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lunedì 14 giugno 2010

Carlo Felice Colucci

Seconda parte


FINALE DI PARTITA
(poetica)

Il viaggio inutile (2003)
La materia dei sogni (2004)
Io per le strade (2004)
Il tempo del seme (2005)

Dopo il 1992, Carlo Felice Colucci non pubblica più libri di poesia, per quasi un decennio, perché afflitto da malanni di vario genere, avendo a che fare con luoghi di cura non più da medico ma pure da paziente. Il ritorno all’esercizio poetico avverrà gradualmente, a margine di una convalescenza che non mancherà di portare primizie poetiche con il volume “Il viaggio inutile”, dove la Storia si lega alla vita e questa alla poesia, in un fitto schedario di memories: ”Madre, / così iniziò la nostra guerra / un andare e venire, noi, / dalle caverne della preistoria ai / ricoveri di roccia, alle foreste” (pag.11). Ma sono tanti gli episodi narrati nei quali mancano i giorni per seminare, e la partita è tutta da giocare, dove solo riscatto è il distacco paziente e sofferto, solo rifugio la pietas, la memoria dei cari, sola difesa l’ironia; solo scudo il riso beffardo e scanzonato da clown; e senza rimedio che il placebo (Nota dell’autore, pag.5). E il cammino poetico, ancora una volta, è già tracciato: chiamiamolo, prologo, teatro dei fantasmi, o dei pagliacci, dissoluzione del futuro e trappola dell’esistenza “la conta delle irradiazioni tengo / ma ancora la vertebra che duole, / duole, metastasi anch’io, Mater / e niente prole /” (pag.13): un viaggio che trova la sua ragione d’essere in quella categoria dello spirito la cui matrice introspettiva conserva le tracce mnestiche e il silenzio dell’interiorizzazione. (Carlo Di Lieto). Per questa via si collega più “La materia dei sogni” dove il pensiero si restringe in immagini chiaroscurali, d’illuminante percezione simbolica.”Il cuore della terra perde colpi / come quello dei versi che non leggi / mentre lontano chiama l’arrotino, / metti un lume a petrolio una buia notte, / Pierrot lunare: quell’ombra che passa / lieve lieve e non t’accorgi, è la vita” (pag.22). Né mancano elementi linguistici portati ad un livello di massima tensione concettuale, fino a riscoprire il connubio interattivo tra parola e immagine.
In “Io per le strade” permane intatto il codice esistenziale, come canone bioumorale dove i giri della vita rallentano di fronte a certe memorie irte / dell’età matura, dentro confini vuoti e senza sole: Se ho dolori, uso artiglio del diavolo / e su un letto di Procuste mi stiro / da tempo i mandarini preferisco / e non divoro più il prozac o il viagra / l’amore senza età sognammo in tanti / e anche Felice ( il mio secondo nome) /, neppure oggi verrà l’alto postino / a informarmi che nessuno mi ha scritto / che ormai non sapremo più niente, niente / (pag.44).
Qui possiamo anche andare oltre, spingerci nei dintorni di una misantropia indotta da una società che non ama i poeti, e che disperde, giorno dopo giorno, il suo patrimonio di storia e di identità, (Cesare Segre), pensiero espresso anche dal Colucci sebbene con sfumature diverse (si veda, ad esempio la sezione -Colloquio con l’autore-) in questo saggio.
L’utilizzazione della poesia, come veicolo di rappresentazione e di conoscenza del mondo, apre scenari imprevedibili, quando si raggiungono contenuti di mistero e di enigmaticità, per questo non crediamo che essa sia inutile, specie quando la sua presenza, finisce con l’essere una malattia assolutamente endemica e incurabile (Montale). Alcune poesie contenute ne “Il tempo del seme” (Pesci rossi al policlinico, Finale di radioterapia, Prostatiche allegorie, ecc) sono legate alle vicende della malattia- e come tali vanno lette, se è vero, come è vero, che se l’arte e il linguaggio fondano la vita, né l’una, né l’altro potrebbero mai esistere fuor dall’esperienza esistenziale a cui ogni artista sempre si abbevera, anche a propria insaputa. (Nota dell’Autore, pag.101). Questo volume, inviato alle case editrici maggiori, rimase a lungo in ombra, né vide la strada della pubblicazione, non potendo l’autore vantare alcun rapporto di cuginanza con gli editori, sebbene di — padrini — Colucci non ne abbia mai avuti o conosciuti in letteratura e in politica, dove si annidano i nomi dei poeti più ricorrenti nelle antologie e nei corsivi: luoghi di autentica mistificazione culturale. Una cosa va detta: se il volume “Preghiera occidentale” fosse stato pubblicato, a suo tempo, da Mondadori o da Einaudi, non ci saremmo occupati ora, dell’invisibilità poetica dell’autore, e di un delitto letterario in più. Quello che colpisce nella (sua poesia) è la tenacia, la persistenza della sua parola poetica… dell’unicità, della solitudine, dello scavo esistenziale secondo la propria natura” (Marco Forti, pref. a “Il tempo del seme” pag.109), condensata in un mix di collettive pulsioni nelle quali si percepisce un diario poetico, capace di trovare correlativi oggettivi, tra figure bibliche, e nuove rovine, nell’ora che passa e che segna la fine, me ne andrò via da solo, nottetempo,/ coi ragazzi di via Panisperna” (pag. 26), fuori da ogni approdo metafisico, il mio Gesù non abita la storia (pag.28).
A volte, ci s’imbatte in fissurazioni lessicali, come ad annunciare un’altra bufera di sentimenti, e di vita combusta, rilevabili nel testo L’urlo, col sottotitolo (a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare), (pag. 30), dove si acuiscono le implosioni psicologiche, attraverso un grido soffocato, simile a quello riportato nel dipinto di Munch, forse l’opera più famosa del maestro norvegese, attestante l’angoscia dell’esistenza, che si riverbera come un angelo nero nella poesia di Colucci, legata alla poetica delle cifre del vissuto, in cui anche l’Urlo di Allen Ginsberg, pare prestarsi molto bene alla poetica del Nostro, per via del linguaggio fatto di realtà fisica, fisiologica, biologica, di furore creativo e di allargamento dell’area della coscienza: un volume, secondo alcuni, che cambiò l’America e anche il mondo. Per questa via si possono leggere e interpretare le quattro opere “Il viaggio inutile”, “La materia dei sogni”, “Io per le strade” e “Il tempo del seme”, così allineate nell’arco di appena un triennio, secondo un racconto con più capitoli, tra similitudini e paratassi: quattro opere, quattro pedine da giocare sotto la luce di una temporalità spettrale, bordeggiante il campo della sconfitta, prima del gorgo.
Nell’inevitabile corsa verso l’ultima sfida, adottando sempre più frequentemente “distesi” — solo in apparenza — endecasillabi (si vedano, qui, gli Inediti), Colucci riporta i silenzi e i rumori della vita, attualizzando il tema degli assenti, che non hanno più voce, né storia o avvenire, collocati al centro di una realtà metateatrale e nel poco spazio che resta, consapevole che nella partita che si accinge a portare a termine, non sono ammessi trucchi, ma solo la parola nuda e cruda, in cui ancora credere. Ed è in questa metafora scacchistica, che si espone allo scoperto il destino di un uomo e il suo universo poetico, riflettendo, ancora per certi aspetti, il “paradigma apodittico della Weltanschaung beckettiana”, in cui la transizione linguistica è “consapevolezza abbagliante della natura della poesia, e più in specifico, grammatica dell’ineffabile”.

Mario M. Gabriele



Antologia poetica

da: Una vita fedele (1963)

Il pianto d’un uomo

Un giorno, su certe sedie di paglia
s’udiva ancora il pianto d’un uomo,
il canto, un paese, una vita fedele.
E se ne andarono tutti sui carri,
coi lumi spenti, come una fuga.
Qui non sanno le voci,
l’erba e fumo intatti sul muro,
le ghirlande dei giorni
intrecciate con i fiori d’uomo.
Un posto di gente senza infanzia
e cuore uno screzio, gridano forte
i motori, non s’ode
la ruota lenta dei morti.
I pierrot si giocano
pezzi di luna
dietro le case fredde di mattoni
dove rompono silenzio i gufi
e occhi di buio.

Due novembre al tuo paese

Quella sera nessuno ti chiamò
e l’ombre furono sui muri a calce
e noi con loro. Pigiavamo
chicchi d’uva, buccia e semi,
tu dicevi dei nonni
alti negli anni, di ragazzi,
io d’una pianta che non cresceva
al tuo ritorno.
Le città gridavano lontano.
E un sonno stanco ti cadde sul petto
e la neve di tua madre, furtiva.
Novembre sulla porta
inutile tentava di chiamarci.
I morti piangevano da soli
un’altra volta e il vento rotolava
latte vuote nelle selci.

Per una donna

Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel fuoco,
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento,
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli da le rupi,
spezzavano corde alle chitarre.


Notturno

Anche le città diventano di sonno,
la folla, lasciano pochi neon,
e uno crede che non dovrebbero
se viene da un paese e cammina,
un paese di piccole cantine.
Anche i manichini sono stanchi.
E gli uomini, le cose che tocchi,
il silenzio diventano
tristezza in vetrina.
E due fanali in corsa
dentro la gola alta de le case
non sono i carri senza lume
che improvvisi ti si parano avanti,
lungo i fossi stellati,
a cigolare di gioia.
Tu neppure, Martino,
il tuo peccato è sulla vigna,
fra i mattoni rossi,
il mondo in un’arancia.


da: La Pagaia (1967)
Ritratto d’uomo

Ora nessuno ricorda
agli angoli di strada
sui tetti rossi di stupore
dove abbiamo sepolto
le mie lune d’agosto i lager.
Dov’è quel silenzio di notte
per coprirci,
il vento matto negli ulivi?
Portava un segno nero sulla giacca
il ragazzo che ero
il mare in mezzo ai libri,
e chi può ricordare,
compagno d’alba,
chi rubava orme al tuo roseto
la nostra donna sopr’al molo.
Sapessi almeno dove gioca
mia madre bianca sulle grucce,
dove raccoglie arance per la cena.
Sembrano bare d’infanzia
le case mute qui d’intorno,
bisognerà avere presto
un ritratto d’uomo,
prima che l’incrocio torni rosso,
portare qualcuno sulle braccia.
Nel tuo giardino ho visto ancora
quel cane imbalsamato.


Certe domeniche

Da noi sanno tutti
le domeniche lunghe degli uomini
a togliere tappi alle birre,
e poi schiuma, e poi acqua.
E quando il nostro vicino parlava
gli guardavamo lo sfregio
ma nessuno ascoltava,
nemmeno i vecchi, più neri
dei corvi sugli ulivi e via.
Era estate la sera, senza prezzo.
Leggevamo il fondo ai bicchieri
come una mano oscura,
le bottiglie vuote e gialle,
come parole, tabacco sui denti.
Coi tappi, giocavano i ragazzi.
Certe domeniche,
se indovini la casa,
per fortuna
ci copre un velo di fumo
alle altalene dei prati
e, più tardi, all’occhio del lume.
Quando il nostro vicino vuotava
la pipa, era quasi ora, quasi domani,
l’ultimo carro di sonno e i miei.
Certe domeniche,
se indovini la strada,
sembriamo un paese di salici.

Il mio paese

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina,
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Martino.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per la via.


da: Placebo (1975)
Da tempo

Da tempo non ridiamo
non viene primavera
non abbiamo capelli ormai
e nemmeno pensieri parole per
L’isola misteriosa e l’uomo nero
di fronte leggono destini
bruciano vivo il prossimo per gioco
ti ho serbato i giornali
ma niente di noi del viaggio
sordo e cieco all’ora d’Emmaus
e ci danno la buona Pasqua
la buona tavola addosso
ignorando se restar desti oppure
fanno l’anestesia non temere
e che freddo nel cuore degli altri,
da tempo non sogno a colori
non passa il dubbio
non chiedo grazia e nemmeno
mi toccano con un dito un filo
di speranza e sarebbe tumore
il Nicchio gridava la Tartuca
e così di contrada in contrada
l’infanzia collettiva
prova d’artista viola d’amore
nessuno ci lecca le ferite
nessuno ci suona la fanfara
nelle città dell’avvenire e tu
le ombre nella madia il sangue a pezzi,
da tempo non vediamo
non s’avverte dolore placebo
la tosse dei miei fra le navate
e non usciamo dal ghetto
non lasciamo graffiti storie
quei pochi cromosomi a farci
adesso potrei dirti che Melissa
è nome di pianta paese
ninfa tramutata in ape,
da tempo non cerchiamo
non vola il tuo demente e poi
non abbiamo più sonno denti
non abbiamo resto mongoloide
contiamo le rughe agli amici,
che strano silenzio da tempo
sul mio giorno a mondare
lupini e sogni nel metrò,
perché da tempo non crediamo
pecore a destra montoni a sinistra
non vengono i nostri,
non viene il mistral
non abbiamo sedie pazienza
e nemmeno colpe da offrire
inchieste da aprire
domani affiggo i manifesti
del mio sciopero a oltranza,
da lungo tempo attendiamo
che passi qualcuno
sui larghi balconi floreali
e non abbiamo più requiem
partigiano Johnny, in pace


Nel traffico

Dove c’era l’incrocio e svolto a destra,
qui comincia la città per chi
manichini e marciapiede
anarchici perbene in vetrina
i tram li hanno aboliti
gli anni di mio padre cavaliere
la terra è straniera
ma bisogna far presto sibi et paucis
chiude alle nove il fermo posta
sempre qualcuno a mendicare infanzia,
ora tamponano qualcosa in sosta
con la tua moto, è l’uomo
che una vita fa mi vendeva anguria
e prendere altre note smog
il nome ai travestiti
ma è tardi e domani
dove c’era l’incrocio
prognosi infausta barbone,
e poi il tunnel dagli occhi gialli
e cambierai colore finalmente
Campari Soda Esso Extra Hotel Oriente
o dove il monumento al lattaio
aperta a tutti la viltà
i sottopassaggi
saldi fine della serie
manca l’insegna dell’unico istante,
non hai età vecchio nell’abitacolo
operaio era il turno di notte
ci sarebbe da fondere un amico
finire in crepacuore come altri
e un clacson anche al mio Dio,
spengo la cicca e vengo, i fanalini,
a volte il rombo dei motori
sembra il mare in cui credemmo,
silenzio: farà violino
lo spago legato a un bidone


Le mie città

Sono lunghe e nude
come ore negli abitacoli
non impazzire sagittario
prima che sistole e diastole,
hanno vie deserte e fredde
come il dolore degli altri,
entra nel bar e dì che senza droga,
lo chiameremo Smog e sarà nero
vecchi sotto l’arco dell’estate
più a nessuno somigliate
garofani sulla paga del povero
su negri e negri da lapidare
torneremo alle case dei beat
con la fanfara del perdono,
le mie città sono bianche e pure
come notti che vegliammo in cerchio
scendono meste nei metrò
autopsia a un compagno di giochi
il vigile ha dato via libera,
non hanno stazioni dogana
la pioggia l’antico ritornello
ma dicono periferia soltanto
ciò che non siamo
quando cani abbaiavano
all’ombra dissepolta d’un romano
quando pietosa tacque la ruspa
mai saranno luoghi santi né tu
al crocicchio degli anni
dove col fiato mozzo
le mani gonfie di miti e di geloni
come il giorno che cercavamo ansiosi
una stanza mobiliata e qualche nome,
le mie città hanno tutte
una voglia di fine sulle guance


da: Preghiera occidentale (1981)

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette,
ho finito i gettoni,
altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva sì
l’uniforme da Lotta continua
ed uno vorrebbe alle spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza giochi di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie


Intervista

Non era prevista l’eterna luna
sulle nuche strette e lunghe delle ombre
ai tavoli spogli di amici
un poco d’ansia e passa la voglia,
nato maturato caduto qui e ora
passa la vita a un filo di parole
impossibile inguaribile
in conflitto col potere istituito
terra a tutti e il mio simile
non sono io né alcuno che mi somigli,
dire abbiamo la stessa donna
stessa energia divisa in quanti?
O un’agonia frugale in manicomio
dove in fondo optare per fede,
i signori giurati son pregati
allacciare cinture e non fumare
sette volte settanta è sempre poco,
e quando bambino innaffiavo beato
passanti e un geranio risecchito
quando il vicino di letto muore e tu,
amava tutto l’inesistente
il vuoto boccale dell’amico
la cerca dei miti porcini,
tanto odorava di niente il bosco
di belle addormentate qui e là tuia,
ma nessuno a stringerlo in tempo
in cerchio coi compagni di lager,
nessuno, ecco
adoro ipotesi assurde soia
latte rappreso i turni di notte
e dopo ci buttano sulla strada
piena d’occasioni perse e vagabondi
sulle rotaie sconnesse ci buttano
solo oroscopi ed offerte speciali,
questo è certo: mi voglio molto bene
scelgo attenuanti con cura
chiamo ancora l’appello in terza C
e sempre stento a levarmi di buon’ora,
zeppa memoria di ragazze e marinai
di cose e paesi provvisori, fame
stirpe dell’uomo da un lato e gli altri,
tossicomani dementi cancerosi,
nelle piazze del mondo a festeggiarmi
per poche aspirine e qualche mito
longevo ereditario sto tranquillo
sotto il segno dell’acquario naso in su,
ma in pigiama nessuno mi ricorda
nessuno crede che sia dottore
che abbia una paura più grande,
pro e contro dentro e fuori fa buio
e so di non rispondere a tutto,
solo rifarei il cammino a ritroso
lentamente, con estremi passi
dicendo a ognuno: per sempre


Amate grondaie

“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada,
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio, noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio ai Santi
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri,
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’inutile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi


In viaggio

Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dai lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
mai vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria
non è dove si nasce, la terra
partenze departs qui e là
quasi “rosa la rosa” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte sempre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici passengers
are kindly requested io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con le parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone
e basta


Il fondo

E’ l’ora pietosa walkiria
né vita né sogni scold
mai toccherò il fondo
come nel gioco del dolore,
sdrucita zimarra di miti
ci consolammo a vicenda
l’arte a due soldi
per pochi versi e una tisana
e mai nessuno ai quadrivi
di nebbie e di puttane
i tram li hanno aboliti
mio padre cavaliere,
così aggrotti paure vecchia notte
così un ragazzo di cuore dis moi
beveva d’un sorso la Senna
senza rosa dei venti a sfogliare
e mai toccherà il fondo
né con la vita né col podice
né con l’indice teso l’orecchio
al muto ansimare dei morti
che pigiano eterno e credeva,
o fra le antiche mura tabù
tranquirit noan ansiolin
avvolti in bandiere d’angoscia
in nome del Padre, del Figlio e
segnale di sorte anche tu scold
né coi sogni la fine toccherò
a rimorchio del male comune,
ma nemmeno raccontarmi
a un saba di folli, mai
la rondine sotto il tetto
non finirà mai il fondo,
chiusa luna al pozzo degli avi
sull’aia macchine rozze
trebbiano il poco amore che resta
degli anni scritti nei tronchi
e tu Don Chisciotte in vacanza
alto sul mio ronzinante,
uno che mai toccherà il fondo
né con la vita né col silenzio,
la grande notte s’avvicina
pietosa walkiria è l’ora
delle calme periferie,
né con la fine toccherò
né vita né sogni né fine, mai,
poi l’attimo infinito forse
del bianco fischio del lattaio

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