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lunedì 14 giugno 2010

La parola negata (rapporto sulla poesia a Napoli)

Terza parte
STELIO MARIA MARTINI

Riconosciamo che una sintesi critica su Stelio Maria Martini, non possa essere miniaturizzata in rapide considerazioni esplorative sulle opere espresse o prodotte fino ad oggi. Ciononostante, non ci esimeremo dal riferire sulle categorie culturali di questo Autore, che negli anni Sessanta, si propose nella poesia come nelle sperimentazioni letterarie, con grande vivacità, andando anche contro certe resistenze artistiche e ideologiche di allora che avevano assicurato un periodo di egemonia e di stasi culturale. I primi progetti sperimentali di Stelio Maria Martini (1934), risalgono alla pubblicazione dei fascicoli di Poiorama, rassegna di poesia-visiva, editi da Linea Sud n. 2 Napoli, aprile 1965, redatti dallo stesso Martini, Bugli e Persico, con riproduzioni e dichiarazioni di autori, come Bueno, Spatola, Balestrini, Porta, Pignotti e dove Martini è presente con due Schemi del 62, accanto a varie tendenze (Gruppo 63, Concretismo, Nuova Scrittura e Poesia tecnologica) e, ancora, in Poesie visive; un repertorio antologico a cura di Lamberto Pignotti, Bologna, Sampietro 1965, con Bonito Oliva.
Il nome di Stelio Maria Martini figura, assieme ad altri scrittori e intellettuali, quale fondatore e editore di un nutrito gruppo di riviste sperimentali: da Documento-sud a E/mana(azione), con partecipazioni alle grandi mostre Poesia visiva (Cinque maestri) Carrega, Martini, Miccini, Pignotti, Sarenco, Firenze 1988, e L’ultima avanguardia, Spoleto, 1995. Ha pubblicato la prima antologia italiana di scrittura visuale Schemi- Documento-sud, 1962 e Morra, 1989, Napoli. Il volume riporta i primi esempi di poesia visiva in Italia, in seguito elaborati dal ”Gruppo 70” di Miccini e Pignotti; Turbiglione, Guanda, Parma, 1965, Formulazioni non-A Colonnese, 1972, e Morra 1984; Neurosentimental, romanzo visivo, Continuum, 1974, e Morra 1983, Napoli; Calligrammi di Apollinaire, Morra, Napoli 1984, L’impassibile naufrago, Guida Napoli, 1986; Breve storia dell’avanguardia Nuove Edizioni, Napoli, 1988; Una postilla e altre storie, Mercato del Sale, Milano, 1989, Poemi calligrammi, metri, Marotta, Napoli, 1991, Labentia signa, Ripostes, Roma, Salerno 1993, e La chiave universale, Morra, Napoli, 1997.
Sulla scrittura verbo-visiva Martini ha realizzato veri e propri rapporti interattivi, restituendo alla parola e alle forme fisiche un mondo complementare e plurisoggettivo; da qui tutta una serie di sperimentazioni in opposizione ai canoni tradizionali, già rilevati da Filiberto Menna in La poesia e la voce: La poesia a Napoli (1940-1987), pag, 211, quando precisa che ”La poesia visiva ha scelto il partito della complessità, coniugando codici diversi, contaminando parola e immagine. La sfida alla comunicazione di massa si colora di intenzioni ideologiche, oppositive, assume a volte, addirittura delle sfumature utopiche”.
Tuttavia non si può negare allo sperimentalismo napoletano di aver operato all’interno di una provincia, “dove per un periodo, ….si potè assistere ad una vera e propria rinascita delle attività estetiche”. (da Note sull’attività estetica, la rivoluzione culturale e i situazionisti, di Luciano Caruso e Stelio Maria Martini). In quest’ambito s’inseriscono gli esiti poetici di Martini che fanno ricorso ad un laboratorio di ricerca per attualizzare l’arte plurisensoriale: pensiamo soprattutto a Schemi con i suoi soggetti complementari e primari in tante forme e “tecniche compositive quante sono le poesie presentate, si va così dall’ibridazione verbale, che sconfina quasi nella poesia sonora, alla poesia gnomica, alla poesia grafica e manoscritta, al détournement, vero e proprio di canzonette entrate nell’immaginario collettivo della cultura di massa”. (Luciano Caruso, Per Martini (25 anni dopo), pref. a Stelio Maria Martini, Schemi, pp.5 e 6).
”Un nuovo linguaggio si affaccia alla finestra del mondo poetico; un linguaggio di segni e composizioni diversificate; sovente artificioso, si immette nell’orbita del nonsenso per un sabotaggio quasi barocco della forma, delle tante illusioni dell’estetismo”.(Giorgio Moio, Da Documento- Sud a Oltranza. Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli, su Risvolti: Avernum Poetry n. 1, pag.28, 1998).
Ne riportiamo qualche esempio da Schemi, pag. 21: Désploto! / dall’alluminenza che inconda / l’annio del forte, scudi i crupoli / di plexiglass e idèntica, plongi, al- / lùta le aligioni vui rutili caschi / viano. / Migra i planetaria dessentiti, / Dittàcidi combra, flega, arrìta, aìta!.
Di fronte a questi esiti di autentica materialità del significante, assumono caratteri estetici le fonie in un multiforme cosmo linguistico che si riappropria di inserti musicali come in 2 Canzonette, che danno un po’ la misura di come la poesia possa entrare nel quadro sempre più aperto e generale delle voci e dei segni riportati per pausa strutturale o per divertissement, all’interno di una struttura sempre più trasmutante.
Quanto alla poesia visiva e al suo carattere espositivo, il messaggio sta proprio nel cogliere la differenza tra il segno verbale e l’oggetto ad esso collegato, a livello di semplice interposizione o sovrapposizione della parola-immagine, e che per Stelio Maria Martini corrisponde ad un innesto genetico, quando afferma che l’elemento visivo, a parità di diritti con quello verbale, va considerato complementare di questo perché rappresenta, meglio di quanto non farebbe mai la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente).
E’ evidente che il complesso lavoro di Stelio Maria Martini non consente in questa sede di relazionare ampiamente su tutto il suo iter culturale, trattandosi di uno dei pochi artisti italiani assieme ad Ugo Carrega, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti e Luciano Caruso, conosciuti anche all’estero per l’impegno e il fervore dimostrati nel campo progettuale ed estetico della poesia-visiva; cosicché, anche questa breve presentazione che gli abbiamo riservata, può dare solo un’idea della sua attività, tanto è vero che Egli stesso ci ha fatto pervenire altri aggiornamenti del suo lavoro con l’invio di tre nuovi libretti: Via nel Tempo, pubblicato da Il Laboratorio/Edizioni, Napoli, (1997); contenente otto poemi collages, quattro calligrammi, una traduzione, sette testi in versi, una sua nota, un disegno di Franco Cavallo, una poesia di Mariella Bettarini e un anagramma di Marisa Papa Ruggiero, Edizioni Morra, Napoli, 2001: Tigri e filtri, Edizioni Morra, Napoli, (2001): un nutrito pamphlet di scritti critici intorno alla pratica della scrittura, con diciannove tavole di Salvatore Cotugno e infine Forma sostanziale, con prefazione di Mario Lunetta, Edizioni Morra, (2002); dove Stelio Maria Martini si slega, ma non del tutto, dalle forme letterarie di Publilio Optaziano Porfirio, poeta e uomo politico, prefectus urbi nel 329 e nel 333, a cui si deve l’uso della poesia figurata, quella per la quale Ferdinand Kriwet così si esprime:” La lettura assimilativa dura poco, scivola via e avanti, preleva dal patrimonio linguistico del ricordo i particolari che non ha colto, è per lo più una lettura già informata e predilige scorrere il testo. La lettura appercettiva, invece è più approfondita, dura di più, talvolta dura poco, decifra segni su segni e complessi di segni, non le sfugge niente, sperimenta singoli grafemi, ordina successivamente i segni o i complessi di segni in una compiuta formulazione lessicale. I due procedimenti di lettura non sono determinati soltanto dalla struttura del testo, ma anche dal tipo di lettore; il lettore soggettivo legge in modo assimilativo, quello oggettivo in modo appercettivo”. (Franco Verdi in Quinta Generazione n. 24 anno IV n. 6, pagg.11,12, giugno 1976).
La terza sezione di Forma sostanziale s’intitola “Esicasmo”, e consta di sette poesie in endecasillabi. Certamente, l’antico Publilio Optaziano ha contagiato Stelio Maria Martini, anche se non è da dimenticare il fatto che alcuni tra i poeti più spericolatamente sperimentali dei nostri anni si sono misurati — per svuotarne l’ideologia totalizzante — con le forme chiuse della tradizione.
I testi martiniani sono eleganti e crudeli gemme d’amore, che più parlano del corpo amato più ne affermano l’assenza e l’inafferrabilità. (Mario Lunetta, Prefazione a Forma Sostanziale).
Con questi Esicasmi, Stelio Maria Martini torna ad un proprio spazio poetico di forte timbro evocativo, anche se i toni e gli echi confermano un gusto letterario vicino alla rappresentazione figurale della donna amata, che rivive in una struttura lirica molto simile ai documenti del dolce stil novo o delle rime di Dante; tanto perfetta è la simulazione temporale e spirituale, rapportata ai fatti e alle situazioni del presente, da mimetizzare, sotto il fascino sonoro dell’endecasillabo, la presenza di una Beatrice luminosa e contemporanea.


c O flauto in pugno della bianca donna
la cui anima attiri nella bocca,
ferisce l’aria quella tua colonna,
ma è lei che ti erge, è da lei che trabocca
il miele che si effonde e che s’indonna
quando il suo labbro cerca e infine tocca.
Se davvero io suggessi di quel miele
crederei spenta ogni fiamma crudele.

d Perch’io non spero di tornare mai
con te nella vettura sulla strada
mentre amorosa guidi e te ne stai
tutta in te sorridente ché ti aggrada
la tua persona mia, io penso ormai
che alla stessa distanza ora mi accada
di riguardare accanto a me trascorsa
la tua persona mia, te, allora accorsa.


Accanto a questi esiti d’àura duecentésca, si affiancano pentagrammi verbali come Rondò e Harlot’s House, inseriti in Via nel tempo,che restituiscono al significante frequenze di straordinaria musicalità: una vera e propria operazione di rientro nel cosiddetto dizionarietto dei termini tecnici da cui sono stati prelevati rime e timbri riconducibili ad una psicofonia dalle radici percussive.

Rondò

sparita col crepuscolo
da questa breve stanza
quella vana sembianza
che t’invitava a danza

sottile quell’invito
pensiero della sera
l’ago che t’ha ferito
nell’invitarti a danza
in sua vana sembianza

ma svaniva in parole
il fantasma che illuse
la mente che rifuse
questo rondò di sera
(dalla sezione Passo d’attesa di Via nel tempo,1997)

Harlot’s House

C’incamminammo a passo errante
per la lunare strada sognante
e finimmo davanti all’Harlot’s House.

Da dentro udimmo oltre il fracasso,
alto e distinto in mezzo al chiasso,
il Treus Liebes Herz di Strauss.

Come strani automi grotteschi
componevano fantastici arabeschi
ombre in moto di là da un paravento.

Vedevamo spettrali ballerini
muoversi a suon di corni e di violini:
un turbinìo di foglie nere al vento.

Come pupazzi comandati a fili
quei gracili scheletrici profili
saltellavano simili a birilli.

Si prendevano l’un l’altro per mano
ballando seriamente un ballo vano
tra sonore risate, grida e strilli.

Ora una bambola stringeva al petto
un fantoccio meccanico all’aspetto,
ora sembrava accennassero a un canto.

Ora invece un’orrenda marionetta
usciva a fumare una sua sigaretta
come se fosse viva per incanto.

Allora dissi rivolto al mio amore:
ballano i morti coi morti, è un orrore,
un vortice di polvere in caduta!

Ma lei sentiva il violino e lasciò,
lasciò il mio fianco sinistro ed entrò,
entrò il mio amore nella casa perduta.

Ed ecco di colpo quei suoni stonarono,
i ballerini il ballo arrestarono,
cessava con il valzer l’impostura.

E giù per la lunga, immobile strada
nell’alba grigia di fredda rugiada
un brivido corse di bimba in paura.
(da: Via nel tempo, 1997)


UGO PISCOPO

Il surrealismo rimane nel fascino di molti poeti uno dei tanti modi di automatizzare la scrittura del sogno, superando il realismo stesso nel momento in cui appare insignificante il razionalismo dell’arte borghese, a favore di un linguaggio derivante dall’inconscio, tra istintività e automatismo verbale, come quelli espressi da Ugo Piscopo (1934), e consequenziali di un Io, diviso tra mondo patriarcale e mondo contemporaneo, nell’addensarsi di esperienze esistenziali e private, e di realtà socio-ambientali, d’autentica connotazione meridionale, come in Catalepta (1963), con i suoi andirivieni ermetico-neorealistici, a più ripiani poetici e convergenze figurative, o in — e — (1968), “ che non è la vocale di Rimbaud…ma la congiunzione di interrelazione, il continuo inceppo di tante parole….comunque, sempre una descrizione, quasi una storiografia, ma alla maniera dei cronisti medievali che raccoglievano tanta roba”, pag.5: tutta una commistione di inserti plurilinguistici, sigle pubblicitarie, note contabili, minime citazioni, passaggi dialettali e stilemi vari che spianano la strada al volume Jetteratura, Lacaita, Manduria, 1984: un repertorio poetico caratterizzato da collages, brevi inserti da tabloids, forme verbali evolutive e iperesometriche; in un canto a tenuta poematica armonizzato da un poeta del Sud, che sente a modo suo e drammaticamente, l’insoluta problematica dell’essere tra coscienza ed evanescenza, tra mondo rurale e mondo industriale, dove si incastonano spazi figurativi e psicologici di schietta trasmissione reale e memoriale: “Più sicuro sarei dietro il tronco materno di un pioppo /con la polpa buona per la madia bianca per il pane / e con la corteccia spaziosa a culla o piroga / Più felice sarei che all’ombra screpolata di quest’olmo antico / fra questo spreco di ricordi di cieli lagunari thomasmanniani / dove teneri riccioli dell’ora d’opale si versavano in latte / sulla traccia bianca del mattino “ (pag.21).
L’occasione poetica è spesso densa di sollecitazioni culturali di fronte ad una società irretita dai messaggi della civiltà dei consumi. Da qui la co-gestione di progetti verbali che vanno a misurarsi in stili e tematiche diverse: formando un piccolo avamposto di scrittura realizzata secondo le suggestioni di linguaggi multiculturali: tra estratti di prosa dei fratelli Grimm e di G. Anders: un libro certamente non provvisorio per via di quell’accumulazione timbrica che si fonde nella giusta coesione del rapporto poemetto-prosa, dove spesso la parola è oggetto di accentuata polimetria, e di pura manipolazione lessicale (consonantica, allitterativa), in cui la memoria, che è la parte più vitale e meno disgregatrice, si dipana linguisticamente in una vivace successione del “pensiero parlato”, vicina a tratti, al dinamismo presqu’automatique surrealista. (Luigi Fontanella, Poesia a Napoli negli anni Sessanta. Una Campionatura, La poesia a Napoli 1940-1987, pag.170). In effetti, e soprattutto in Jetteratura, più che nel volume Catalepta e in quello dal titolo — e —, si condensano variazioni tematiche che spaziano lungo le strade della nostra civiltà, tra ironia e sarcasmo: un vero e proprio materiale di genetica letteraria, attraverso un discorso che rivisita luoghi e culture diverse messi sotto esame e criticamente relazionati.
Di diverso approdo semantico è il volume Quaderno a Ulpia (la ragazza in mantello di cane), Alfredo Guida Editore 2002, che sembra distendersi su piani formali meno complessi che si uniscono in un unico discorso memoriale per la morte di Ulpia, docile cagnetta che rappresenta per il poeta il tacito legame di complicità tra uomo e bestia nella “pena di vivere” (Gennaro Savarese, Prefazione al volume Ulpia).
“Mistero” e “grazia figurata” sono invece i termini di una crittografia vegetale riportati nel recente volume Haiku del loglio (Guida, 2003), nel quale il Piscopo riesce a creare un sorprendente erbario da cui ricava correlazioni verbali d’illuminante rifrazione.
La campionatura poetica che presentiamo, è apparsa su Secondo Tempo — Libro Tredicesimo - Marcus Edizioni, Napoli 2001, ritenendo i testi un ulteriore passo in avanti della variegata transizione linguistica di Piscopo, il quale recupera alcuni incipit a cadenza tradizionale come”Torna a fiorir la rosa o la favola della parola” o “Volge al fin la sera del dì di festa” incastonati in una struttura lirica, accanto ad altri esiti con i paesaggi, desolati e maledetti e i tratti verbali metaforici “Cane è questo vecchio Sud “Cane nero dentro il vento che scroscia la furia / al crocevia che porta a Crotone”, tutti grafitati come supplemento di lettura e di proiezione dell’esistente.
All’attività di poeta e di narratore, il Piscopo ha fatto seguire interessanti contributi di critica letteraria e d’arte con i volumi Alberto Savinio (1973),Vittorio Pica. La protoavanguardia in Italia (1982), Futuristi a Napoli. Una mappa da riconoscere (1983), Diego Valeri (1985), Massimo Bontempelli. Per una letteratura dalle pareti lisce, (2001).

Fughe e silenzi germina la parola

Torna a fiorir la rosa o la favola della parola
mattutino risveglio della sera strazia in rossi barbagli
roride ombre disegna d’acque e di trinati capelvenere
controluce sulla bianca redola educata tra le aiuole

Ma noi noi tu e io in avaria alla gialla deriva
ci sconnette e arretra e assenta fuori campo oltre la scena
ombre vane che siamo d’un incarnato d’echi
non si sa dove soli soli eravamo e senza

Smarrita la donna in sé s’acciambella e fugge
strappato alla grazia il garbo di luna degli occhi
tanto può bellor di rosa il tuffo d’un bouquet
che irrompe a la chiusa imposta con un ramicel di fiori

In villa al crocevia dove arsi silenzi controvento
si dissolvono come in specchi labili postille
e illuse orme simulano indizi tracce intrighi
un frullo d’ali di cristallo marezza luci decembrine. (1990)

Compagnonnage

Volge al fin la sera del dì di festa
più lunghe l’ombre più sfuggente il canto
ho preso campo anch’io in Piazza Grande
solitario compagno di tenda
d’argonauta intento allo specchio del sogno
se mai la curva lossodromica cambiasse segno

Per conto suo d’un altro montagne di parole
scavai che fiorissero atolli nei mari del Sud
doveva svegliare il cane che dorme nel cerchio del Silenzio
cacciare gazzelle di suoni manguste dell’ombra che danza
aveva scelto ai dadi d’essere uno
ora è solo uno che essere poteva

L’ho visto essiccarsi in vitro fluorilucente
farsi geometria di rughe nel vento del tempo
per lui bracciante invano fui e giornaliero
voce che invoca cava dagli abissi
eco che tonfa in miniere abbandonate
e mette in fuga sciami d’anime morte
con le pupille roche e sabbiose dei diseredati (1991)

Stazione di Dugenta

Sei scattata stoppino scazonte
a un supposto richiamo
alto sulle pozze di pioggia
della stazione di Dugenta
che suona di carta d’argento
a offrire a chi
lo scopino d’una zampetta rattratta

Partito il treno t’ho lasciata
musino puntato a indagare
se un filo passi nonostante tutto
invisibile di seta che sale (1998)


FRANCO CAPASSO

Nato ad Ottaviano (Napoli) nel 1935, Franco Capasso ha fatto parte della redazione di Pianura ed è stato redattore di Oltranza, diretta da Ciro Vitello. Già con Punto barometrico, Pianura/Itinerari, Ivrea 1976, e Germinario, Edizioni Altri Termini, Napoli, 1979, si chiariscono i termini di un discorso poetico esposto verso il negativo esistenziale, attraverso reperti testuali, febbrili ed epigrafici, che tolgono luce al mondo e inducono il poeta ad interrogare e ad interrogarsi sugli aspetti del vissuto tra scatti di memorie e “insolite cadute”: “Naturalmente si sparirà / Naturalmente si andrà via per le terre sommerse” e che sono momenti di amara saggezza della vita trasferiti nel volume Poesie del Fuoco, Marcus Edizioni 2000, le cui analisi psicologiche sono rivolte sul versante di una scrittura soggettiva, che si appropria dei temi dell’alienazione e della tortura quotidiana come l’espresse Baudelaire nella metafora dell’àlbatros, catturato che porta nella prigionia tra gli uomini un dolore d’esilio.
Non è certamente la lirica dei passi dolci quella di Capasso, perché le cadenze sono forti, e ricalcano i procedimenti di sedimentazione e di annullamento del proprio Io, e del senso più generale di una poetica tortuosa e autobiografica fatta da congestioni e cogestioni tutte fallimentari, da ossimori distruttivi, come acqua e fuoco, tempo e dolore, che si dicotomizzano in un rapporto lessicale, tutto orientato verso il racconto pluriprospettico e intersoggettivo, come dolorosa indagine estensiva sul mondo, che riconduce ogni scatto psicologico alle più sottili analisi critiche delle cose.
Ciò avviene quando sono decifrabili i dati d’interpretazione dell’esistenza e i segni del bene e del male all’interno di una solitudine privata, che scorre lungo le strade dell’anima, fino ad egemonizzare un linguaggio logico e drammaticamente inquietante.
Le interferenze esistenziali producono situazioni espressive irruvidite, quasi mai levigate da una visione serena. In questo caso, la scrittura diventa soggetto dei percorsi mentali, acida sigla dell’aridità poetica e spirituale, scontrosità relazionale, in un opus metricum di iterazioni ossessive, che riportano in superficie: voci, suoni, paure ataviche, cupe solitudini, insoliti avvitamenti psicologici sottoposti ad un isterismo linguistico, che avoca a sé stati crepuscolari e di angoscia. “Ne viene fuori, spesso potentemente, un personaggio che richiama l’accecamento medianico e notturno di Nerval e la deformazione abietta e lucidamente voyeuristica di un Bacon. Lo sperimentalismo di Capasso denuncia chiaramente, nel volume (Orme sul Lago Salato, Altri Termini, Napoli (1983) con prefazione di Dario Bellezza), la propria ineliminabile carica autolesionistica: una sorta di atteggiamento, unico in Italia, di espressionista che aggredisca soprattutto se stesso”.(Mario Lunetta: La poesia a Napoli (1940-1987, pag. 267).
Una poesia di questo genere si riflette inevitabilmente nel reportage onirico-esistenziale. E’ dunque questa la vera voce di Franco Capasso, che formalizza una propria dimensione poetica, puntualmente olocaustizzata dalla realtà e dalla presenza dell’uomo insalvabile. Così la poesia tende a isolarsi, a farsi come dice Lunetta, “tana”, luogo primario per riprendersi tutti i fossili psichici, come la nostalgia, per esempio, oppure la desolazione e il senso più triste del vivere silenzioso e in pena. E’ una poesia di disperazione esistenziale, del tragico della condizione umana (malattia, febbre,“male di vivere”) che possiede addirittura un rilievo biologico, corporeo. Patologico, se adoperiamo il termine scomponendolo nei suoi due elementi, pathos e logos. (Gianni Scalia - 4 poeti “Napoletani” negli anni Settanta: da La poesia a Napoli, (1940-1987) pagg. 234-235)-.
La poesia di Capasso rimane ancorata allo spirito del nostro tempo e all’ineludibile senso del taedium vitae, di fronte alle unità d’ispirazione sul tema del fuoco, simbolo di nascita e distruzione, ipnosi poetica e transfert psicanalitico all’interno di caverne impercorribili, dove tutto si carbonizza, e non v’è speranza alcuna di ricomporre la stella deturpata; altra metafora e segno figurativo delle tensioni psicoespressive che si agglutinano intorno a più figure simbolicamente distrutte dal mito dell’incendio (Marcello Carlino), superato il quale, il poeta prova a immettersi in una nuova identità, per riordinare le frammentazioni emotive, pervenendo con l’ultimo volume dal titolo Miraggi, Fermenti, 2003, ad un universo poetico, ancora più febbrile e pluricellulare.

Naturalmente si sparirà
Naturalmente si andrà via per le terre
sommerse
e il vento che soffierà
dietro il monte
Pianse di pianto dirotto
Il suo destino non conoscendo
Sapendo soltanto della sua morte
Scrisse il suo nome sull’arenaria
del Tempio
Poi raccolse tutte le foglie
che il vento aveva sospinto
fino all’argine del pianoro
così rosso
che non distinse
più il sole
che cadeva sulla piana
sconfinata come il mare sconfinato
(da:Poesie del fuoco, 2000)


****
Mi dissero del vento
Mi dissero della pioggia
Mi dissero del fuoco
Oh come è lucente la sera!
Una voce mi chiamava ed era il vento
Una voce mi chiamava ed era il fuoco
Una voce mi chiamava ed era la stella della sera
Oh com’erano lontane quelle voci!
Com’era vaga ed indistinta
la mia stella deturpata
(da: Poesie del fuoco, 2000)

****

Ora che non è possibile più partire
Che gli occhi hanno sguardi ciechi
Io non vivo così preso dalla vita:
banale forma non formata dall’andare
: un quieto farsi morire
- duro monito dei vinti!
La stanza chiude il mio sonno
La stanza tiene i miei battiti
: si apre un mattino gioioso
al mare corre
agli azzurri
ai rossi
ai blu perenni
: un sole niveo
un sole bianco
un sole
rosso
Oramai si confondono i miei colori
Si confondono le mie giornate
Mi sono fatto di neve
ed ho una lucida febbre
Ora non mi chiami più
Presso il bosco ho scelto il mio albero
Presso il mare ho scelto il mio colore
Randagio motore che và
Terra mia che non ti conosco
Amore mio che ti ho perduto
Voci più non ci sono
ed echi
e risonanze
Oh immagini mie che vi ho perdute!
(da: Miraggi, 2003)


CIRO VITIELLO

La poesia di Ciro Vitiello (1936) nasce in pieno clima di Letteratura del Rifiuto e di ciò che rimaneva della politica culturale post-sessantottesca, a cavallo del 1975, quando Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, pubblicavano la loro antologia Il Pubblico della poesia.
Poeta e critico ha dato alle stampe numerosi volumi di poesia: Corpor.azioni, Altri Termini, Napoli, (1975); Ciclica, Guida Editori, Napoli (1979), Apocalipse, quattro (1980); Cantico d’Erugo, (1980): Le resistenze (1983); Didimo, (1983); Suite (1984); Accensioni, (1991); Rapimenti, (1992); Il gioco degli errori, (1994; Baara (1995); Quisquis o delle solitudini (1996); Origini d’amore (2001); Il male sorgivo (2001); La tenue armonia, (2003); oltre a vari testi di narrativa e volumi di critica.
Sono queste le sequenze editoriali più rappresentative di un poeta che ha dato visibilità alla poesia in Campania, con una struttura operativa di forte vigore espressionistico.Vitiello ha operato sin dall’inizio nell’ambito di uno strutturalismo bio-psichico, commisurato alla forza degli elementi lessicali, con dei tabulati poetici innestati su stilemi produttori di stampi psicoespressivi, riflettenti gli esiti cicatriziali d’un Io pluriscisso e solitario, in cui confluiscono i frammenti del mondo e la percezione di un ineludibile nihil, prima figura originaria del nostro hic et nunc, quale risultato facciale dell’indagine perlustrativa.

Esce così allo scoperto con Corpor.azioni e Apocalipse, quattro, un profilo di poeta che si espone ad un linguaggio caratterizzato da continui avvitamenti logici in un nichilismo nicciano, come risposta all’incantabile canto della vita.
Quella di Ciro Vitiello è una poesia di latenti nevrosi, che si scaricano sul discorso poetico, tra metafore e addensamenti onirici, che si ricompongono in una identità verbo-psichica, che fa del vuoto di valori un “pieno” semantico, quale convergenza d’ironia, decorazione, stile del non stile, virtuosismo prosodico e psicologismo devastato, allettante concentrazione di tecniche per la composizione di un cosmos interamente poetico (Stefano Lanuzza su Apocalipse quattro; sintesi riportata da Mario Lunetta in La sfida al caos: la poesia a Napoli negli anni ottanta, La poesia a Napoli, (1940-1987, pag 275).
Le zone oscure sono attraversate da bagliori distruttivi e luciferini, da coreografie in bianco e nero, dove passano e si alternano personaggi, visioni, tragedie improvvise e paure profonde, e l’io, ormai svilito, stanco, si ripiega su sé, retrocede nella propria memoria, ed è assalito infine, nel tempo morto, da uno spaventoso dubbio, cosa sia oltre quel passaggio a livello, il baratro o la salvezza, così come emerge dai poemetti in prosa ne Il gioco degli errori- Il romanzo della ferita e delle solitudini-: un vero e proprio Cantico alla Morte più che all’Amore o alla Vita, di fronte a un mondo sul punto di collassare, dove il futuro non è mai calcolabile, necrotizzato dal dubbio con esplicite dichiarazioni “oh come precipita questo grattacielo di cristallo, e precipito verso il nulla di questa luna/ / che veleggia incontro al sole, che ritorna alla sua vela lungo l’asse / meridiano, sulla paludosa infinitudine, questo postremo crespo d’apocalisse /, io manico volgo in albero per altro mare /.
Questa tematica si slarga nel tempo man mano che l’excursus poetico s’inoltra e si aggroviglia nelle reti molecolari del nonsense delle cose, in cui tutto si perde nel freddo rapporto con l’esterno relazionato con una scrittura fortemente tensiva che si espone davanti al nulla e ad un ipotetico slancio di là dalle nebulose apparenze e sguardi oltre l’orizzonte.Non sono pochi i poeti che hanno sviluppato un discorso intorno al tema del viaggio della vita. In questa indagine non si sottrae Ciro Vitiello con i suoi scambi frequentissimi di visioni e soggetti di dispersione pulviscolare, nella continua ed ossessiva mortificazione della realtà, con una poesia noir, spietatamente sincera, che rasenta l’ipomania e la tendenza a desertificare il paesaggio esterno e quello mentale.
Ed è poesia che convoca una moltitudine di ricognizioni allucinanti, allegoricamente trasposte e correlate con il poeta stesso, tanto che corpo e anima si integrano e si perdono in un mondo larvale, di una vita-non vita, tra la dissezione del reale, e la metafora del vuoto, in cui tutto si riduce a mera illusorietà, nella progressiva distruzione dell’Io-astante.
La parola compressa dai circuiti psicologici, anche quando ha affrontato prove terribili, con tematiche universali, come la presenza della morte, torna a farsi scrittura amara e conflittuale di fronte alla realtà, indagata in ogni suo aspetto, mentre si formulano messaggi che ruotano intorno alla vita, per testarne il gioco dell’esistenza e dell’inesistenza.
Si veda, ad esempio, quello che riteniamo un caso esemplare di asincronismo e scissione verbale nel testo Sonata 21 (adagio),pag. 20, da Baara, che frantuma in balbuzie foniche un momento di autentica emozione di fronte ad un dramma familiare, che non esclude un’imitazione del pianto del poeta, attraverso il taglio delle vocali e il vuoto connesso alla frase dilacerata: (la mamà muore all’hòpital sul mar mo bian co / e le sue ma ni intri do no i rosa ri / gli occhi assorbono aperti la lu ce di di-o / e li vi do è il la bbro del morbo / La mamà parla l’inno cen za del dio mal-ce-la-to / “i-o n-e-l n-o-m-e del sem-pi-terno t’ho cu–lla-to / ho rett-o il can-dore con le mie ma-ni vo-ti-ve / con i pa-ni e i sa-li“i-o m-a-m-à c-a-r-a nel tra-collo di questa di-memsio-ne / ho bene fi-ca-to- e ann-ullato i con-fini che ci sepa-ra-no- / nel fuo-co immi-se-ri-t-o / ti por-to in me da tan-to / e obbi-di-sco a ogni tua in-tima vo-ce” (sei vocina / a imo di pre-ce-tti).
“La poesia diviene così dizione, apertura vocalica, teatro in cui i pensieri, rifatti carne e reinventati come personae, recitano il loro dramma per germinazione”. (G. B. Nazzaro in Dibattito col poeta, Ilitia, Edizioni 1997, pag. 96). Ma è anche lo stadio sedimentato della umana dispersione, locazione dell’egocidio, da parte del poeta, che in Quisquis o delle solitudini di Marcel Mahaut, Benolr Editeur, Paris (France), riesce a identificarsi in una proiezione psicanalitica nella dispersione degli elementi sensoriali e della rappresentazione dell’erranza. Meno vincolato ai ghirigori di un errabondaggio esistenziale è il volume Il male sorgivo: una sorta di Canzoniere collocato fra transiti di memoria guasta, arditezze festose, liquidità e trasparenze, voli e voci, nostalgie di purezze incontaminate e registrazioni di mutamenti regressivi, percorsi della mente e della psiche. (Luigi Reina, Prefazione), dopo le cupe analisi sul Mondo, che rimandano alle conclusioni inquietanti di un Holderlin e di un Kafka, di un Baudelaire e di un Eliot, in un notturno dominato dal fiore del Male o Baara, che preclude qualsiasi passaggio aurorale, per via degli stessi elementi logometaforici attestanti il tempo della fine e della perenne crisi dell’uomo.

****
frontale mi sei, sole, sulle facce ti spappoli, io inanello
la rosata sposa: da questa loggia l’aria spaziale mi origina,
tu mi schianti accogliendomi tra le tue braccia:
mentre la sosta dura, la lingua si corrode, formiche vanno
senza coesione sul selciato, già l’ultima ombra mi copre:
il moto è muto né alcun battito di fiore s’ode:
dardo di pipistrello acceca voluttà e viso, e migrare
in terra estranea non più sana: cenere, mi smarrisco
tra chele, qui l’indifferenza è malanno.
(da: Apocalipse, quattro, 1980)

Interrogo il dubbioso

Stasera ci associano le trepide favelle,
tra poco, nell’arcobaleno, tu madre, raccogli giacinti
al tuo sposo gioioso. Solo, io al tuo cospetto ramo
e fuoco mi trovo, rammemoro “ho vissuto
per sostenerti”. Interrogo il dubbioso enigma
della favola che spicca al gelo del cuore:
nel nostro giardino la luce è vuota e i mattoni
della maestosa loggia splendono al sole,
anima mia allucinata.
(da: Accensioni, 1991)

****
oh calda casa, mia contezza e ancora speranza, pudica casa, con le
sedie a forma, il mio corpo è integrato alle forme, vivo nel traman-
do come un fossile o un’anforetta nella teca d’un museo, rorida-
mente, mentre non più torna dedalo non più sorge ulisse, ma
discendo in bici per piazza Santa Croce verso il mare, il porto,
sotto le maestose mura del palazzo fortino, perché mi soffii sul
viso così peregrino, vento, d’una sera mortale, densa di mesta acre-
dine, sul mio deperito abbandono, nell’attesa d’un tempo morto.
M’aspetto dal balcone o dalla finestra, tornare e dove e quando.
(da: Il gioco degli errori- Il romanzo della ferita e delle solitudini, 1994)


ALESSANDRO CARANDENTE

A indirizzarsi verso una poesia aperta a varie soluzioni formali e lessicali, pur restando nell’ambito di un dire perfettamente vigile e controllato, con qualche eccezione nell’uso ludico del significante, visto più come pausa distensiva della propria scrittura in versi, che come vera e propria acquisizione dello sperimentalismo asintattico e asemantico, è Alessandro Carandente (1958), autore di diverse raccolte di poesie; operatore culturale, direttore della rivista Secondo Tempo, traduttore dal francese di A la lisiére du temps (Al limite del tempo) di Claude Roy.
Già con la prima opera: Passo vegliante del 1982, ci sono modanature stilistiche che affrontano temi e miti sorretti da brevi supporti verbali tendenti a ripristinare la figura del significante nelle sue diverse metamorfosi.
Pensiero e forma poetica si restringono in soluzioni dichiarative come sintesi della realtà, accentuando le impennate logiche sul terreno dell’esistente. Il frammento e la misura breve del verso accentuano l’esposizione verbale fatta d’illuminante assimilazione: “In questa strada si perde la memoria / si può solo scavare profondo nell’azzurro / scolpire nella voce il moto parlante del respiro / e ascoltarne il suono intrecciato cadere /”.
Carandente “Sin dall’esordio si è connotato per la tecnica scaltrita e la consapevolezza teorica del fare poesia. Sotto l’apparente patina di lacca lirica c’è la riflessione critica e il momento speculativo del linguaggio che s’interrogano senza sosta sul proprio fare poetico. L’esplosione ritmica è frenata dalla pausa riflessiva, dalla tensione del dire. Lungi dal consegnarsi ingenuamente alla positività dei significati in atto, avanza là dove non si può più andare, in quella terra incognita dove il senza nome muove relazioni per esistere.A partire da Ecrivoci, Extravaganze, screzi d’alfabeto, Il supplente e Bon ton bonsai bonbon, invece, il linguaggio ha invertito bruscamente la rotta, dall’azzeramento ha viaggiato verso l’esterno con cui non ha mai smesso di dialogare, in euforica contaminazione, e di reagire all’alienazione consumistica in atto col giuoco traslativo e la freschezza del paradosso dell’evidenza”.Questa sintesi critica, così esplicita nella esposizione, la troviamo in una nota bio-bibliografica, come guida alla lettura della poesia di Carandente. Infatti, Egli avanza là dove non si può più andare e pone già un problema di fattibilità della poesia, quando gli stilemi e la forza espressiva del dire si riducono o si annullano in un oltre letterario cui è impossibile superare. Allora la struttura del testo viene riomologata e asseverata ad una forma di scrittura, quella per la quale il poeta stesso muove nuove relazioni per esistere con la parola, aggraziata da effetti surreali. Resta difficile, in questo caso, conciliare verbo ed emozioni, anche perché l’idea di poesia si restringe in imprevedibili passaggi verso plurime oggettivazioni portate tutte sul versante dell’essenzialità come ad esempio in Passo Vegliante che si connota soprattutto come resistenza al sentimento, conducendoci verso una lirica sassosa e geologica, centro del mondo e della fisicità delle cose, presenti anche nel volume Corpo in vista dove circolano rapidi ecogrammi del subconscio, scatti umorali, frantumi della realtà e accenni psicoesistenziali, nell’innesto delle metafore e delle analogie, collocate nella più completa eterogeneità del significante completamente disaulicizzato. Sono questi i paradigmi operativi con i quali il Carandente realizza una propria scrittura fino ad approdare, ad una materia poetica da scarnire e scandagliare. Altro non è possibile perché la lingua fa le fusa, glossa in esclamazioni, vezzeggia il protoritmo; svanisce l’utopia di intrappolare il mondo in regole grammaticali (1): si dileggia nel divertissement come nell’ultima sezione Arzilli Mirtilli del volume Corpo in vista, Ilitia Edizioni (1995), dove la propensione allo sperimentalismo crea specchi di rifrazione e di congiunzione con le tecniche citazioniste, fino alla creazione del suono onomatopeico associativo, di uguale misura e intensità, come dissoluzione e celebrazione della parola-guida, produttrice dell’effetto fonico a sorpresa, ancora meglio rilevabili nel recente volumetto Bon Ton Bonsai Bonbon, Marcus Edizioni, Napoli, 2001, che è un euforico nonsense, un piacere puro in punta di lingua, affidati alla rotazione avvolgente di una ricorsività ritornellante con relativo aggancio interno allitterante, come si evince in quarta di copertina. Nella poesia di Carandente ci sono parole, c’è il senso, c’è un flusso continuo di immagini sorprendentemente teso, drammatico, acceso, che va oltre il gioco della ricerca analogica (…). Una poesia siffatta non può prescindere dalla negazione che si estrinseca nell’ironia. (G. Battista Nazzaro)
(1) nota introduttiva del Carandente nella sezione Arzilli Mirtilli di Corpo in vista.


le api ronzano con voce luminosa
(avidità di volo per aria incendiata)
s’incurva l’alito in un’azzurra abitudine
e il corpo irradia immagini incarnate
oh tenerezza indifesa del rossore!
entro nei tuoi occhi per la tua bocca
guizza un sorriso gonfiato d’amore
(mutevole onda che al richiamo s’interna)
sbocciano baci brillano i riflessi
palpito in ascolto affonda e si rischiara
pensiero e nudità alfine corrono paralleli
agile trasparenza abbaglia oltre la menzogna
(da: Corpo in vista, 1995)

****
i gusci d’amore
hanno ombre di sale e suoni di morte
nominati e dispersi in mutevoli pieghe
sono pietre che vanno in rovina
e ritornano torri
appena la bocca infuria e la ventata incendia
sono nomi che affondano
che migrano per rinascere ancora

****
entra la notte con il suo passo di notte
rimembranze latenze accattivanze rinascenze
irrecensito il dentro si allarma
baratro terrestre inauditamente inedito!
arsura plurale! l’ora verticale precipita
quest’acqua che mi sospende
quest’acqua è tutta una sospensione!
all’imbrunire impaurisce abbuia raggelata
la notte imbavagliata tacita d’amarezza
impallidita agonizza lungo lo scoramento
(da: Corpo in vista, 1995)


TOMMASO OTTONIERI

La poesia di ricerca in Italia trova in Tommaso Ottonieri (Avezzano 1958), uno dei più tenaci sperimentatori della cellula linguistica, quale corpo e materia informe e struttura a finale, finalele, ica sperimentatori della cellula linguistica che alla fine diventa corpo, materia in-forme, atipica, nel connubio interfacciale tra prosa e poesia.
Il materiale a disposizione è molteplice, considerato anche il campo di lavoro nel quale opera l’Ottonieri; tra riciclaggi letterari, permutazioni, interferenze e trapianti verbali: un glossario a tutto spiano, di manipolazioni etimologiche, con innesti citazionali, gestiti come reagenti in una struttura linguistica che accede e sprofonda in un mix di barocchismo pirografico di quantità e qualità estreme, fatte di verboritmi e di concatenazione di modelli operativi o di prototipi della forma. Un lavoro di proposizione e oscurità, d’anarchia e ribellione è alla base della tensione linguistica di tipo autre da parte di Ottonieri. Si vedano, ad esempio, i transiti caotici e allitterativi in Due brindisi a Eufrosina da Contatto, Cronopio, Napoli, 2002, pag. 119, dove le cadenze onomatopeiche e le assonanze producono un insieme di artificiosa ricerca del significante, minuziosamente cadenzato nella rima: “Eufrosina, s’affina, rosina, topina, s’inchina, m’inchino / la froge per foga si frolla ti frulla ti fruga la falla- / ti frulla alla polla -, oppure le designificazioni e l’agrammatismo in Ipertrofica In Explicit, pag.111 e in Lipotronica remix, pag.112, che rivelano una metamorfosi linguistica verso un nuovo scambio delle radici etimologiche: “Io da grandie, vivriò nèle groenlandie. gGià deciso. Lì almèno glaccio, lì almeno ri fioriscon cavolfiori” /. L’ipotesi più ragionevole che si possa trarre da queste formulazioni letterarie è che esse simulino attraverso un passaggio bio-psichico un extra-linguismo paragonabile a quello di Jabberwocky di Lewis Carroll, come forma di una lingua ipotetica e inesistente. Queste proposizioni linguistiche restano plausibili soltanto se si accetta la lettura come una variabile di quella canonica e ufficiale.Già Antonin Artaud fece qualcosa di questo genere, con le sue poesie inventate avvicinandoci ad un mondo fonetico e parossistico, mentre Gilles Deleuze in La logique du sense, ha giustamente spiegato che questo tipo di linguaggio è diventato uno dei modi più efficienti per poter pensare-sentire il mondo contemporaneo.L’informazione poetica è destrutturata nel caos dell’arbitrio fonolessicale, all’interno di un linguaggio automatico e simbiotico, dove il testo è corpo mutevole del sistema verbale, fino a ipertrofizzare memoria e lingua e ad innestare aggiunte prosastiche e ipoliriche. Il risultato è un ostico avvicinamento alla plasticità della lingua. Si tratta, più in specifico, di un linguaggio “intermediale” che “su una miscela verboacustica intensamente espressionistica stipa attriti e interferenze, in uno spazio in cui convivono frantumati, pubblico e privato, commistioni di pronunce e tradizioni” (Niva Lorenzini: La poesia italiana del Novecento. Il Mulino 2000). Del tutto proteiforme a noi sembra il carattere inventivo-culturale che si espone in più sfaccettature ricomprese in un discorso, che contamina e riprogetta continuamente la parola, verificandone la resistenza nel labirinto dei significanti: da qui gli innumerevoli contatti e prelievi citazionali. Già nella sua prima opera Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, Feltrinelli, 1980, emerge un catalogo di lessicofonìa sperimentale che pone le basi verso prove linguistiche di diverso campo semiologico. Basti pensare ad Elegia sanremese, Bompiani, 1998, nella quale l’Ottonieri ricorre al supporto sonoro del CD, per fare interagire diversi sistemi artistici, o alla miscidanza di lingua e dialetto, una lingua spesso quasi afasica…ottenuta riciclando scarti di prodotti, parodiando merci, eventi mediali, ariette di canzoni (Tommaso Lisa),
Ma di fronte a tanto sperimentalismo, Ottonieri sa anche abbassare i toni e nella sezione Il Soffio della Terra pp.78-79, il tecnicismo linguistico si raffredda in un mite e doloroso sentimento di fronte alla Morte che materializza nella terra, corpo e sangue, occhi e storia umana, come un lievito che si gonfia giorno dopo giorno, e che pure lascia nei sopravvissuti le inestinguibili radici della memoria.

Ipertrofica In Explicit

(78 incipit, versione)

Io da grandie vivriò nèle groenlandie. gGià deciso. Lì almèno glac-
cio, lì almeno ri fioriscon cavolfiori. Già deciso, eh?! E poi crèsco. mi
allattan le rènne, ciuccettine, rosette bèle, cavalch’ò ri cagni, lì almen
crèsse la lunda, ‘ l sòl, e poi, la motte. ‘Uciè motte, lì, e tutto giorro, mi
nutriscan le rènne, le àlci dòlci, gioco e pattino, vivio negl’iglù co-
m’un indù, scivolo sull’acca, mi gèlo ‘r cùlo, e vi pàttino.

(atropina remix)

Io se grundie, vivriò ne le groenlundie
Lò deciso.
Lì al meno è glasso, lì si spunta cavol da’ fiorde.
E poi, ci cresco.
Ghiaccio cristallo.
Scola de ll’Occhio.
Sempre plù grundie, ‘scresce.
Lì, milùccica le gémme, una per una, di granchie, e lechele.
Che mi ci accuccio, alle fanghe, atropa alla pupilla, il soffio de
lli aracni.
Lì al meno o vunque mi slunga.
E Lùnda spegne e ‘l Sòl, ed e la Motte.
Tutta Mòtte, sì, e bujo a il giòrro, si smungano i licheni a mè
le fèlci dòlci, a goccie, mentre che di lato.
Che slitto da ll’iglù com’un’indù.
Che zombo de ll’acca glassa tutto blù, e glaccio e l’occhio, la
Landa, si scivola, si e spa nsa.

(lipotronica remix)

io da grundie. Vivrio né le groenlùndie. Ci ò reciso. Lì allora
è glasso, lì ci si schiattano cavoli a spore, biliardi di bilioni, lì
apriscatola di crome, cerèbri lichenano ri cloni - o campi mi-
nanti o vunque da’ pop’corni, cio è microesplosi intorno, a
schiuma, o sia glacianti nanofiori — che verminata delle gore
solo la glassa sbolle a la brughiera;

qui a sperdita d’occhio rivalvolato e accrescendo, io, e più in-
terposto allora al mio segnale — sulla punta della testa, op-
presso il radar di contro al cielo, comprimente alle sue volte
imperforabili,

m’irradii,

qui ora immensurato al bulbo, che mi dilata, atropa, lichene:
e ferma d’orbita la lacrima, slitti giù a piombo il plastico di
me, non più di una goccia a espàrgersi m’è dolce in fondo al
gelo tenax:

il cristallino tremulo, grasso sospeso in ghiaccio, la landa tor-
pida lievita, battito di ciglia, il detonare, rallentatissimo, in
tracimar, la broda

Il Soffio della terra

Sono nella terra, solo. Tutt’intorno, zolle rivoltate, terreni
coltivati a patate, e la raccolta detto fatto, e via. Tutto quello
che non si vede, stando nella terra. E il ventare discontinuo
d’un’autostrada semiabbandonata, lassù, che se ci passa un
autotreno sul cavalcavia vibra, gonfia le ossa, le stritola, Io
sento: Terrapieni, dalla piana, e il gettito d’asfalto lungo fino
all’Adriatico, che io non posso vedere e che sento. Vibrato…
nella terra…. dove sciogliendosi giorno su giorno….No, que-
sta è la terra, questi sono gli occhi, occhi su occhi, occhi nel-
la terra. Dove colliquandosi a nutrirla….Vedo la pianta non la
vedo che si gonfia, giorno su giorno, succhia via…..scioglien-
dosi….e si fa grassa e soffia. E’ la mia terra.

E’ la tua terra. Vedo i tuoi occhi nella terra. Vedo le mani……
sprofondano in liquami…..occhi spenti, terra spenta, si gon-
fia, tua. I canali che convogliano nella spianata quello che la
gonfia e la fa forte, le strade diritte si secheranno a 90° rico-
noscenti, ancora, auff, ancora, file d’alberi chinandosi, si pi-
gliano la pappa, salutano, frusciano, arrivano dove sei tu,
non ti preoccupare.

Immobile. Una maledizione ti dico. Questo piantare le radi-
ci e la radice sei tu, in questa terra inesistente, stare nella ter-
ra e la terra sei tu, proprio tu, inesistente, ah! — un metro e
poco più di terra su di sé ed è tutta un’altra storia. Niente da
ridere. Tutto filtra, tutto cresce. Si pianta, sono le radici,
niente da ridere, filamentoso, qualcosa che mi pianta quas-
sotto, che mica lo estirperesti, fa freddo. Dio, i miei pensieri
qui a sciogliersi nella distesa di patate….E la nutrono, amo-
revoli, distesa, l’infinità dei campi, che mi gonfia non lo ve-
dono i miei occhi….Nella mia terra.

Dentro la terra. Occhi spaziano. Spenti spaziano, spenta ter-
ra, la tua.

Un fazzoletto di terra dove sognare, e già che sogno. Spen-
to, liquido, non qui, non altrove. Dove te ne vai ragazzo?
Perché non qui a mandarmi il tuo calore? Corpo vivo sulla
terra morta. Quaggiù, con qualche buona spanna di terra so-
pra gli occhi….respiro…questo disciogliersi….qualcosa bat-
te….più niente. Il freddo che fermenta dagli alluci in su, stan-
do nella terra, la mia terra. Dimmi ci pensi? Dissipando le
sostanze negli umori della piana….
(da: Contatto, 2002)



LA POESIA FEMMINILE
(Introduzione)

La poesia femminile a Napoli si è venuta a determinare solo nell’ultimo scorcio del secondo Novecento, con opere di diverso spessore e qualità, anche se i nomi che faremo sono soltanto indicativi di un diverso modo di scrivere versi da parte di Lucia Bruno, Nora Catalano, Carmina Esposito, Rina Li Vigni Galli, Irene Maria Malecore, Wanda Marasco, Marisa Papa Ruggiero, Anna Santoro, Pina Lamberti Sorrentino, Miryam Urga, ecc.
E’una campionatura abbastanza rappresentativa ed anche incompleta, se consideriamo che nel frattempo altre voci si sono venute ad aggiungere, ampliando il quadro già folto della poesia femminile a Napoli, tra forme sperimentali e forme che si caratterizzano attraverso una polifonia tematica fatta di giunture correlate alla memoria e alla breve illusione dell’esistere rilanciate dalle esternazioni-confessioni, che superano, a volte, il livello della fragilità sentimentale e della comunicazione impoetica, specie quando il discorso ristagna nel soggettivismo narcisistico, o si chiude dentro atmosfere intimistico-religiose, vissute nella solitudine periferica o nel caos urbano, con qualche tentativo di rimozione del linguaggio lirico, scaltrito da letture più o meno à la page. Il punto di forza di questa poesia è nella rifrazione della soggettività, quando non devia nelle tristezze crepuscolari e nel neoromanticismo. Non sono molti i casi di rispettosa segnalazione e d’engagement con l’immaginario rivolto alla dialettica strutturalistica di un Io compresso dal vissuto e integrato nella referenzialità linguistica.
Le occasioni poetiche sono riportate con un linguaggio di forte carica espressiva; come esposizione delle etimologie spirituali che si annidano nelle faglie dell’anima. Si potrebbe dire che fare i conti con la poesia al femminile a Napoli è oggi fin troppo facile per l’assoluta mancanza di spinte ideologiche e scissioniste, che fecero negli anni Settanta-Ottanta, un movimento culturale di assoluta visibilità e tendenza riformatrice, con nomi che ancora oggi restano impressi nella memoria come quelli di Mariella Bettarini, Serena Caramitti, Patrizia Cavalli, Annalisa Cima, Rosita Copioli, Giulia Niccolai.
La via poetica non è che sia poi così larga e lunga da percorrerla agiatamente, per le complesse tematiche quasi sempre di prelievo autobiografico, con qualche caso isolato di poesia impudica, che diventa momento impoetico di uno schema erotico, violento e provocatorio, molto lontano dagli epigrammi dell’Antologia Palatina. e dalle liriche di Bataille. Ci riferiamo ai testi di Wanda Marasco, in particolare, quelli apparsi in L’attrito degli specchi e in Deus inversus. Nella più recente produzione poetica, la Marasco indaga sui gironi della vita con un linguaggio rivolto ai fatti accaduti, in cui il senso del tempo non si separa dalla storia privata, semmai lo brutalizza in un confronto con un indivisibile — tu - , protetto da una parola fasciata di ricordi e adeguata alle circostanze del reale, con scambi di notizie, paure insostenibili, portate in superficie dalle crepe della mente e del subconscio, come in Metacarne, che si collega a tante microstorie tra prosa e poesia, portate avanti da una coscienza frustrata e infelice. Così accanto a tratti gnomici o lirico-narrativi, troviamo anche la poesia in forma di prosa, epigrammi e calembours, nuove germinazioni e vecchie restaurazioni. Comunque la si definisca si tratta sempre di poesia che ripropone il mondo psicoculturale della donna verso imprevedibili significati abbastanza percepibili come operazione di trasmissione del sentimento, con le figure metaforiche ed epifonemiche all’interno di un chiuso parlare soggettivo.
Dal folto casellario della poesia femminile napoletana, abbiamo ritenuto utile soffermarci sui nomi di Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli. Si tratta di due mondi poetici che ricalcano i labirinti della mente e le vie del subconscio nell’eleganza del ricordo che recupera così figure e luoghi mitici, orizzonti chiari e ottenebrati, che si pongono di fronte al nulla e al brivido algido del tempo.

IRENE MARIA MALECORE

Un lungo impegno culturale e poetico è quello di Irene Maria Malecore, nata a Lecce nel 1915. Insigne studiosa di etnografia, ha pubblicato importanti studi sulle tradizioni popolari italiane, in particolare del Salento, sulle principali riviste del settore e portati dall’Autrice in numerosi convegni internazionali. Ha al suo attivo sei libri di poesie: Il grano già suona, Rebellato, Padova, 1960; Le quattro porte, Guanda, Parma, 1965; La cabala, Pan, Milano, 1972; Il punto unico, Rebellato, Quarto D’Altino (VE), 1978; Altro luogo altro tempo, Laterza, Bari 1981; La nostra dimora, Edizioni del Leone, Spinea (VE), 1993.
La sua poesia pur attraversando stagioni letterarie diverse è rimasta fedele ad un linguaggio privo di metamorfosi sperimentale.
Ciò ha determinato un raro esempio di estetismo monolessicale che si avvale di mezzi espressivi espletati nella semplicità e nell’essenzialità del tratto ritmico-immaginativo. Il Meridione è tracciato nelle sue linee principali che sono poi gli aspetti peculiari di un mondo e di una cultura visti nell’abbaglio fotografico di una comunità e di singoli soggetti. A volte la rappresentazione esterna avviene attraverso movimenti e gestualità di forte preziosità espositiva: “E in autunno cantano le donne / curve a raccogliere le ulive / rosario di lunghi giorni faticosi / storie di antichi tempi ininterrotte /, pag, 50 di La cabala. Ai paesaggi aridi si sovrappongono quelli interni e più cupi dell’esistenza, in una poetica pensosa che emerge dal flusso dinamico della parola, che si scompone e ricompone nella biografia dell’anima e nella dimensione pluriprospettica della realtà. Da qui l’accesso ad alcune occasioni poetiche che portano la Malecore a identificarsi con l’ambiente esterno, traendo similitudini e ipotiposi, ricondotte sul filo dell’immagine oggettiva, quasi sempre fissata sul tema dello sradicamento dalla propria terra, come momento traumatico e mitopoietico. Questo procedere per racconti intersoggettivi, crea tutta una serie di rapporti d’identificazione e di annullamento con la natura, vista come madre-morte.
Né mancano esempi repertati nel volume Il punto unico, dove entra in gioco il transfert emotivo e coscienziale: “Voglio morire nella mia terra / scendere nel cuore delle pietre / farmi erba e lombrico / calda zolla che si apre al germe / fiore purpureo di melograno…farmi polvere argentea sulle strade assolate. / “ Non c’è dubbio che questo sentimento di trasmutazione sia stato nella poesia soprattutto neorealista, uno dei temi dominanti e che la Malecore ne acquisisce in tal senso, forma e contenuto, con cadenze psicoemotive ad effetto figurativo. L’adesione ad un ambiente originario diventa linguistica del passato, ripiegamento interiore, approccio ad una vita naturale dalla quale non pochi sono i segni d’interconnessione. Nascono così gli erbari e una fitta botanica di melograni, garofani rossi, gelsomini, cespugli, petali d’arancio bianchi, eucalipti, fili d’erba e papaveri: tutti elementi di una geografia territoriale, solare e meridionale; quella per la quale la Malecore ha inteso liricizzare ed esternare come simboli del proprio tempo e della propria vita.
Il calendario poetico mette allo scoperto luoghi, figure e volti indimenticabili: come le tombe di cemento, i campanili di pietra tornita, e i paesi dove i bambini non muoiono/ ma si arrampicano alle colonne delle chiese / a reggere serti di fiori. Sono questi i caratteri iconici ed etnici di una poesia che rimane essenzialmente documento e sintesi di un mondo segnato da speranze e delusioni, con variazioni tematiche che evidenziano rapporti interattivi con una simbologia non solo sociale ma anche privata, portata a realizzarsi in un unico canto poetico, singolarmente distensivo, colloquiale, aggraziato nelle forme e nelle lampeggianti tracce di una malinconia dolente e disincantata.
Certamente l’ambiente lucano, con le sue tradizioni e con il suo folklore, ha determinato nella Malecore una compattezza poetica di rara misura e profondità, dove la rappresentazione si riappropria di tutti i siti produttori di memoria e di fantasia. Il risultato finale è la convergenza verso le immagini-racconto che s’identificano in un Io oscillante tra l’ambiente periferico e quello urbano. In questa scansione opera su un unico piano il dato reale, che finisce col determinare una poesia di forte evocazione epica. Ne scaturisce una lirica corale e insieme individualissima, nella quale rivivono, fuse in un impasto inestricabile, favole d’anime e di pietre, di piante e di astri, di desolate solitudini e un amore alla vita disperatissimo.(Nota introduttiva al volume: Il punto unico).
La poesia della Malecore, ha scritto Luigi Fontanella, fin dalla sua nascita, agli inizi degli anni Sessanta, apparve molto legata alla terra d’origine, con “segni d’affezione” e topoi indigeni obbligati…. Il suo è stato dunque un attaccamento fisico e intellettuale completo alle sue “case bianche di calce” ai “giardini cinti d’aranci” al “sole che brucia anche di notte”, in un fitto elenco di elementi minimi, tra memoria e natura, fino ad estetizzare un mondo periferico e favoloso.

Pietre

Pietre, pietre,
pietre antiche, pietre nuove
ossa di cavalli marini
teste di eroi e di zappaterra,
occhi vuoti che guardano
seni pietrificati di madri
latte, patina bianca sulle rocce,
e il fondo vivere delle viscere della terra,
con i morti, con i vivi,
con l’erba che spunta
al primo albore di ogni primavera
e la terra che chiama
alta, perentoria,
il ritorno al suo grembo,
la nascita dal suo ventre immenso,
e spinge e richiama
sputa e ingoia
immutabile si veste di rosolacci e di frumento
e stritola e frantuma
uomini, genti, stirpi
ma in essi ritorna sempre rinnovata.


Ecco, mille volti di padri mi guardano
con occhi di pietra
e sento le loro voci
nell’aria, nella terra
nelle paludi azzurre
nelle notti silenziose
quando la luna getta ombre nere
sotto le chiome degli ulivi
e le strade sono abbaglianti di polvere
e la menta ha un odore intenso
che ritrovo nel mio sangue
e l’Adriatico mi canta nelle vene
come nessun altro mare.
Mani di terra mi portano
nella pianura afosa
dita di tralci mi legano,
foglioline di ruchetta
sulle mie tempie affocate,
i silenzi assorti ridicono parole di secoli
dai balconcini di ferro sulle piazzuole mute.
Pietre di oggi, di ieri,
volti degli avi,
volti di me,
sconosciuti e cari.
(da: La cabala, 1972)

Un paese meraviglioso

C’è un paese meraviglioso
dove i bambini
non muoiono
si arrampicano alle colonne delle chiese
e reggono serti di fiori.
Qualche uccello ha seguito il loro esempio
e a coppia si baciano
sono frutti di melograno.

Gli adulti non li invidiano
ma di tanto in tanto
entrano nelle chiese
per ricordare l’infanzia.
(da: Il punto unico, 1978)

L’ombelico del mondo

Se cerco l’ombelico del mondo
che mi ha spinta sulla terra
magma di amore e di dolore
azzurri cieli e notti di pece
involucro tenero di mandorla
amare foglie di pietra
nello spazio dilatato della memoria
folto di taciti bisbigli,
mura di luce accecante
s’innalzano invisibili.
E’ la piccola casa solitaria
che porte d’oro chiudono
in cui presenze intatte
risplendono di vita incorrotta.
Il giorno si apre
specchio di luce
sui gesti quotidiani
e le finestre a oriente
palpitano di ali purpuree
ride la madre
il suo riso breve
tende le piccole mani al padre
ai suoi azzurri occhi severi.
Voci glaciate nelle stanze
evocano il tempo
se io varco il cerchio del silenzio.
E a sera, quando i comignoli diventano viola
e la bouganville si annerisce sul muro
ascolto il frusciare dell’acqua sulle piante
e il taglio secco delle cesoie tra i roseti
fazzoletti turchesi
distesi tra le aiuole
mandano alterni barbagli;
torna viva l’angoscia dei pensieri.
E qui torno per lunghe strade di sasso
dal chiuso di una prigione
dove il pane e l’acqua d’amore
sono avare elemosine
e qui l’ombelico del mondo
mi risucchia alla terra.
(da: Il punto unico, 1978)

RINA LI VIGNI GALLI

Nata a Torre del Greco (Napoli) nel 1932 è autrice di tre volumi di poesie: Contro lo specchio freddo Ed. S.E.N. Napoli 1979; Dettati d’aria, Ed. S.E.N. Napoli, 1986; Le parole mansuete, Campanotto Editore, Udine, 1991.La sua prima prova poetica si evidenzia attraverso un linguaggio che sorprende per l’insieme di rapporti assimilativi circoscritti nei limiti di una controllata e vigile enunciazione dei fatti, sapientemente modulati da un sentimento che richiama in superficie la voce di un canto sobrio e canonico nella forma; ma abbastanza mobile nei codici esistenziali trasmessi da una poesia, come ha affermato Massimo Grillandi “abbastanza bene istituita, centrata su un orchestrato giro di varie disposizioni e disponibilità, con una alternanza piacevole di temi, di problematiche, di fasi”. (dalla Prefazione a Contro lo specchio freddo, S.E.N., 1979).
L’humus poetico di Rina Li Vigni Galli si adagia su strutture neoermetiche, per meglio esporre la misura del dire ad una condizione di scatto espressivo :perché nessuna parola, nessun verso è mandato avanti a tenere il posto di qualche cosa (Giuliano Gramigna, prefazione a Dettati d’aria).
Dal presente e dal passato provengono i substrati psicologici e il rapporto con l’esterno, tra passaggi brevi e intuizioni illuminanti. Ed è sempre poesia rivolta alla dialettica spazio-tempo, alle pieghe interne delle proprie emozioni, che assumono luoghi lirici autonomi, dove si viene a collocare la parola che non conosce altre mutazioni se non quelle che rendono più rapido il rapporto con la grazia espressiva.
Sono versi dove c’è il parlato quotidiano, ma ci sono anche le domande, le aperture dialogiche, i pensieri nel turbine celeste, che diventano ipotesi e scommesse sulla vita; per sondare, altri spazi, altri blocchi di tempi sperimentati nel giro dell’esistenza. Sono questi, gli aspetti di una poesia non compromessa con la melopèa amorosa, il che rende il rapporto comunicativo più orientato verso temi di solare regionalismo e di proiezione psicanalitica, che di obbligato return al catalogo degli eventi sentimentali e retrodatati. Con l’ultimo volume: Le parole mansuete, la Li Vigni Galli ci introduce in una specie di milieu privato, tra anafore e metafore; per riportarsi subito dopo, in un colloquio introgeologico col proprio Io, conflittuale e ricomposto in una dimensione neoromantica, attraverso un parlare chiaro ed onesto, di meraviglia delle cose e del mondo; non importa se tutto questo poi, sia trascritto con delicato pudore di riconciliazione femminile: / Per un momento, mio / io — altro guardingo / di sotto le coperte / deponiamo le facili / controversie, stiamocene stretti / stretti a guardare il nostro / spettacolo di gran mistero / io di carne / presente e tu nascosto / a tirarmi indietro / e avanti / e più dentro incestuoso / con odio amore /crescente”.
Siamo all’interno di una simmetria poetica ad andamento discorsivo e qualche volta di affidamento al rito della memoria, che non precipita mai in bagliore lunare. Ma c’è di più: la Li Vigni Galli conosce e fa proprie le cifre del vissuto che danno l’esatta misura di un mondo rivisitato tra cadenze d’inganno e terrestre oscurità, dove i segnali di forza si muovono in un orizzonte poetico fatto di alterne situazioni comparative, con un linguaggio che riesce a espandersi anche nelle metamorfosi dell’anima attraverso le ibridazioni naturalistiche e cosmologiche di rara efficacia e intensità.

Assenze

Un’ora incerta divaga in cielo
e cerca la sua definizione
così di questo spazio
che in bruma circoscrive la mia essenza.

Il resto di me vagola
come un ectoplasma: ed è
ciò che conosce il mio vicino.

Mi avverto come un’assenza
dolorosamente nello spazio
fra cielo e terra:
disperante se non ci fossi io stessa
ad attestare
- caparbia testimone — un’esistenza.
(da: Contro lo specchio freddo,1979)

Quali verdi pentagrammi

Vedi
io ho iniziato dalla fine
perciò
troverai pacchetti ben legati
con il nastro la foto un fiore secco.

Brevi
i tempi di veglia.
Fu lungo
dopo
il tempo per dormire
e
murata nel sonno la vita
ebbe sogni interrotti
barlumi
al finestrino alto
sbarrato.

Tempi perduti
ritmi sconcertanti
dissonanze specchiate
in ricordi d’arie smosse
mi chiedo
quali verdi pentagrammi
di parole
avrei tratto alla luce
su quei freschi prati del mattino.
(da: Contro lo specchio freddo,1979)

La piovosa di Pasqua sonnolenta
fantasma verde e pecore di creta
riappostate negli occhi
idillio
giallo di frittate e festa
di ritagli
i pensieri nel turbine celeste
sciamando appena
per toccare il fondo
vorticando la sagoma lontana….
Né il tempo sposta
d’un millimetro il passo
la corsa
per pupille di vetro da la nebbia
rada marzolina
accasata nel prato quietamente
per quel minimo di…
Ma le ragazze in punta
di stivale le
bianche piume floreali
- interminata sosta di frammenti
sulla fragile pelle di stagione ora
nella spirale mascherata,
abilmente spinosa — E chi,
riottosa
lumaca d’acqua? chi
sulla siepe col ciarpame
di nuvole
la formula inespressa, la mancanza?
Il patto
nel velo facile solleva
e tutto della trama
sopra il filo rimbalza
come un gatto.
(da: Dettati d’aria, 1986)

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