali quando l’imput psicologico va a colpire il passato e la somma delle cifre del vissuto: da qui l’innesto poetico con il “paesaggio molisano” a centro delle emozioni che si immettono sul territorio delle occasioni poetiche, con le rifrazioni del presente e del passato nella duplice devianza di risposte er(etiche) intorno al problema della vita, con una tensione ideologica fortemente orfica e istintiva.
Con questo statuto di identità, Colucci consolida i suoi legami con la terra d’origine e con “la memoria narrante che rivisita oggetti, persone e luoghi, ora con dolce nostalgia, ora con un senso acre dello sradicamento. Ma tale rivisitazione non è mai puro abbandono idilliaco o consolante momento catartico; esso si riveste d’uno spessore metaforico tale da determinare, stilisticamente, anche una notevole rivoluzione nel linguaggio che l’esprime: soluzioni discorsive sincopate, ellissi improvvise, subitanee condensazioni di immagini-concetti” (Luigi Fontanella: “Poeti molisani d’oggi: appunti per una campionatura”, Misure Critiche, nn.68-69, 1988, pagg.127-128).

Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel bosco
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli dalle rupi,
spezzavano corde alle chitarre.
(da “Una vita fedele” pag.43)

Il discorso sulla molisanità, che pure coinvolge il poeta delle prime prove, trova un riscontro critico nel breve asterisco di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli che vedono in : Una vita fedele e La pagaia una“nativa molisanità” turbata e coniugata con una modernissima ricognizione dell’io e del suo rapporto con la realtà e la provincia d’origine”, (Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi.- Molise — Editrice La scuola, 1994, pag.54-55); concetto che allarghiamo ulteriormente nella sintesi apparsa per la sezione dedicata ai poeti della quarta generazione, nella miniantologia allegata ai “Poeti del Molise”, della Forum QG. Forlì, anno IX 1981, Gennaio-Febbraio nn. 79-80, a cura di Mario M. Gabriele, in cui si legge che “Sul filo di una serrata discorsività e di un ricercato plurilinguismo, la poesia di Colucci s’apre con larghi squarci al fatto quotidiano attraverso un linguaggio che non tradisce l’esigenza della verità, del dramma, del trauma esistenziale dove l’allusione è solo un mezzo per diluire l’ansia, l’ironia, la confessione.
In “Una vita fedele” e in “La pagaia” viene operato un vero e proprio engagement con il dizionarietto dei termini etnici. Ne recuperiamo alcuni, che sembrano meglio evidenziare i legami col territorio, espressi come in un quadro figurativo della civiltà contadina: “le bianche mani, di madia”(pag.75) o “i tappeti di granturco” (pag.75) di”Una vita fedele” o ancora il rito della morte nel testo “Il mio paese” da “La pagaia”, (pag. 43), che riportiamo integralmente.

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Matteo.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per la via.

Siamo ancora nel campo delle cadenze e delle tonalità metrico-tradizionali con moduli poetici postermetici e neorealisti.
Questo discorso permane fino a quando non subentra un lessico urbano in sostituzione di quello rurale. La differenza è dettata da un insieme di elementi morfologici e di figure metriche nella realtà dell’endecasillabo e del novenario, tanto da creare un diverso livello musicale, come indirizzo operativo nella scansione del verso e delle sequenze normoritmiche.
La scissione da questo universo territoriale e psicoemotivo viene anticipata forse già dalle prime pagine di “La Pagai” con una nuova frazione timbrica del linguaggio.

L’ipotesi di poetica

Nel 1981 Colucci firma per la miniantologia dei “Poeti della quarta generazione,” acclusa a “I poeti del Molise” della Forum, Q/G. Forlì,1981, pagg.55- 58, la propria “Ipotesi di poetica”, in un quadro sempre più alienante e dispersivo che caratterizza il clima della poesia italiana degli anni Settanta-Ottanta e che il poeta stesso così sintetizza:
“Il momento attuale” della poesia penso che duri da vari lustri, nella scia degli “ismi” a noi più vicini, della “Beat”e della Neoavanguardia.
Ed a parte certe esperienze sorte qui e là, come il gruppo ’57 in Germania, quello della rivista “Tel Quel” in Francia, i novissimi in Italia, la Beat Generation e via dicendo, e talvolta assimilabili più a centri di potere letterario che di autentica cultura, si deve subito dire che questo “momento” della poesia è rappresentato essenzialmente da un coro non molto differenziato e con la quasi assenza del “grande” Poeta, del “monstrum”. Un coro cui sembrano mancare padri certi, a meno di volergliene attribuire parecchi! Un coro fatto di buoni compagni, sodali, dalle opere non di rado intercambiabili, dalla incessante osmosi non solo intereuropea ma anche intercontinentale favorita dall’abbondanza di traduzioni. Un coro dalle ascendenze vaghe, perciò, e remote: dove però tutti possono riconoscersi per nipotini di Mallarmé e Rimbaud con una sufficiente approssimazione.
E le opere paiono nutrirsi dei tanti incorruttibili residui poetici e rimasticarli, rielaborarli con qualcosa di proprio, di “attuale”, al sole irruente di un certo presente storico abbastanza tumultuoso e caotico. In tal modo ne vengono fuori voci
dalle inflessioni comuni, pur nelle diverse tonalità e tendenze, dal linguaggio composito, sfociante in un particolare sincretismo, in una dimensione sincronica e
solo raramente diacronica. Una crisi di identità della poesia? Parrebbe, e non solo della poesia ma dell’arte tutta, quando fra l’altro buona parte dell’arte contemporanea sembra voler lasciare il posto al discorso sull’arte e le poetiche; e il “comportamento” sembra dover prevaricare sulle opere. Certo lo smarrimento si avverte, la transizione, la crisi nel senso di renovatio, anche se stentata! E’ la decisa tendenza all’affermazione di una poesia in qualche modo di massa destinata a sostituire la poesia di élite, e forse a sovvertire se non addirittura a negare l’essenza, il concetto stesso di poesia. Quando poi oggi più che mai essa dovrebbe porsi, a nostro avviso, quale irriducibile e irrinunciabile alternativa al quotidiano, al comune, al reale, alla finitudine delle cose, al potere istituito, ecc., in una dim ensione autre, nella temperie insostituibile della fictio, incontaminata dal pragma e dalla politica. L’artista non può e non vuole cambiare il mondo, dovendo restare questa
una prerogativa dei politici, egli vuole solo rappresentarlo, scoprirvi un po’ dell’infinito mistero nascosto nella realtà apparente, alla ricerca delle oscure e remote radici dell’uomo. E sia chiaro che tutti i mezzi sono buoni allorché si raggiungano dei risultati, si creino opere autentiche.”

Ciò che Colucci andrà a realizzare, dopo “La pagaia”, sarà un atto di fede verso un linguaggio amaro, dissacrante, espressivo, legato all’ironia e alla generale denuncia del nonsense. attraverso il gioco delle figure retoriche, come le allegorie, le metafore, i simboli, le allitterazioni, l’interruzione del verso nel segmento concettuale, in una commistione di lacerti che si inseriscono come elementi complementari nella struttura del testo, fino a rendere preziosi e unitari i collegamenti tra pensiero e sentimento, all’interno della fisiologia dei segni o della scrittura in versi, tanto da rendere acquisiti nel gusto della lettura, fra l’altro, alcuni vocaboli stranieri (departs, hippy, self non self, scold, achtung,danke schòn, abat-jour, designer, passengers are kindly requested, varietè, èpoque ecc.), come microcellule linguistiche calibrate nell’uso e nella dinamica del discorso. Senza dire, poi, dell’introduzione, a vele spiegate, di una terminologia medico-scientifica, come già accennato altrove.

Placebo (1975)

E’ il libro che più incide come linea spartiacque tra i volumi “Una vita fedele” e “La pagaia” da una parte, e le successive opere in versi forse fino all’ultimo libro, dall’altra. C’è in Colucci una coscienza tragica e negativa di fronte al divenire della Storia e dei moventi oscuri dell’esistenza. Il paesaggio è sì quello della memoria-morte, ma anche quello più percettibile del dolore, con una perlustrazione profonda nelle falde dell’anima frastagliata da tanti piccoli Olzweg o sentieri di cui parlava Heidegger, e che all’improvviso si perdono nel bosco lasciando nello smarrimento chi li percorre, proprio perché i segnali d’accesso sono pochi e le scritte, tra l’altro, non chiare. Sicuro è solo il pensiero della condizione dell’uomo singolo non soggetto assoluto e reale, ma individuo esistente e perciò finito.
Ed è in questo spaesamento di luoghi e di identità, che nasce la religione della solitudine in Colucci, il quale percepisce il destino dell’uomo, analizzandone i sintomi e ricorrendo anche alla Poesia come Placebo, per meglio schermarsi dalle onde del quotidiano, con dei “versi che si susseguono contenendo in sé un dato, un’osservazione, un’ipotesi, un giudizio, una condizione: ma ogni sentiero è interrotto, ogni continuità è spezzata, ogni durata impossibile al di là dal breve segmento verbale.” (Giorgio Bàrberi Squarotti)
Abituato a “vedere” la vita con gli occhi di medico-scrittore, Colucci si muove in un retroterra culturale di tipo nicciano che annette a sé i brividi mitteleuropei del tempo della disfatta e del pensiero negativo.
Nell’ambito della ricerca e dell’autonomia linguistica, Egli prova a disegnare una Storia da narrare e divulgare come testimonianza di vita e di ricerca etico-morale, spesso correlata agli elementi dialettici del presente e del passato, del dolore e della morte, figure altamente emblematiche della nostra poesia, per le devianze culturali che esse possono svolgere, sia in senso positivo, che negativo; da qui lo sforzo del loro superamento er(etico) attraverso, come già si è detto, la pratica del Placebo che nel glossario medico sta a indicare “una misura terapeutica di efficacia nulla” e che in Colucci si presta a lenire la realtà, prima di “cedere alla morte lo scettro del dominio e la stessa soluzione del nostro generale essere persone destinate” (Giuseppe Zagarrio da “Febbre furore e fiele”, Mursia, 1983, pag.575), o di ricorrere
ad un attento esame autoptico dell’esistenza per capire “il male di vivere”, il perché del globale disfacimento delle cose, del mondo, del nostro essere “qui e ora”, e di innalzare un’accorata ed ultima “Preghiera” che “dia la possibilità di un altro colpo di dadi, che rilanci la partita e, sia pure per un attimo, ne rimetta in gioco il risultato” (Pasquale A. De Lisio), “Una poesia di sistoli e diastoli per la civiltà occidentale senza l’Atlantide,” su “Proposte Molisane”, Edizioni Enne, 82/2 pag.176, e, infine, di giungere all’Afasia, titolo di un libro successivo, e cioè alla incapacità di parlare e trasmettere messaggi o segni nel corso del viaggio al buio e in piena notte, dove non vi sono “curabili indizi” ma solo “partenze, departs, qui e là” e ovunque “brevi epitaffi”.
Di fronte alle letture, non sempre traducibili, di quel grande tomo che è l’esistenza, nonché alla presa d’atto fallimentare della propria coscienza, incapace di dare una risposta alle domande che più distruttivamente azzerano la logica dell’indagine esistenziale, si aprono le vie del ritorno verso la “Memoria”, un altro titolo dei successivi libri di Colucci, fino a ritrovare in essa l’originario aggancio con la serenità, regredendo in una zona ancora più illusoria e ingannevole come rifugio e “Placebo”. E’ una poesia dal tono novecentesco, senza provocazione oltranzista, magmatica e brulicante di segni e simboli del nostro tempo, fra progetti di “rendiconto” e rifiuto del “consolatorio”, nella presa d’atto della vita radiografata a fondo, attraverso un processo di (auto)analisi che poggia la sua ricerca su un esame differenziale dei sintomi e delle anamnesi, con riscontri critici di indubbia rilevanza, come quelli espressi da Luigi Baldacci in una lettera, (Firenze, ottobre 1975), inviata all’Autore:

Caro Dott. Colucci,
(...) La Sua poesia regge , nel senso che ci dà tutte le coordinate di una situazione: situazione non gradevole, aspra, frantumata; ma è la nostra. E forse non sarebbe possibile rendere l’illusorietà di questa situazione (Placebo) se Lei non ricorresse a quel Suo gioco combinatorio, confondendo le tessere di un mosaico disfatto . (…) la Sua chiave compositiva mi pare molto originale. (…) Il Suo linguaggio è fortemente conseguente ed è estraneo ad ogni cifra di dilettantismo. I medici che scrivono a volte lo sono, anche in senso molto felice: pensi al caso di Tobino.
Potrei soffermarmi più a lungo, ma credo che sarebbe superfluo e ambizioso da parte mia un giudizio più puntuale. Io posso dirLe solo questo: che la Sua poesia ha tutti i caratteri di una moneta che suona giusta e che corre, circola. A questo punto il discorso dovrebbe spostarsi sul sistema monetario, sul quale io possa avere delle idee, ma non è il caso di esternarle, anche perché, torno a dire, sono le idee di un osservatore, non di uno che è dentro alle cose.
RingraziandoLa ancora, Le faccio gli auguri più sinceri per il Suo lavoro e per il nuovo anno.



Preghiera occidentale (1981)

La fortuna di questo libro si lega soprattutto ad un più ampio respiro poetico e tematico: un libro che va ad incidere anche gli aspetti storici della nostra epoca segnata da stragi impunite e terribili guerre: la rivoluzione d’ottobre, i Romanov, Marcinelle, in uno scenario di rivoluzione, con i pacifisti d’America e Martin Luther King, il movimento studentesco in Italia e “le masse” come le chiama Colucci nella poesia dal titolo “Amate grondaie” (pag.81): tutti temi che accanto a quelli esistenziali e autobiografici, permettono l’accesso della poesia nella Storia come in “Lettera da dove” (pag.13). L’egemonia del negativo e l’impossibilità di ricorrere a eventuali guarigioni, col giudizio finale più di tipo purgatoriale che liberatorio, fanno di Preghiera occidentale un “lazzaretto” di storpi e cancerosi, di “mali ereditati” e di “pazienti” all’ultimo stadio, soli sulla battigia, in attesa di un messaggio che non arriverà. Più in generale, si potrebbe parlare di una poesia o di una storia da “ossi di seppia”, un’avventura spietata sotto la luce del sole, al di qua di una muraglia dove si frantumano i sogni e i ritmi del nostro tempo.
A questo punto si potrà parlare di Colucci come di un poeta “sotterraneo”, in grado cioè di sondare a fondo il vissuto quotidiano, fino a produrre strappi e lacerazioni; citiamo intanto certe impressioni di Zagarrio su questo poeta meridionale che “affonda lo sguardo o il “bisturi” sulla “tragicità della vita” e alcune affermazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti quando parla di “pluralità infinita di dichiarazioni, proteste, rivolte che si pronunciano tutte sull’orlo del silenzio, della vita e della Storia”.
“Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe, rivela in sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad organizzare tra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto, se non di salvezza almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò che abbiamo definito il folclore medico: definizioni di stati patologici senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali. Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di profondità spirituali insospettate E la speranza rinasce proprio nell’immagine del dolore che sembrava vanificarla” (Lorenzo Sbragi, su Nostro Tempo, aprile 1982-marzo 1983, pagg. 25-26). Queste citazioni ci sembrano essenziali per condurre il lettore nella centralità concettuale, vero “campo di forza” di Colucci, da cui partono tutte le onde psicoespressive in una operazione poetico-testamentaria che attualizza “l’effimero” del genere umano di fronte ai processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose e all’accumulo forzato degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori.
Entriamo nel campo di una poesia psicosomatica e fisiologica che, adattando il linguaggio della scienza medica (prognosi, diagnosi, eutanasia, autopsia, noan, tranquirit, ecc.), ai vari fatti o eventi quotidiani, traspone in similitudine le vicende umane ampliandone il dato enigmatico, l’interrogativo, lo sforzo razionale dell’indagine, tra veleni e morsi, scarti d’ironia e delusioni. Allora il gioco speculativo di un viaggio à rebours, come ritorno al passato e riaggancio ad un paese innocente, diventa puro azzardo, rischio utopico, imprevedibile sortita, mentre si acuisce “ quel mal di capo / che non cede a niente” e che permane tenacemente come un riflesso somatico.
Personaggio di primo piano di “Preghiera occidental” è la morte laica, senza speranza e illusione metafisica o progetto per il futuro.
Questa “coscienza” della morte fa di “Preghiera occidentale” un volume unico ed esemplare, per quella somma di agonie, di malattie inguaribili, e di sindromi varie, con patologie a lenta evoluzione; tutti processi degenerativi che si ribaltano, fuori metafora, sul destino dell’uomo e ne limitano le vie di fuga o di salvezza. Un’uscita di emergenza che l’Autore ci lascia qui e là chiaramente vedere….

La bella afasia (1983)

Il discorso sul tema “qui e ora” diventa rapporto incomunicante, afasia di segni e di significati. Questa impossibilità di comunicazione dà il titolo ad un’altra opera di Colucci: La bella afasia, e riconferma in pieno il magma psicolinguistico di “Preghiera occidentale”.
Siamo di fronte al negativo, alle morti improvvise, alle eutanasie, al rigetto del passato che non attecchisce sulla felicità, al continuum poetico sul nulla globale di fronte al quale risulta vano qualsiasi prontuario terapeutico, né pare di intravedere, oltre i simboli e le ipotiposi, le variazioni su tema o di scorgere percorsi alternativi, cioè gli altri luoghi meno dolorosi e tristi della nostra esistenza. Anzitutto il volume si affida al suono di una percussione ritmica di un tamburo di latta che ci viene a ricordare il senso effimero delle cose con una cadenza monodica, ossessiva e minacciosa. Si chiariscono anche qui i termini musicali di una orchestrazione tra solfeggi e pause, su uno spartito che tende a trasmetterci il messaggio drammatico e tragico della vita. Il resto è un’attesa di quiete, di esperienze quotidiane che portano tutte a un cul-de-sac, non prima di aver valutato tutte le possibili ipotesi di uscita o di soccorso come nell’incerto May Day in East River nell’ultimo libro (edito nel ’92) di “A fuochi spenti”. La speranza è ancora lontana. Restano i riti; quelli che riguardano i cari estinti, e i nostri assurdi oroscopi: “Settimana insolita / occasione in famiglia / sarà bene evitare e anche il futuro /pane e dolore in do /cautela nei mali salute nuova / a sera un po’ di voglia e di, / fate carità a gente fidata / ai padroni offrite miglio / l’astro consiglia il venerdì / e non mettere niente addosso ai morti”(pag.73), e che rivelano, accanto alla minimalità delle cose, una serietà dell’esposizione della morte che va al di là della pur pungente e sottile ironia.
A questo punto non si tratta più di chiederci dove punterà la poesia di Colucci in quanto già sono delineate traiettorie e coordinate, ma di restare ancorati come lettori alla speranza di un possibile ritorno di quell’Atlantide così cara al poeta ma che non riemerge neppure in “A fuochi spenti”, dove più acuta si fa la dialettica sull’esistenza, in quanto tutti i possibili giochi sono fatti.

Memoria e fuga (1987)

La dedica che troviamo in apertura del volume, sintetizzata nei due versi: “alla memoria di mio padre / mite patriarca (1889-1986)”è significativa di un iter poetico che si snoda intorno al discorso sulla morte, che è poi sempre lo stesso personaggio capace di dare scacco ai superstiti e a chi ravviva nel tempo le figure dei cari estinti che ”bisogna accompagnarli…./ fino al momento estremo / aiutarli a passare in borghese / di là dal ponte fra due Nulla”, mentre le occasioni poetiche sono consuntivi di vita che si sfiammano davanti alle pasque di ceneri, tra angosce del passato e nevrosi del presente. Il volume si propone come momento dialettico con “l’assenza” che resta una minaccia, oscura e misteriosa, al di là della quale sembra impossibile un incontro con la Divinità. E’ un discorso di descrizione oggettiva di tempi e luoghi diversi e di concretezza realistica. In “Memoria e fuga” “prendono risalto, luminoso e disincantato, le figure del pater e della mater... come a simboleggiare…la vita-morte, lo scorrere infinito del tempo, l’approdo forse definitivo, ma senza promesse.”(Carmine Di Biase in Profilo critico di Carlo Felice Colucci, pag. 28 di “Oltranza”, Rivista di Letteratura ed altro, Guida Editore).

A fuochi spenti (1992)

Questo volume è la sintesi di sentimenti riferiti alle storie delle ceneri e del cupio dissolvi esaminati come fattori psicologici e risonanze interiori nel riverbero di una scrittura che ha dato fondo a tutte le possibilità di comunicazione e di alienazione tra il poeta stesso e il mondo esterno, quest’ultimo sempre più agonico e tragico “Non è tempo di ideali, non c’è spazio per alti valori. Tutto crolla, anche perché gli anni incalzano e il cerchio della vita si restringe sempre più, inesorabilmente” (Vittoriano Esposito: L’altro Novecento vol. I, Bastogi 1995).
In effetti qui permangono e si consolidano relazioni memoriali da piccolo spleen, e vedute d’interno con ombre crepuscolari, nella misura di un discorso fattosi più pieghevole e di toni bassi.
Basterà citare alcuni testi “In memoria di Mary e Francis” (pag.12), o “In memoria” (pag.20) che è quasi un pre-epitaffio, oppure “Il cappello nuovo” (pag.28) che colpisce soprattutto per il forte amore filiale, tra riti e gestualità che difficilmente si possono dimenticare, come non può passare inosservato, il sorprendente tragico gioco ironico in “Leucopoesia” (pag.36): un testo emblematico che rivela una visione razionalissima del “corpo” visto in tutta la sua imperfezione e fragilità attraverso la fine delle cellule e della vita stessa.
“Quello che subito s’impone al lettore di questa poesia è un arduo, delicatissimo equilibrio tra senso e paradosso, cortocircuito verbale e ironia…Il poeta mostra un interesse esclusivo per la parola come veicolo di suggestioni fono-ritmiche di associazioni fantasmatiche e immaginative. Ciò gli è possibile perché di volta in volta si fa catturare dal segreto tarlo, dalle tensioni e contrapposizioni, dalla instabile e corrosiva energia vitale che attraversa la natura, la società, l’individuo, la stessa poesia.”(Michele Sovente, Oggi e Domani nn, 4-5 aprile- maggio 94).
Ma scavando ancora di più tra le radici del sentimento del Poeta, si potrebbe intravedere qui e là, qualche avvisaglia di ragionato, sobrio, fugace mutamento, nel senso d’una minore rottura e frantumazione del linguaggio, d’una sua un po’ attenuata babele lessicale, semantica e sintattica d’un maggiore rispetto e ordine per significato e significante ecc. Ma sarà davvero così? E cosa può lasciarci presagire, se ciò fosse confermato, del futuro della poesia colucciana?! Non pare facile a noi anticiparlo, questo futuro, qui e ora…
La poesia di Colucci porta con sé, inevitabilmente, la problematica della crisi dell’uomo e della civiltà contemporanea, per quel sentimento tragico della vita che trova nel pessimismo e nell’esistenzialismo trasgressivo le ragioni stesse dell’indagine. Solo gli piacerebbe fare il cammino “a ritroso”, in attesa del “ritorno degli ostaggi”, siano essi l’amore perduto o l’infanzia col ricordo del “bianco fischio del lattaio”.
La sua è la posizione dell’astante che legge e sottoscrive i segni e i significati del nostro tempo, traducendoli in cartelle diagnostiche che lasciano poco spazio all’illusione e ai miraggi esterni; con una visione altamente laica del destino dell’uomo. Cala il buio, non vi sono più luci per le strade del Mondo e sul nostro destino di trasmigrati e trasmigranti. Conta solo quello che è stato e che accende la memoria come lampada votiva: ma deve succedere ancora qualcosa e incidere nel martoriato tessuto di codesta poesia. Come si dirà nelle pagine seguenti.

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