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martedì 15 giugno 2010

La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea


Prima parte
PREMESSA

Un'antologia che ponga al centro della ricerca la dialettica esistenziale, non può, per ovvie ragioni di sintesi operativa, spaziare su tutti i documenti poetici sul tema della morte, essendo così ampio l’arco di tempo in cui viene svolta la campionatura, già per se stessa difficile e monotematica, da giustificare ampiamente alcune scelte e rifiuti nell’ambito di un repertorio letterario attestante i vari flussi di coscienza espressi tra fede e ragione.
La ricerca si è indirizzata su tutto ciò che è memoria e storia del poeta, attraverso testi correlati a una situazione privata o collettiva, come autentico —engagement- con il lettore di fronte alle diverse chiavi di lettura del mondo metafisico e di quello empirico.
Si sono, infatti, estrapolati dal vasto casellario poetico, nomi particolarmente significativi, senza alcuna preclusione di stile e di tendenze letterarie, per una proiezione dei sentimenti, che raramente sconfinano nel canto funebre o nella disperazione.
Si tratta per lo più di autentici smarrimenti esistenziali che, tra quesiti e risposte inquietanti, lasciano lo spazio aperto al problema dell’essere e del non essere fino alla estrema ricerca di Dio.
La domanda sempre più crescente del perché della vita e della morte che fece dire a Pascal: “Come non so donde vengo, così non so dove vado; e soltanto so che, uscendo da questo mondo, io cado per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irritato, senza sapere quale di queste due condizioni mi deve toccare eternamente in sorte"(1), trova da sempre nell’universo scientifico e nella filosofia delle religioni le uniche vie dalle quali ottenere risposte al grande problema della verità.
La lettura dei testi consente, tuttavia, l’avvicinamento ad una visione della poesia come - oggetto reale - della sintesi tra finito e infinito, tra assoluto ed effimero, in una pluralità di connessioni psicosoggettive, che disegnano una mappa di allarmante solitudine per un approdo ai siti dell’anima, tra variazioni di scrittura e alterne emozioni interattive.
(m.m.g.)
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(1) Blaise Pascal, Pensieri, Biblioteca Universale Rizzoli . Traduzione di Vittorio Enzo Alfieri, dicembre 1952,

TRA RELIGIONE E MITOLOGIA

La presenza della morte, che fin dalla prima alba sul mondo e, nel corso dei millenni ha subito diverse interpretazioni antropologiche, secondo il progredire delle civiltà e dei popoli, non ha lasciato indifferenti mistici ed eretici.
Intorno a questo problema, largamente recepito come momento di disagio e di forte contrapposizione culturale, si è venuta a formare una civiltà letteraria che ha fatto del tema “esistenziale” una vera e propria religione mitopoietica, all’interno della quale fede e ragione si confrontano nel tentativo di dare un significato alla morte metamorfica o religiosa, che apre spiragli di luce nell’aldilà, e al nulla eterno sempre più inquietante, sintesi e approdo del razionalismo puro.
In realtà la morte metamorfica, quella che dà valore alla fine della vita, ha radici lontanissime e si collega alla società primitiva e al tema del “viaggio” che, quantunque oscuro e misterioso, non preclude al defunto il passaggio nell’aldilà.
Questo atteggiamento psicoculturale con l’ultraterreno da parte dei popoli primitivi, ha trovato nella ricerca antropologica riscontri inequivocabili con la scoperta di oggetti e reperti sacrificali, catalogati come elementi di culto nei confronti della natura e delle divinità polimorfe.
“Senza dubbio gli uomini del Paleolitico superiore credevano in un al di là. Numerose tombe ci danno notizia dell’inumazione dei morti, che venivano sepolti in fosse semplici o rivestite di lastre di pietra o di omoplate di mammut. I morti portavano i loro abiti e i loro ornamenti e spesso erano spalmati di ocra rossa, per il viaggio verso gli eterni campi di caccia con una fitta oggettistica fatta di armi e di cibarie”.(1)
Non diverso dai riti della società primitiva, era il sentimento religioso dei popoli dell’area mesopotamica e mediterranea che oltre alla pratica del sacrificio di giovani vittime, credevano in una gerarchia divina con poteri di bene e di male su tutti gli esseri viventi.
Nella mitologia ellenica la morte era il luogo delle ombre dove trovavano dimora oracolisti e anime evanescenti. Ulisse e Orfeo sono stati i primi “viaggiatori” che hanno gettano un ponte tra i vivi e i morti, per interrogare e interrogarsi sul proprio destino.
La civiltà egizia, più evoluta sul piano delle conoscenze scientifiche e dell’organizzazione statutaria tra nobili e sudditi, riconosceva in Osiri il dio dell’aldilà, pur avendo sistemi teologici diversi .
Soltanto il faraone, dopo il trapasso, assumeva ruoli divini in quanto re-dio, mentre dignitari e funzionari non avevano accesso ai livelli superiori.
Il discorso intorno alle divinità si amplia ulteriormente con le altre religioni storicamente più consolidate, quali il buddismo, l’islamismo e il cristianesimo, ognuna con propri dogmi e verità.

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(1) Alfred Rust “L’uomo primitivo”- traduzione di Maria Attardo Magrini da “ I Propilei”- Grande Storia Universale- Mondadori settembre 1980, pag. 249.

Credere che la vita continui dopo la morte è il desiderio di ogni credente di fronte alla prospettiva del limite temporale.
Non a caso alcune religioni orientali superano l’mpasse della fine della vita con alcuni “passaggi” dell’anima che si colloca in altre forme e ambienti.
“Secondo la religione induista, una delle grandi religioni istituzionalizzate che ha fatto della reincarnazione un punto fondamentale del proprio credo, questo ciclo di morte e rinascita, che viene chiamato —Samsara-, ha lo scopo di avvicinare progressivamente l’anima a Dio, in quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, un processo evolutivo dello spirito. La dottrina della reincarnazione non fa parte solo della religione induista. Nell’antica Grecia, infatti, tale credenza era abbastanza diffusa. Ne parlava Pitagora e perfino Platone che, nel suo “Fedro”, descrive qualcosa di molto simile al —Samsara- induista.” (2).(Marco Fornari, "Alla ricerca delle vite passate" da:" The X Files," Rivista del fantastico e del mistero, anno II, marzo 1996,n. 6, pag.38).
Nella Roma imperiale il rito magico-religioso confluiva nella cerimonia delle Suovetaurilia in cui erano solo gli animali ad essere sacrificati alle divinità e non gli esseri umani come nel mondo egizio dove erano i servi a seguire nella morte i loro dignitari o padroni.
L’aornos cioè il -luogo dove non volano gli uccelli- ma anche città di Dide o Averno, suscitava nei Romani il terrore o metus dell’al di là, che non sempre richiamava alla mente, come in Lucrezio, la visione di un mondo minaccioso
Al rito funebre i Romani dedicavano le parentalia, un periodo di 10 giorni nei quali si susseguivano le laudatio o orazioni per il defunto, che veniva preparato alla vestizione con la migliore toga pretexta e col naulum o soldo per Caronte, prima di giungere al luogo della cremazione chiamato ustrina.
“Generati dalle credenze religiose che in ogni stadio di civiltà l’uomo ha elaborato in connessione al mistero dell’al di là, i riti funebri si differenziano, sostanzialmente su tre indirizzi di principio: (a) credenza nella totale estinzione del corpo; a essa si collega principalmente l’uso della cremazione, di cui sono conferma i vari vasi cinerari di terracotta del tardo Neolitico sia in Europa, ove l’uso è alternato con quello della inumazione, fino all’avvento del cristianesimo, sia in Asia minore (Mesopotamia), sia tra gli Aztechi del Messico; mentre gli Indù usano ancora oggi la cremazione e la dispersione al vento delle ceneri. (b) credenza in un sonno con risveglio o, come il cristianesimo, nella resurrezione della carne, essa si manifesta con l’uso dell’inumazione che, nelle forme di civiltà primitive,vedeva il cadavere contratto, su di un fianco, mentre è disteso e prono negli stadi di più alta civiltà. (c) credenza che, dopo la morte, il corpo viva un’altra vita sensibile: a essa si collega l’uso di conservare il corpo, mediante mummificazione o essiccazione e di porre, accanto al defunto, viveri vesti, suppellettili e statuette chiamate uscebti per rendergli piacevole la sua lunga vita dell’aldilà. Questi riti erano praticati principalmente in Egitto” (3) (da:Grande Enciclopedia Universale Illustrata delle lettere, delle scienze, della arti, vol.8:”Riti funebri” pagg: 2362-2363,Istituto Enciclopedico Internazionale, dicembre 1975).
L’effimero e l’assoluto e il tempo stesso della vita e della morte caratterizzano la cultura e il sentimento di tutti i popoli nelle diverse ere temporali, Si deve, tuttavia, considerare che di fronte alla realtà terribile della fine della vita una via di sbocco possa venire dalle religioni che, in larga misura e nei limiti dell’umile certezza, concorrono a dare un senso alla impietosa realtà quotidiana, attraverso i dogmi e la “realtà finale” di tutto il genere umano.
Parapsicologia, metapsichica, metempsicosi e misticismo si offrono all’uomo come spazi di fede intorno al fenomeno dell’Inconoscibile.
Il problema della fine dell’esistenza e della morte metamorfica turba e impegna il mondo spirituale di ogni credente.
“Chiuso fra la nascita e la morte, l’uomo sente in sé e nei suoi simili dei limiti che lo inducono a volgere la sua attenzione a qualcosa d’altro in cui egli dovrà passare, limiti visibili-invisibili, di fronte ai quali la sua esistenza vien meno. La radicalità di questa ineliminabile esperienza sa trovare delle risposte ai grandi interrogativi non soltanto in culture tarde e maturate a un alto grado di astrazione, risposte che corrispondono a esplicite domande , quali anche noi esprimiamo: dove si trovano ora i defunti? Sopravvivono essi, e in che modo, e quando torneranno sulla terra? La credenza dell’anima e il culto dell’anima non hanno più dunque soltanto un valore esplicativo, come se esclusivamente la perdita della visibilità corporea rendesse necessaria l’acquisizione di forme invisibili; l’esperienza della vita e l’esperienza della morte formano sin dal principio un’unità, perché nella somazione è compreso il suo momento negativo, l’allontanamento dal soma, o come vorremmo dire con uno straordinario neologismo, la “dissomazione”. Al campo esterno dell’agire appartengono il “momento negativo” e il “vuoto” come sfondo e anello di collegamento con l’immagine della realtà, frantumata in tante entità disperse; venire e sparire, fare e distruggere sono le loro forme di transizione a noi accessibili; e solo il pensiero che riesca a svincolarsi dall’immediato legame con la prassi scopre in essi delle difficoltà concettuali e gli enigmi del divenire e perire, del nulla e dell’essere.”(4) (Helmud Plesner "Conditio Humana"- Traduzione di Maria Attardo Magrini" Dissomazione" da: I Propilei, Grande Storia Universale, Mondadori, Settembre, 1980, pagg.86-87)
Dalla letteratura greca ci perviene una delle testimonianze più alte intorno al tema della morte ed è la tragedia -genere teatrale caratterizzato dallo stile sublime, da personaggi mitici e storici di alto rango, da avvenimenti gravi ed estremi e dallo scioglimento luttuoso. -
-La tragedia greca (le cui origini, molto oscure e discusse, sono tuttavia sicuramente legate al culto di Dioniso), conserva anche in età storica, nei capolavori di Eschilo, Sofocle, Euripide, una funzione etico-religiosa, inscindibile dalla civiltà della polis: la rappresentazione riguarda sempre un mito o un tema storico che intende illuminare la condizione umana, individuale o collettiva, nei suoi aspetti più contraddittori e dolorosi e mostrare come, attraverso la sofferenza, l’orrore e la morte si possa ricomporre un ordine violato, o conquistare un ordine più alto.
Il carattere intrinsecamente etico e problematico della tragedia sopravvive nel corpus di Seneca (caratterizzato dal gusto cupo del sangue) e nella rinata tragedia moderna (cinque-settecentesca), che riprende forme e temi da quella antica per dar voce alla sensibilità e alla cultura dell’aristocrazia europea del tempo. Particolarmente notevole la tragedia classica francese (Corneille e Racine), e quella, tarda, dell’Alfieri -(5) (Riccardo Maltese-Andrea Grillini: Dizionario di Letteratura, arte, cinema e scienze umane; La Nuova Italia, gennaio 1961,pag. 224-225) nonché quella inglese di Shakespeare tutta rivolta a fatti, situazioni e personaggi della storia, e quella spagnola di Lope de Vega, fino a D’Annunzio che apportò numerosi innovamenti.
Ma è davanti a Lazzaro, che Cristo chiude alla morte il senso del Nulla, aprendo all’umanità la porta della Speranza e della Salvezza.
Non a caso la collinetta del Golgota, dove s’innalzano le tre Croci, è il punto più alto che si eleva al cielo, rispetto alla pianura che è la vita. Da questo momento in poi la Storia dell’umanità volta pagina col Dio che si rivela: “sfera il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo ”(6). (Trattasi di una nota di Giose Rimanelli a piè di pagina 48 della Cantica XVIII del volume Alien Cantica An American Journey (1964-1993), con la quale l'Autore ricorda come in un seminario italiano i suoi tutori teologi ripetessero che:"Deus est sphaera cuius centrum ubique"..
……………

Sphaeram claudit curvatura
L’arco include la sfera
Et sub ipsa clauditura.
Ed è incluso in essa.
In hac Verbi copula
In questa copula del Verbo
Stupet omnis regula.
Si confonde ogni regola
Amen

“L’Apocalisse” di San Giovanni, il “Libro” di Enoch, gli “Oracoli Sibillini”, “L’Apocalisse” di Baruch fino al “Testamento” di Isacco sono i siti letterari nei quali il tema della morte domina come castigo divino sul genere umano.
Il cristianesimo, nato col mistero del descensus ad inferos di Cristo, separando luce e tenebra, vita e morte, bene e male, toglie il respiro alle religioni pagane e sovverte il vecchio rapporto uomo-morte collocato in una dimensione non biblica.
Il sentimento religioso trova nella società medievale un ruolo egemone con un’ampia testimonianza poetica che, a partire da San Francesco, mette in rilievo una parte considerevole di letteratura teologica e mistica non disgiunta da un quadro cupo e orrifico della morte, così altamente magnificata ed esorcizzata da San Francesco nel “Cantico di Frate Sole”:

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nulla homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne la peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male”.

La “morte corporale” appare meno punitiva della “morte secunda” che è lo “stagno di fuoco”. Lo precisa San Giovanni quando dice :“essi furono giudicati ciascuno secondo le sue opere… e se alcuno non fu trovato scritto nel libro della vita fu gettato nello” stagno di fuoco “ , (Apocalisse 20, 13-15) ed è lo stesso San Giovanni a scrivere :”qui vicerit non laedetur a morte secunda “..(7) (Adolfo Oxilia, Il cantico di Frate Sole, Nardini Editore, Firenze 1984,,pag. 114)
Questa letteratura della salvezza e della dannazione scorre fino a Dante, altro viaggiatore assieme a Virgilio, nel mondo delle ombre.
Non a caso “la Divina Commedia” è un percorso apologetico che, da un basso luogo, aspro, selvaggio e forte (Inferno), passa attraverso atmosfere soffuse di luce aurorale (Purgatorio), per giungere a Dio “L’amor che muove il sole e l’altre stelle” (Paradiso). La rappresentazione delle anime è di tipo allegorico e si collega alla tradizione greco-latina che credeva nell’esistenza delle pene e nella beatitudine dopo la morte.
La punizione, la dannazione eterna, la porta dell’inferno con la terribile epigrafe che preclude ai peccatori la visione di Dio, la “livida palude” dalla quale a nessuno è dato di “riveder le stelle” e lo stesso fuoco riservato ai peccatori, già preannunciato da San Francesco nel suo “Cantico”, si attualizzano nella “Commedia” di Dante con la descrizione sulfurea e tenebrosa del Canto terzo: (vv. 22 ,29 ), dove meglio è descritta la condizione dei dannati:
“Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai. / Diverse lingue , orribili favelle , / parole di dolore, accenni d’ira, / voci alte e fioche , e suon di man con elle / facevano un tumulto, / il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira. / e che sempre nel medesimo canto (vv 82,87 ), si fa più dura e senza speranza “Guai a voi, anime prave! /Non isperate mai veder lo cielo; / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘ n gelo.” / mentre “Caron dimonio , con occhi di bragia, / loro accennando, tutte le raccoglie / batte col remo qualunque s’adagia. / Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie/ similmente il mal seme d’Adamo / gittansi di quel lito ad una ad una, / per cenni come augel per suo richiamo. (vv. 109,117) .

LE VIE DELLA RAGIONE

L’'Illuminismoo modula tutta la letteratura apocalittica del duecento e istituzionalizza una nuova civiltà letteraria, dopo un lungo periodo magnificato dalla poesia satirica nelle corti e dall’amore angelicato e le vie della ragione prevalgono sulla ortodossia della Chiesa.
Questo nuovo “pensiero” trova in Rousseau la punta di diamante che incide cuore, sentimento e ragione, mentre Diderot affonda ancora di più la lama dell’ateismo nella coscienza comune e d’Holbach radicalizza la visione materialistica dell’uomo, come soggetto fisico non vincolato dalla morale cristiana.
Con la fine dell’Illuminismo, la letteratura si apre all’estetica neoclassica e la visione della morte trova nei ”Sepolcri” di Ugo Foscolo la strada del “culto dei morti” tramite la Rimembranza dei grandi eroi e delle loro tombe.
E’ la prima indicazione culturale con espliciti riferimenti alla sfera del destino dell’uomo e delle sue opere. Siamo di fronte a una posizione fortemente laica, che va a colpire la morale cattolica, in quanto a prevalere non è la speranza cristiana di una vita ultraterrena, ma l’idea materialista e il bisogno dell’illusione come si rileva da un carteggio del Foscolo:
“Young ed Harvey meditarono sui sepolcri cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte ed il conforto d’un’altra vita; ed ai predicatori protestanti bastavano le tombe dei protestanti. Gray scrisse da filosofo; la sua elegia ha per iscopo di persuadere l’oscurità della vita e la tranquillità della morte; quindi gli basta un cimitero campestre. L’autore considera i sepolcri politicamente; ed ha per iscopo di animare l’emulazione politica degli italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi, però doveva viaggiare più di Young, d’Harevey e di Gray, e predicare non la resurrezione de’ corpi, ma delle virtù” Ma è con la serie de i ”Sonetti” che Foscolo ci sorprende per via di quella sua sensibilità tutta moderna nel testimoniare la morte come frattura di ogni rapporto privato e sentimentale.
Il ricordo degli affetti familiari e le lacrime sulla tomba non si discostano molto dal nostro attuale atteggiamento emotivo nei confronti dei cari estinti e “In morte del fratello Giovanni” il tema della fragilità dell’uomo e del suo destino sono espressi dal Foscolo con trepidante amore e struggente meditazione.

IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto
ma io deluse a voi le palme tendo,
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al vivere tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
straniere genti, almen l’ossa rendete
allora al petto della madre mesta.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Con “Alla sera” si viene a realizzare un equilibrio sostanzialmente eutimico dell’anima. La similitudine, tra l’altro, efficacissima delle due figure sinergiche sera-morte, offre un inconsueto annuncio di “armonia” evidente nella prima e ultima strofa del sonetto rafforzato da supporti psicologici e simbolici dove il tracciato poetico carica su di sé la meraviglia della natura e la pace dell’eternità
L’idea della morte primeggia sull’ipotesi metafisica o religiosa . La percezione del negativo è totale e assorbe tutta la solitudine dell’uomo di fronte agli aspetti della realtà dichiarati dallo stesso Foscolo:
“Non so cosa sia il mio corpo , i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità che a tutti quelli che precedevano , e che seguiranno, Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.”
Su questo viatico di riflessioni il Foscolo lascia al giovane Ortis l’unica alternativa possibile; quella del suicidio come estrema soluzione ad una indagine esistenziale senza via d’uscita. Da qui la rassegnazione alla morte o “fatal quiete” palesemente dichiarata nella serie dei sonetti e che solo nei “Sepolcri” viene considerata in un’altra luce; quella della continuità della vita oltre la morte attraverso il recupero delle grandi imprese che i defunti hanno lasciato ai vivi e che questi ultimi ravvivano nella luce dei ricordi e delle pietre tombali.

ALLA SERA

Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago, a me sì cara vieni,
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch’entro mi rugge.


GIACOMO LEOPARDI

Sulla poetica del Nulla eterno si immette anche Leopardi con “L’Infinito” dove Spazio e Tempo agiscono negativamente su tutta la dinamica dell’esistente.
L’accostamento di alcuni versi 9,10,11,12,13,14 del sonetto “Alla sera” del Foscolo, ai versi 9,10,11,12,13,14,15 de “L’infinito” di Leopardi, pone in evidenza un “naufragio” fisico e spirituale dei due poeti, già annunciato con gli aggettivi “caro” e “cara”: il primo riferibile all”ermo colle” del Leopardi, e il secondo all’immagine della “sera” riconducibile alla “fatal quiete” del Foscolo.
Alcuni elementi come i ”sovrumani silenzi”, gli “interminati spazì” e la “profondissima quiete” , che si muovono nella progressione espansiva e virtuale del pensiero oltre il punto fisico rappresentato dalla “siepe”, presuppongono una organizzazione mentale dell’effimero e dell’eternità, che va al di là della semplice “finzione” creata dal Leopardi che tra sentimento e ragione crea le premesse per una riflessione morale, filosofica, esistenziale e cosmica come punto di attacco a quell’inesplicabile mistero che è la vita.
L’immensamente grande si contrappone all’immensamente piccolo e viceversa ed entrambi interagiscono nelle due sequenze oppositive rappresentate dagli “(in)terminati spazi” e “(sovra)umani silenzi”, tanto che il pensiero opera su due piani altrettanto espansivi e riduttivi del Tempo e dello Spazio che confluiscono poi a breve attimo cosmico, paragonabile al fruscio delle foglie mosse dal vento, dove tutto converge in un medesimo punto: natura e storia, ragione e poesia, finito e infinito in un trionfo del Nulla, già proclamato con: “A me stesso” del ciclo di “Aspasia”, e poi ancora, nel “Pensiero dominante” e in “Amore e morte”.
Tutta la poesia di Leopardi è poesia di riflessione e di contaminazione negativa della realtà. Per questa via lo “Zibaldone” e le “Operette morali” sono il grande tomo della denuncia dell’inganno. Il risultato è quasi sempre consequenziale di una logica che porta ad una amara dichiarazione di nonsense della vita che può essere superata soltanto dall’illusione dell’amore o dal suicidio; quest’ultimo già dichiaratamente considerato negli “Scritti vari inediti”, composti con molta probabilità intorno all’anno 1820, dove tra l’altro vi si legge: ”Il fine della vita è la felicità, ma la felicità oggi appare impossibile. L’uomo antico aveva l’eroismo e le illusioni, aveva le grandi passioni, ed era distratto dal vuoto e dall’angoscia, Ma tutto, col tempo, è impallidito. La cognizione delle cose conduce l’uomo al desiderio di morte, dopo che la filosofia gli ha fatto conoscere che quella dimenticanza di sé che in antico era possibile oggi non lo è più. Continuare in una vita, di cui abbiamo conosciuto l’infelicità e il nulla, è impossibile. Quanto poi al fatto, che molti negano, che le illusioni facessero la felicità dell’uomo antico, resta comunque la differenza fondamentale che allora si viveva anche morendo e oggi si muore vivendo”

Quanto “all’ermo colle” esso funge da “transfert” essendo il luogo più “caro” e amato dal poeta come via di fuga verso mondi sconosciuti e meno ostili della Natura matrigna. “L’infinito” si offre a molteplici interpretazioni critiche, non solo per il linguaggio straordinariamente semplice, quanto per i suoi segreti nascosti.
E qui ritorna attuale l’interpretazione “estatico-mistica” fatta dal De Sanctis, che non trova adesione da parte di Walter Binni il quale ravvisa soltanto elementi sensistici nell’idillio.
Eppure, qualche brivido metafisico si avverte nella lettura del testo. Avvicinarsi col pensiero, ritrarsi sbigottito e perdersi nella ciclicità dei tempi cosmici e negli spazi infiniti, riducendoli a breve voce del vento, è avventurarsi in un mondo che è “altro” rispetto a quello “terreno”.
.La poesia di Leopardi va vista anche alla luce delle indicazioni psicanalitiche.: su questo tema Alfredo Giuliani recensendo il saggio di Giampaolo Sasso dal titolo ” La mente intralinguistica. L’instabilità del segno: anagrammi e parole dentro le parole” pagg. 344 Marietti, su “La Repubblica” del 29 maggio 1994, pagg.24-25, sottolinea che “Nella più celebre delle poesie leopardiane si nascondono alcuni “misteri” che riaffiorano a metà strada “ fra linguistica e psicoanalisi”.

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando; e mi sovvien l’eterno
E le morti stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Tra surrealismo e romanticismo europeo, si colloca la presenza poetica di Gèrard De Nerval, che, nel sonetto “La grand’mère” incluso nella raccolta ”Chimere e altre poesie” (1924), coglie con estrema efficacia il senso dello smarrimento di fronte alla morte, rimarcando con acuta sensibilità atteggiamenti e situazioni indelebilmente fissati nella memoria.

LA NONNA

Sono passati tre anni da quando la nonna è morta,
- dolce creatura - e quando fu sepolta
Parenti e amici la ricordarono piangendo
Con dolore sincero e amaro.

Io solo m’aggiravo per la casa, sorpreso
Più che triste, e poiché stavo vicino
Alla sua bara, - qualcuno mi rimproverava
Di guardarla senza lacrime e sofferenza.

Dolore chiassoso passato velocemente:
Dopo tre anni altre emozioni,
Le gioie, le pene, - le rivoluzioni -,
Hanno cancellato il suo ricordo nei cuori.

Io soltanto la ricordo, e spesso la piango;
Dopo tre anni, reso duro dal tempo,
Come un nome intagliato nella scorza,
S’incide nel profondo il suo ricordo.

VERLAINE, CORBIERE.

In Francia il simbolismo maudit di Verlaine,Corbière, Rimbaud,Mallarmè- Villon e Baudelaire, pur instaurando un clima poetico di denuncia della limitatezza umana, e dell’insopprimibile desiderio di fuga attraverso il sogno e i desideri dell’anima, non manca di contatti con la poetica del dolore, che viene espressa con aristocratica ironia e superamento del nonsense della vita attraverso le esperienze quotidiane e la trasgressione, a volte, cercando nella religione il punto della propria spiritualità, come in Paul Verlaine che con “Sagesse” (Bruxelles, Librairie Cartholique, 1881), tocca il vertice della letteratura francese, offrendo a Dio il suo oratorio mistico, maturando una nuova forma poetica di intensa musicalità del verso dove non mancano risultati malinconici e di pensosa meditazione:

PAUL VERLAINE

CANZONE D’AUTUNNO
I singulti lunghi
dei violini
dell’autunno
colpiscono il mio cuore
d’un languore
monotono.
Tutto soffocante
e smorto, quando
viene l’ora,
io mi ricordo
dei passati giorni
e piango;
e me ne vado
al tristo vento
che mi porta,
di qua, di là,
come una foglia morta

XXV
O miei morti tristemente famosi
che mi fate un rifugio ombroso
di pace, di preghiera e d’esempio,
come un tempo il Dio vivente
desiderò che un umile fanciullo
si sacrificasse nel tempio:

o miei morti chini sul mio cuore,
pietosi per il suo languore,
padre, madre, anime angeliche,
e tu che fosti più che una sorella,
e tu, giovine pieno di dolcezza
a cui dedico questi versi malinconici

e voi tutti, parte migliore
della mia anima, per la cui dipartita
s’inaridì la mia ora più bella,
amici che la vostra ora recise,
o amici miei, vedete che già
viene il tempo ch’io pure me ne muoia,


Nient’altro che esilio è la terra!
E perché Dio allontana
dalla mia bocca anche il pane,
se non per riunirmi a voi
nel suo seno temibile e dolce,
lontano da questo mondo aspro e feroce?

Preparatemi il cammino
venite a prendermi per mano,
siatemi luce nella gloria:
o meglio — Iddio vendicatore! —
pregate per un povero peccatore
indegno ancora del Purgatorio.


QUANDO ANDREMO

Quando andremo,
nell’ombra del bosco nero,
quando saremo pieni di aria e di luce
in riva al limpido fiume,
quando ci troveremo in un attimo fuori
da questa Parigi di cuori infranti,
e se la bontà lenta della natura
ci cullerà in un sogno senza fine:
allora, prepariamoci a dormire l’ultimo sonno!
Dio penserà al risveglio. (da Epigrammes)

Tristan Corbière, antinarcisista per eccellenza, più malinconico che reazionario alle disavventure umane, cantore della solitudine e della derisione di se stesso, sempre fedele alla propria immagine di maudit, coglie nei momenti di maggiore espansione poetica, attimi di estrema delicatezza nei confronti della caducità della vita, creando spazi di cristallina innocenza e ironia :

RONDELLO

E’ tardi, bimbo, ladro di comete!
Non esistono più notti, non esistono più giorni.
Dormi…. e attendi che arrivino quelle
che dicevano: Mai! che dicevano: Sempre!
Senti i loro passi? Non sono pesanti:
oh, piedi leggeri! — L’Amore ha le ali…
E’ tardi, bimbo, ladro di comete!

Senti le loro voci?.. Le tombe sono mute.
Dormi: ben poco pesa il tuo carico di semprevivi:
i tuoi amici, gli orsi, non verranno
a gettare la pietra sulle tue damigelle:
è tardi, bimbo, ladro di comete!

MORTICINO PER RIDERE

Vattene presto, sognatore di comete.
I tuoi capelli saranno erbe al vento
dal tuo occhio aperto usciranno i fuochi
fatui, prigionieri nelle povere teste….

I fiori di tomba chiamati amourettes
cresceranno sul tuo riso terroso
così pure le miosotidi, questi fiori di carcere.

Non fare il penoso: le bare dei poeti
per i becchini sono semplici giocattoli,
custodie da violino che non hanno suono.
Ti penseranno morto; i borghesi sono sciocchi.
Vattene presto, sognatore di comete.


SHAKESPEARE, MASTERS, ELIOT, JIMENEZ

Temi dichiaratamente esistenziali, che testimoniano l’inequivocabile partecipazione del poeta davanti agli eventi relativi alla sfera privata, come possono essere ad esempio le imprevedibili situazioni all’interno del rapporto vita-morte, in un più ampio discorso anche di tipo metafisico, ci vengono dalla letteratura angloamericana di William Shakespeare, Edgar Lee Masters, T.S. Eliot e di quella andalusiana di Juan Ramòn Jiménez.
Di William Shakespeare si riporta il più celebre dei monologhi: quello di “Essere, o non essere”, che ha visto nel corso degli anni varie traduzioni. Qui lo si propone nella versione della prima edizione in quarto del 1603, per la prima volta tradotta in italiano da Alessandro Serpieri, assieme alla versione definitiva, tratta dal volume in quarto del 1605.
“Da un secolo e mezzo la critica si domanda se le due versioni del dramma siano entrambe di Shakespeare. Il testo più breve, solo ora tradotto in italiano è probabilmente la prima stesura, scritta di getto del grande capolavoro della maturità:

I
Essere, o non essere, sì questo è il punto:
morire, dormire, ed è tutto? Si, tutto.
No, dormire, sognare, sì, certo, qui è il nodo
poiché in quel sogno di morte, quando ci svegliamo
e siamo condotti davanti a un Giudice eterno,
da cui nessun passeggero è mai ritornato,
il paese inesplorato, alla cui vista
i giusti sorridono e i maledetti sono dannati….
Se non fosse per questo, la gioiosa speranza di questo,
chi sopporterebbe gli scorni e le lusinghe del mondo —
chi disprezzato dai ricchi, chi ricco maledetto dai poveri,
la vedova oppressa, l’orfano maltrattato —
e il sapore della fame, o il regno di un tiranno,
e mille altre calamità in aggiunta,
per imprecare e sudare sotto questa faticosa vita,
quando ci si potrebbe dare piena quietanza
con un semplice stilo? Chi sopporterebbe questo,
se non per una speranza di qualcosa dopo la morte,
che sconcerta il cervello, e confonde la mente,
che ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che volare ad altri che non conosciamo?


II
Essere o non essere , questa è la domanda:
se sia più nobile per la mente sopportare
i sassi e le frecce della oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, finirli. Morire, dormire….
nient’altro, e con un sonno dire fine
alla stretta del cuore e ai mille tumulti naturali
che eredita la carne: è una consumazione
da desiderare devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Ah qui è l’intoppo.
Perché in quel sonno di morte, quali sogni
possano venire , dopo che ci siamo cavati
di dosso questo groviglio mortale,
deve farci esitare. Ecco il motivo
che dà alla sventura così lunga vita.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli insulti
del tempo, il torto degli oppressori,
l’offesa degli arroganti, gli spasimi
dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e gli insulti
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando da solo potrebbe darsi quietanza
con un semplice stilo? Chi vorrebbe portare pesi,
imprecare e sudare sotto una faticosa vita,
se non fosse che il terrore di qualcosa
dopo la morte, il paese inesplorato
dal cui confine nessun viaggiatore ritorna,
sconcerta la volontà e ci fa sopportare
i mali che abbiamo piuttosto che volare
ad altri che non conosciamo?

DALLA SPERANZA AL TERRORE

“L’Amleto curato da Alessandro Serpieri per i Classici Marsilio è un avvenimento culturale perché consente per la prima volta al lettore italiano di affrontare direttamente i problemi testuali del dramma più famoso della letteratura mondiale. C’è un solo Amleto o ce ne sono due? Shakespeare scrisse l’Amleto all’inizio della sua carriera e lo rielaborò più di dieci anni dopo, all’apice della maturità? Non è solo un problema da filologi, perché nel principe Amleto, incunabolo dell’uomo moderno, troviamo qualcosa di ognuno di noi .
Maestro della filologia shakespeariana — dalla grande impresa del “Laboratorio di Shakespeare “ (Pratiche) all’edizione esemplare dei “Sonetti” (Classici Rizzoli) e recentemente al “Macbeth” per i classici Giunti --- Serpieri racconta… il suo punto di vista sul “giallo” di Amleto. Unico per lunghezza (dura come due Macbeth), profondità filosofica e popolarità, Amleto lo è anche perché esiste in tre versioni, l’In folio postumo del 1623 e due volumetti autonomi formato in quarto: Q2 (questa è la sigla scientifica in uso) pubblicato nel 1605, che fornisce il testo più completo e autorevole, e Q1, di due anni precedente ma scoperto solo nel 1823, molto più breve e scorretto ma anche profondamente diverso nel testo e nella struttura drammatica. Dal 1823 gli studiosi si dividono in due campi fieramente avversi: Q1 è una versione d’autore, sia pure giovanile e vicina al suo modello (sappiamo con certezza che esisteva un Amleto precedente a Shakespeare, anche se il testo è perduto), o un testo pirata ricostruito a memoria da un attore della compagnia e ceduto a un editore senza scrupoli? E’ una prima stesura o un testo posteriore tagliato e corrotto? Se la prima ipotesi fosse vera, Amleto sarebbe l’unico dramma che permetta di seguire in concreto, attraverso due testi diversi e lontani nel tempo, la maturazione di Shakespeare . Le due tesi restano in equilibrio per tutto l’Ottocento. Poi prevale la tesi dell’edizione “pirata” , che nel secondo dopoguerra finisce per diventare senso comune. Ma recentemente i difensori dell'’autenticità del “primo Amleto” sono venuti alla riscossa. Tra questi si schiera autorevolmente Serpieri, che traduce, annota e pubblica in due volumi separati entrambi i testi , aggiungendovi una rassegna e una discussione critica di tutti gli argomenti pro e contro. Ma la tesi della versione d’autore ha ragioni molto forti. Come potrebbero essere “errori di memoria” i nomi diversi dei personaggi (Polonio si chiamava Corambis), il diverso ruolo drammatico della regina, che in Q1 si schiera nettamente dalla parte del figlio, la diversa età di Amleto che ha vent’anni in Q1 e trenta in Q2 (nel frattempo, infatti, era cambiata l’età dell’attore che lo interpretava il grande Richard Burbage), lo spostamento di scene essenziali, come il monologo: in Q1 la tentazione del suicidio è contrastata dalla speranza, in Q2 dal terrore di ciò che verrà dopo la morte. E’ un errore di memoria, o non è piuttosto la visione dell’autore a essere cambiata, dalle speranze giovanili al pessimismo della maturità?”(8) (Nota introduttiva di Andrea Casalegno a: “Il dilemma dei due Amleti” di Alessandro Serpieri su: “Il Sole 24 Ore” del 18.05.1997.)

IL DILEMMA DEI DUE AMLETI

“Di Shakespeare non ci restano manoscritti. A parte qualche firma su documenti vari, l’unica traccia della sua mano sembra essere stata individuata in una scena di circa centocinquanta righi aggiunta a un dramma non suo, “The Book of Sir Thomas More”, databile al 1592-94, opera di Anthony Munday, con la collaborazione di Henry Chettle, Thomas Dekker, Thomas Heywood e appunto Shakespeare, che non aggiunse mai le scene perché fu bloccata dalla censura (se ne veda l’edizione curata da Giorgio Melchiori e Vittorio Gabrieli, Manchester 1990): Il reperto, pur di indubbio interesse, non getta tuttavia gran luce sui modi in cui il nostro autore lavorava nello stendere i suoi drammi.
E per secoli ha aleggiato nella critica un mito alquanto inverosimile, quello per cui la mano di Shakespeare fosse dotata di una facilità quasi divina. Nel loro appello ai lettori, premesso alla prima edizione quasi completa delle sue opere, il primo In folio del 1623, i curatori, e già attori della sua compagnia, John Heminges e Henry Condell, testimoniavano che “ la sua mente e la sua mano andavano di pari passo”; e il suo collega drammaturgo, Ben Jonson, annotava nei suoi taccuini di aver saputo dagli attori di Shakespeare che “nei suoi scritti, qualsiasi cosa buttasse giù, non ne cancellava mai neanche un rigo”, e aggiungeva sarcastico: “ La mia risposta è stata, ne avesse cancellati un migliaio”. In assenza di manoscritti queste dichiarazioni hanno fatto per lungo tempo pensare che Shakespeare scrivesse di getto e non modificasse più sostanzialmente le proprie opere. Rimaneva tuttavia un inciampo di fronte a tale credenza quasi mistica in una scrittura immediata e definitiva. Di quasi una ventina dei suoi drammi erano state infatti pubblicate edizioni singole, in formato in quarto, già a partire dagli anni 90 del Cinquecento: e in quasi tutti i casi il confronto tra le versioni In folio del 1623 e quelle precedenti mostrava differenze non solo sul piano delle molte varianti morfologiche, lessicali e sintattiche ma anche su quello della stessa struttura drammaturgica.
Come spiegare tali discrepanze? Fino a pochi decenni fa i filologi e, con loro, i critici continuavano a credere, nonostante tutto, che Shakespeare avesse scritto una versione definitiva di ogni suo dramma, le cui variazioni nelle prime edizioni a stampa sarebbero state dovute a errori di composizione o a manipolazioni non autoriali, talchè il compito della filologia doveva essere quello di ricostruire quella versione originaria. La recentissima “New Philology” ritiene, invece, che quei drammi non furono mai stabiliti dall’autore una volta per tutte, ma furono da lui rivisti più volte: erano testi teatrali, mobili per eccellenza, e sottoposti a continue possibili modifiche, nonché a possibili corruzioni e interpolazioni nel corso delle varie messe in scena .La purezza dell’originale, secondo questa nuova prospettiva, va dimenticata una volta per tutte.
Il caso di Amleto è poi del tutto particolare, in quanto è l’unico dramma di cui ci restano ben tre versioni d’epoca. Fino al 1823 se ne conoscevano solo due, quella pubblicata in edizione in quanto nel 1604-5 ( e ristampata con poche varianti, nello stesso formato, nel 1611 e nel 1622 e quella — in parte diversa, a causa di tagli e aggiunte, oltre che di molte varianti morfologiche e lessicali — apparsa nell’In folio del 1623. E i grandi filologi settecenteschi avevano già avuto il loro daffare nello stabilire il testo presuntivamente più vicino all’originale dell’autore oppure alle sue “intenzioni finali” . Ma in quell’anno dell’Ottocento fu fatta una scoperta che mise a rumore il mondo di tutti gli studiosi e gli appassionati di Shakesspeare.
Un certo Sir Henry Bunbury rinvenne in uno stanzino della sua casa di Barton un vecchio volumetto mancante dell’ultima pagina: si trattava di un Amleto pubblicato nel 1603, e dunque prima della prima edizione fino allora conosciuta del dramma. Il frontespizio attribuiva l’opera a Shakespeare e ne indicava una già lunga vita teatrale in rappresentazioni fatte sia a Londra che a Cambridge , Oxford e altrove. Ce n’era abbastanza per incuriosire chiunque , soprattutto perché il testo differiva vistosamente da due fino allora conosciuti. Si sviluppò subito un acceso dibattito sulla sua natura. Si trattava di una prima stesura d’autore: (caso unico in tutto il canone shakespeariano ) o, anche, di una riscrittura giovanile di quel dramma su Amleto, il cosiddetto Ur-Hamlet, da molti attribuito a Thomas Kyd, l’autore della tragedia spagnola) che indubbie testimonianze d’epoca fanno risalire almeno al 1589, ben una dozzina d’anni prima della probabile stesura dell’Amleto classico ? O era da considerarsi un testo piratesco, stenografato durante le rappresentazioni del dramma, o malamente ricostruito a memoria da un attore minore della compagnia, che l’avrebbe venduto sottobanco all’editore? L’unica cosa certa era che quel “primo” Amleto (che tale è, almeno per precedenza cronologica) presentava un’opera molto più breve delle successive due, più rozza, più elementare e, se si vuole, barbarica, mal composta e forse in alcuni passi corrotta, ma dotata di una sua coerenza drammaturgica ed indubbia forza teatrale.
In più punti mostra un diverso montaggio delle azioni. Per fare solo un esempio, la scena -dell’Essere, o non essere- (atto III, scena prima dell’Amleto classico) , cui segue l’incontro tra Amleto e Ofelia, provocato ad arte e spiato da Polonio e dal re per appurare se la follia di Amleto sia davvero follia d’amore, in questo “primo” Amleto ha luogo, coerentemente, subito dopo la “scoperta” di Polonio (che qui, tra l’altro, si chiama Corambis; e altri nomi sono diversi o modificati), mentre nei testi classici viene dopo la lunghissima e seconda scena del II atto .
Alle variazioni delle sequenze drammaturgiche si aggiungono le diverse caratterizzazioni dei personaggi. Il “giovane” Amleto, come in più punti viene definito, è un ventenne mentre negli altri due testi la sua età risulta stranamente spostata ai tremt’anni , e i suoi monologhi, se già ne segnalando lo spaesamento e la vana ricerca di un ruolo e di un senso, appaiono diversamente argomentati (come nell’-Essere, o non essere-) e abbondano di anacoluti e di improvvisi scarti del pensiero.
Quanto al re, appare più unilaterale, più rozzo, e, se possibile, più cattivo. La regina è, invece, meno ambigua, e quindi più innocente, cosicchè nella scena culminante con Amleto può dirsi all’oscuro dell’assassinio del marito e schierarsi decisamente dalla parte del figlio affinchè ne vendichi la morte.
Più coerente per certi aspetti, ma anche più approssimativo, e certo molto inferiore ai due testi classici, questo fantasma testuale ricomparso dopo più di due secoli sembra reclamare a tutt’oggi che si faccia i conti con la sua paternità.
Dal momento della sua scoperta fino a oggi innumerevoli studiosi hanno cercato di risolvere il “giallo” filologico-critico; ma sembra ben difficile che si possa mai chiudere il caso. Troppo incerti, e spesso contraddittori sono gli elementi di cui si deve tenere conto: dati documentali disparati, attestazioni più o meno credibili, riscontri bibliografici dubbi, indizi macro testuali, micro testuali e interstuali interpretabili ad libitum.
L’opera è composita, in più punti quasi un palinsesto va studiata in sé e per sé ma inevitabilmente reclama anche un confronto serrato con i due testi più autorevoli. La critica testuale si trova di fronte a un enorme puzzle, in cui sembra impossibile far combaciare tutti i pezzi in modo che ne emerga la figura dimostrativa inconfutabile. Pertanto, tutti quelli che vi si sono confrontati non hanno potuto fare altro che gli avvocati di parte, ognuno con la sua linea argomentativa di difesa o di accusa; e non si è ancora presentato alcun giudice in grado di emettere un verdetto definitivo.
Proseguendo nella metafora giudiziaria, questo testo è da molti ritenuto “colpevole” in quanto rabberciature dell’opera completa perpetrata da un reporter senza scrupoli, mentre da altri viene considerato “innocente” in quanto prima abbozzo del capolavoro. Anch’io sono stato attirato dentro a questo mistero testuale. All’inizio, la mia posizione è stata quella di semplice spettatore della grande querelle. Ma, man mano che approfondivo l’indagine, mi sono sentito quasi costretto a prendere partito, e, pur non pretendendo di avere scoperto a mia volta dati inconfutabili, ho optato per l’ipotesi della prima stesura autoriale (non importa se condotta su un dramma precedente).
A quel punto, ho ritenuto che il modo migliore di verificare la sensatezza intrinseca di questo testo fosse proprio quello di tradurlo, e conseguentemente di annotarlo, per cercare di carpirne in un’altra lingua i segreti. Tradurre un testo drammatico vuol dire affrontarne non soltanto la semantica discorsiva, ma anche il senso scenico implicito, e cioè la correlazione tra la parola e la mimica, la gestualità, l’azione. Ed è stato proprio alla luce della sua teatralità che questo testo mi è sembrato mostrare, anche nei passi più confusi e corrotti, una sua sostanziale coerenza, una sua autonomia e una sua arcaica bellezza.
Con ciò non intendo dire che tutto fili liscio, né che non si profili qua e là una manipolazione esterna. Ma sta proprio nelle zone d’ombra che ripropone, oltre qualsiasi argomentazionie filologica-critica, il fascino persistente di questo testo. E’ una versione comunque efficace (come hanno dimostrato alcune sue recenti rappresentazioni in Inghilterra, Stati Uniti e Svezia) di una delle più celebri opere drammatiche, una versione che forse costituisce l’unico reperto che possa rivelarci, visto che ci mancano i suoi manoscritti, come lavorava la mente di Shakespeare nella fase embrionale di un capolavoro." (da: “Il dilemma di due Amleti,” — di Alessandro Serpieri su:“Il Sole 24 ore”- del 18/ 05/ 1997 )

EDGAR LEE MASTERS

L’Antologia di Spoon River”(1916) di Edgar Lee Masters, è la più originale opera poetica che ha avuto generazioni di lettori, nonostante sia stato definito “un libro di morti”. In verità, è il più bell’esempio di confessione e rivelazione di fatti e misfatti raccontati, anche ironicamente, da una folla illustre e anonima di cari estinti di un piccolo paese americano, che fanno conoscere il loro passato in forma di epitaffi sulla collina di “Spoon River”, dove i vivi si danno appuntamento per conoscere o “leggere “le “storie” di Charlie French, del giudice Somers, di Aner Clute o di Francis Turner. Complessivamente l’opera si compone di 244 poesie e ogni testo è la “voce” di un trapassato , che si rammarica della propria esistenza o maledice chi l’ha portato alla tomba. Non vi è nulla che possa ricondurre l’opera ad una atmosfera lugubre e tetra. Tutto il resoconto narrativo, che proviene come — fiction — dall’aldilà, è un discorso “spirituale” che si riflette sulla condizione umana mettendone in evidenza difetti e violenze.

CHARLIE FRENCH

Avete mai scoperto
chi dei ragazzi O’Brien sia stato a spararmi
nella mano con la pistola giocattolo?
Là, quando le bandiere erano rosse e bianche
nella brezza e “Bucky” Estil
sparava il cannone portato da Viksburg
a Spoon River dal capitano Harris,
e i chioschi delle limonate erano aperti
e la banda suonava,
tutto fu rovinato
per una scheggia di una cartuccia
scoppiata sotto la pelle della mia mano,
e i ragazzi accalcati intorno a me dicevano:
“Morirai di tetano, Charlie, di sicuro!.
Oh Dio! Oh, Dio!
Quale dei miei compagni ha potuto fare questo?


IL GIUDICE SOMERS

Come si spiega, ditemi,
che io, il più erudito degli avvocati,
che conoscevo Blackstone e Coke
quasi a nemoria, che pronunciai la più bella arringa
che mai la Corte avesse udito, e scrissi
un esposto che meritò l’elogio del giudice Breese —
come si spiega, ditemi,
che io giaccio qui senza un segno, dimenticato,
mentre Chase Henry, l’ubriacone del paese,
ha un cippo di marmo, con sopra un’urna,
dove la Natura con irridente malizia,
ha fatto crescere una malerba tutta fiorita?

THEODORE, IL POETA

Da ragazzo, Theodore, sedevi per lunghe ore
sulla sponda del torbido Spoon
con lo sguardo immobile a fissare il buco
della tana del gambero,
in attesa che apparisse, spingendo avanti,
prima le sue antenne ondeggianti, come fili di fieno,
e poi il suo corpo, color steatite,
gemmato con occhi di giaietto.
E ti chiedevi assorto nel pensiero
che cosa sapesse, cosa desiderasse, e perché mai avesse.
Ma più tardi il tuo sguardo prese a scrutare uomini e donne
nascosti nelle tane di perdizione in mezzo alle grandi città,
in attesa che le loro anime uscissero,
così da poter vedere
come vivessero, e per che cosa,
e perché strisciassero così indaffarati
lungo la strada sabbiosa dove l’acqua manca
quando l’estate si dilegua.

ANER CLUTE

Più e più volte mi chiesero,
mentre mi pagavano birra o vino,
prima a Peoria e poi a Chicago,
Denver, Frisco, New York, dove vissi,
perché mai divenni una ragazza di vita,
e come avessi cominciato,
Bene, dicevo, per un abito da sera,
e la promessa di matrimonio d’un ricco signore —
(era Lucius Atherton).
Ma le cose non stavano così.
Immaginate che un ragazzo rubi una mela
dal cesto del droghiere,
e tutti incomincino a chiamarlo ladro,
il giornalista, il prete, il giudice e tutta la gente —
“ladro”, “ladro”, “ladro”, dovunque vada.
E non può avere un lavoro, né procurarsi il pane
se non rubando, perciò, quel ragazzo ruberà.
E’ come la gente considera il furto della mela
che rende il ragazzo quello che è.


FRANCIS TURNER

Non potevo né correre né giocare
da ragazzo.
Da adulto potevo soltanto sorseggiare dalla coppa,
non bere-
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
confortato da un segreto che solo Mary conosce
c’è un giardino di acacie,
di catalpe, di pergole dolci di viti-
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary-
baciandola con l’anima sulle labbra
d’improvviso l’anima prese il volo.

LA COLLINA

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
il debole di volontà, il forte di braccia,
il buffone, il beone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,
uno arse nella miniera,
uno fu ucciso in una rissa,
uno spirò in galera,
uno cadde da un ponte faticando per moglie e figli —
Tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie, e Edith,
il cuore sensibile, l’anima candida, la rumorosa,
l’orgogliosa, la felice? —
Tutte, tutte, dormono sulla collina,


Una morì di parto vergognoso,
una di amore contrastato,
una per mano di un bruto in un bordello,
una d’orgoglio infranto inseguendo la follia del cuore,
una dopo una vita, lontano, a Londra e Parigi
fu riportata al suo piccolo spazio vicino a Ella, Kate e Mag —
Tutte, tutte, dormono sulla collina.


Dove sono zio Isaac e zia Emily,
e il vecchio Touny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva parlato
con uomini venerabili della rivoluzione ? —
Tutti, tutti, dormono sulla collina.


Li riportarono figli morti dalla guerra,
e figlie prostrate dalla vita,
e i loro bimbi orfani, in pianto —
Tutti, tutti, dormono dormono, dormono sulla collina.

Dov’è Jones, il vecchio violinista
che giocò con la vita tutti i suoi novant’anni,
sfidando il nevischio a petto nudo,
bevendo, strepitando
non pensando né a moglie né a famiglia,
né all’oro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia di pesce fritto d’altri tempi,
delle corse di cavalli di tanti anni fa
al boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.


ZENAS WITT

Avevo sedici anni e facevo sogni orribili,
e avevo macchie davanti agli occhi e nervi scossi.
E non riuscivo a ricordare i libri che leggevo,
come Frank Drummer che imparava a memoria
pagine su pagine.
E la mia schiena era debole e mi tormentavo e tormentavo,
ero confusa e balbettavo le lezioni,
e quando mi alzavo per recitarle, dimenticavo
quello che avevo studiato.
Bene, vidi l’annuncio del dottor Weese,
e là lessi stampato tutto,
proprio come se mi avesse conosciuto;
anche i sogni di cui non riuscivo a liberarmi.
Così seppi che ero destinata a morire giovane.
E mi tormentavo finchè presi una tosse,
e allora i sogni cessarono.
E poi dormii un sonno senza sogni
qui sulla collina presso il fiume.


JUAN RAMON JIMENEZ

La poesia solare di Jiménez, con le sue arditissime analogie e il ritmo incalzante del verso, trova momenti di sinceri agganci con l’Assoluto, non disgiunti da umbratili riflessioni di fronte al pensiero della morte, mentre lo spirito del poeta nostalgicamente vaga nel “giardino fiorito”, in una poesia dalla prospettiva “visionaria” dove a sopravvivere fisicamente sembrano essere la natura e il ciclo delle stagioni, come nel bellissimo testo: “Il viaggio definitivo” da: ”La stagione totale”(1923-1939)
“… E io me ne andrò. E resteranno gli uccelli / a cantare /e resterà/ il mio orto, col suo verde albero / e col suo pozzo bianco /. Tutte le sere , il cielo sarà azzurro e placido; / e suoneranno, come questa sera stan suonando, / le campane del campanile. / Moriranno quelli che mi amarono; / e il paese si rinnoverà ogni anno; / e in quell’angolo del mio orto fiorito e bianco di calce / il mio spirito errerà, nostalgico…./ E io me ne andrò; e sarò solo, senza focolare, senz’albero / verde senza pozzo bianco, / senza cielo azzurro e placido …/ E resteranno gli uccelli a cantare./

THOMAS STEARNS ELIOT

Non estraneo ad una concezione cristiana della vita è il pensiero di T.S. Eliot che con la sua opera poetica dà slancio e vitalità ad una visione del mondo non priva di riferimenti salvifici. Il canto di Eliot è un continuo indagare e perlustrare sui segni della vita, che quantunque negativi, spianano la via ad una sofferta e rasserenante opzione religiosa. Notevoli sono gli accumuli psicolinguistici che, provenienti dalla conoscenza di diverse letterature, da quella medievale di Dante e Cavalcanti, a quella angloamericana, di Emerson, Melville, Hawthorne e Poe, con una fitta sedimentazione conoscitiva di messaggi filosofici recepiti dai discorsi di George Santayana e di Henri Bergson, fanno di Eliot il massimo rappresentante di una poetica nella quale il rapporto tra i vivi e i morti non diventa mai distacco o frattura, ma continuità dell’esistenza. La sua ricerca etico-morale è sofferta e dilacerante e si pone sul versante della liberazione spirituale dove le poesie costituiscono un unico corollario storico , ovvero “ una vivente unità di tutte le poesie “, che sono state scritte nel corso dei tempi .
Da qui la concezione di una poetica “universale”, che accentra nel suo interno riferimenti ed echi di più autori, innesti verbali provenienti dalla liturgia ecclesiale, reminiscenze shakespeariane e duecentesche, e che coinvolge l’uomo dall’angoscia della “Terra desolata”, alla speranza cristiana del “Mercoledì delle Ceneri” .
Di questa poetica importante è la correlazione tra l’esistenza e l’inesistenza. E in “Four Quartets” si rilevano momenti di fervore cristiano di notevole rilievo.
Le domande, i dubbi e gli insistenti richiami alla Salvezza dopo la morte accentuano il carattere unitario di una poesia, che avverte il male di vivere e ne analizza a fondo gli aspetti negativi denunciati nelle loro sequenze fenomenologiche. senza smarrimenti, attraverso l’adozione di un sapiente simbolismo cristiano che supera il trionfo stesso della morte laddove essa è proclamata con vigore, ma senza resa, come nel testo “Il viaggio dei Magi”- “Per noi questa Nascita fu / Come un’aspra ed amara sofferenza, come la Morte, la nostra Morte” -, mentre ne il “Mercoledì delle Ceneri” si fa forte il senso della pietà per tutto il genere umano: “Prega per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte/ Prega per noi ora e nell’ora della nostra morte/,” lasciando a Dio l’ultima chance e alla preghiera il senso estremo della consolazione: “E prego Dio che abbia pietà di noi/ E prego di poter dimenticare/ Queste cose che troppo/ Discuto con me stesso e troppo spiego/”svelando nel testo: ”La sepoltura dei morti” aperture e confini del nostro limite temporale.

CANTO DI SIMEONE

Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi
E il sole dell’inverno s’insinua sui colli di neve;
La stagione ostinata si sofferma.
La mia vita è leggera, in attesa del vento di morte,
Come una piuma sul dorso della mano.
La polvere nel sole e la memoria negli angoli
Attendono il vento che gela verso la terra morta.

Concedi a noi la tua pace.
Per molti anni camminai in questa città,
Mantenni fede e digiuno, provvedetti ai poveri,
Ho dato e avuto onori e agiatezza.

Chi giunse alla mia porta non fu mai respinto.
Chi si ricorderà della mia casa, dove vivranno i figli dei
miei figli,
Quando verrà il tempo del dolore?
Prenderanno il sentiero della capra, la tana della volpe,
Fuggendo i volti stranieri e le spade straniere.

Prima che venga il tempo delle corde, delle sferze e dei
Lamenti
Concedi a noi la tua pace.
Prima delle stazioni della montagna di desolazione,
Prima dell’ora certa del dolore materno,
Ora in questa stagione di nascita e morte,
Possa il Figliolo, il Verbo non pronunciante e impronunciato
ancora ,
Accordare la consolazione d’Israele
A un uomo di ottant’anni e che non ha domani.
Secondo la tua parola
Ti loderanno e soffriranno a ogni generazione
Con gloria e derisione,
Luce su luce, salendo la scala dei santi.
Non per me il martirio, l’estasi del pensiero e della preghiera,
Non per me la visione estrema.
Concedi a me la tua pace.
(E una spada trafiggerà il tuo cuore,
Anche il tuo.)
Sono stanco della mia vita e della vita di quelli che verranno,
Muoio della mia morte e della morte di quelli che verranno.
Che il tuo servo si parta,
Dopo aver visto la tua salvezza.


LA SEPOLTURA DEI MORTI

Aprile è il mese più crudele, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia, noi ci fermammo sotto il colonnato,
E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca,
Mio cugino, che mi condusse in slitta,
E ne fui spaventata. Mi disse, Marie,
Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù.
Fra le montagne, là ci si sente liberi.
Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud.

Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono.
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi,
o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.

Frish weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind,
Wo weilest du?

Fu un anno fa che mi donasti giacinti per la prima volta;
Mi chiamarono la ragazza dei giacinti…
Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti,
Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo
Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero
Né vivo, né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo
il silenzio,
Il cuore della luce.
Oed’ und leer das Meer.
Madame Sosostris, chiaroveggente famosa,
Aveva preso un brutto raffreddore, ciononostante
E’ nota come la donna più saggia d’Europa,
Con un diabolico mazzo di carte . Ecco, qui ,disse,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio Annegato
(Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. Guardate)
E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce,
La Dama delle situazioni.
Ecco qui l’uomo con le treaste, ecco la Ruota,
E qui il Mercante con un occhio solo, e questa carta,
Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso,
E che a me non è dato vedere. Non trovo
L’impiccato. Temete la morte per acqua.
Vedo turbe di gente che cammina in cerchio.
Grazie. Se vedete la cara Mrs. Equitone,
Ditele che le porterò l’oroscopo io stessa:
Bisogna essere così prudenti in questi giorni.

Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’i non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano,
E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano
Su per il colle e giù per la King William Street,
Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con morto suono sull’ultimo tocco delle nove.
Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: “Stetson!
Tu che eri a Mylae con me, sulle navi!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?
Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell’uomo,
Se non vuoi che con l’unghie, di nuovo , lo metta allo scoperto!
Tu hypocrite lecteur ! — mon semblable - mon frère!

GIOSUE’ CARDUCCI

Nel 1848 la letteratura italiana, tra classicismo e romanticismo, rivoluzione e impegni di guerre, si indirizza contro la tirannide straniera attraverso le più genuine richieste di libertà espresse dal popolo. La poesia diventa occasione di incitamento alla realizzazione di nuovi ideali. Ma dopo le prime inevitabili sconfitte per la liberazione, la letteratura si eclissa silenziosamente dagli impegni civili e politici attestandosi su una produzione letteraria, sentimentale e languorosa, fino a quando, contro gli ultimi singulti del romanticismo, non appare sulla scena culturale Giosuè Carducci, che forte della sua passione civile e nazionale, diventa paladino della tradizione, riproponendo ad esempio l’opera di Dante e di Virgilio. Dall’austero e ribelle poeta delle “Odi barbare” de “l’Inno a satana” e di “Giambi ed epòdi” non mancano prove poetiche di pensosa meditazione e riflessione come in “Juvenilia”: “ Passa la nave mia , sola, tra il pianto / de gli alcion, per l’acqua procellosa;” e in “Levia Gravia”: “O tu che dormi là su la fiorita /collina tòsca, e ti sta il padre a canto ; / non hai tra l’erbe del sepolcro udita / pur ora una gentil voce di pianto? / E’ il fanciulletto mio , che a la romita / tua porta batte; ei che nel grande e santo / nome te rinnovava, anch’ei la vita / fugge, o fratel, che a te fu amara tanto./ /. Ma è con “Rime nuove” e con il sonetto “Funere mersit acerbo”, che la poesia carducciana lascia tracce indelebili del dolore, come in “Pianto antico”, e “Davanti San Guido”

PIANTO ANTICO

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.


GIOVANNI PASCOLI

Il Decadentismo europeo accogliendo alcuni aspetti formali della poetica simbolista, trova in Giovanni Pascoli il “fanciullino” freudiano che, con ”Myricae” e i “Canti di Castelvecchio”, inaugura una stagione poetica di romagnola solarità e di brividi novembrini.
I riferimenti metaforici visti nel loro naturale rapporto con le stagioni, costituiscono la mappa di un discorso che sottintende il grande problema del Bene e del Male. Alcuni temi della liturgia cristiana, come il Natale, la Pasqua e il culto dei morti, finiscono con l’essere materiale simbolico nelle cadenze del tempo all’interno di una scenografia spirituale che ha come sfondo la storia delle sue tragedie familiari, come momento egemone di un discorso sempre più espressivo e figurato all’interno del quale si pongono il poeta adulto e il “fanciullino”, ovvero l’altro di sé del poeta smarrito e stupito di meraviglia di fronte al mondo delle cose prima della loro contaminazione e dissolvenza.
Si veda, per esempio il testo dal titolo “Nebbia” che racchiude i caratteri peculiari della sua poetica come il rifiuto-rigetto del passato in quanto espressione di lutto e di dolore, la suggestione-contemplazione della natura e infine la riappropriazione del pensiero della morte come evento ineluttabile di tutto il genere umano:
-”Nascondi le cose lontane,/tu nebbia impalpabile e scialba,/ tu fumo che ancora rampolli,/ su l’alba,/ da’ lampi notturni e dà crolli/ d’aeree frane!…..Nascondi le cose lontane:/ le cose son ebbre di pianto! Ch’io veda i due peschi, i due meli soltanto/ che danno i soavi loro mieli/ pel nero mio pane./…. Nascondi le cose lontane / che vogliono ch’ami e che vada! Ch’io veda là solo quel bianco/ di strada, / che un giorno ho da fare tra !stanco/ don don di campane…./ - mentre nel testo dal titolo “Di là” fluiscono, opponendosi l’uno all’altro, i segni della comparazione di due mondi: l’uno solare, e l’altro, silenziosamente cupo e abbandonato.


DI LA’

L’entrata era aperta, nel sole,
sopra anditi pallidi e lunghi.
Di fuori era odor di viole:
ma dentro, di muffa e di funghi.

Qua prati, là via senza capi,
qua zolle, là squallidi tufi.
Di fuori ronzavano l’api,
ma dentro soffiavano i gufi.

Veniva di qua, mattiniero,
lo strido di rondini folte;
di là, di laggiù, da quel nero,
un suon di campane sepolte.

Entrasti….. fra cespi d’assenzio,
cogliendoti un non-ti-scordare-di-me…..
La porta col blando silenzio
dell’olio t’udisti serrare su te.

o ancora nel testo “L’aquilone”, che rievoca speranze e illusioni e colpisce per quel senso di amara conclusione di fronte alla morte:” Meglio venirci ansante, roseo, molle/ di sudor, / come dopo una gioconda / corsa di gara per salire un colle!” e in “La mia sera” dove , tra pensosa meditazione e senso vivissimo di una antica felicità, l’anima si ricompone e si disperde in un dolce nulla:
“ Il giorno fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle, / le tacite stelle…..Nel giorno, che lampi! Che scoppi! / Che pace la sera!…..e che nella quinta strofa finale s’apre a sorprendenti effetti di obnubilamento” Don… don……E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi!, sussurrano, / Dormi, bisbigliano, Dormi! / là voci di tenebra azzurra…/ Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era…/ sentivo mia madre… piò nulla…/ sul far della sera./
La poesia di Pascoli va vista soprattutto nel duplice rapporto dicotomico tra mondo reale e mondo immaginario. L’uno, erogatore di immagini cupe e ostili, l’altro, produttore di visioni estatico-contemplative in un microcosmo rurale e naturalistico dove la memoria subentra e domina come una musa larica.
A determinare questo stato di grazia e di contemplazione è sempre la figura metaforica del “fanciullino” che carica su di sé tutta l’innocenza perduta, in una visione del Mondo che, quantunque contaminata dal Male, resta la fonte di infinite trasposizioni emotive e psicologiche e di genuine indicazioni che portarono il poeta a guardare le cose circostanti con occhi innocenti e a riconoscere nella madre una delle fonti principali della sua sensibilità poetica dichiarata nella Prefazione ai “Canti di Castelvecchio”:
“Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, quel ch’ella sia, la mia abitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiavo la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a vedere soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì”.
Questo stato d’animo poetico-contemplativo, lo troviamo costantemente in Myricae dove meglio si configurano le proiezioni spirituali del poeta con l’ambiente esterno oscillante tra simbolo e realtà. Si ved ad esempio la poesia "L'assiuolo" che meglio testimonia un'atmosfera dai contorni sfumati, sullo sfondo notturno di un ambiente surreale nel quale domina la presenza costante e ripetitiva del pianto di un uccello, come a scandire ritmi e tempi di una vita cosmica e terrena nella quale i termini psicologici di una condizione esistenziale sono visti tra mistero e morte, senso del finito e dell’infinito.

L’ASSIUOLO

Dov’era la luna? che il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
sonava lontano il singulto:
chiù…

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?..
e c’era quel pianto di morte:…
chiù

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