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martedì 15 giugno 2010

La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea

Seconda parte


LE ANAMNESI DIFFERENZIATE SUL NULLA/MORTE

Il Novecento italiano col suo ampio repertorio letterario sul tema del nostro essere — qui e ora - offre un flusso ininterrotto di testi che, se non rimuovono totalmente le domande sul senso della vita, prospettano anamnesi differenziate dell’interrogazione esistenziale, con interessanti margini di interpretazione proiettati su alcuni momenti riflessivi e meditativi, tra dialogo e soliloquio, per una dialettica sulla morte, legata in larga misura al ricordo dei cari estinti e ad una forte e marcata problematica esistenziale come in Montale, Sereni, Luzi, Pavese e Caproni, che hanno autorevolmente segnato il loro cammino con opere che riflettono il destino dell’uomo e della sua fragilità, anche attraverso un'appassionata ricerca etico-morale, fortemente combattuta, fino all’estremo (ir)razionale gesto del suicido in Carlo Michelstaedter il quale, nella continua lotta tra spirito e ragione, recupera con la poesia la strada dei suoi meandri esistenziali e la luce vivissima del suo processo di liberazione: “Lasciami andare , Paula, nella notte, / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andare oltre il deserto, al mare; / perch’io ti porti il dono luminoso”. Alcuni documenti poetici provenienti dal Crepuscolarismo, a parte Corazzini che vede nella Morte la fine dei suoi mali fisici nella composizione dal titolo: la “Desolazione del povero poeta sentimentale” Perché tu mi dici : poeta?/ Io non sono un poeta./Io non sono che un piccolo fanciullo che piange./ Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio./Perché tu mi dici: poeta? ……” io so che per essere detto: poeta , conviene / viver ben altra vita! Io non so , Dio mio, che morire “, fanno parte di un più ampio archivio di sentimenti ed emozioni come in Guido Gozzano che, accanto ad una descrizione provinciale e ironica della vita di provincia, ci trasmette una visione della morte (senza querele) portatrice di benessere e di dolce (sapore),definita la grande (eguagliatrice), o ancora in Camillo Sbarbaro che, attraverso un colloquiare dimesso e a bassa voce, alza i toni del ricordo, magnificando la figura del padre in “Pianissimo ”Padre, se anche tu non fossi il mio/ Padre”/, per te stesso ugualmente t’amerei/, portando al limite del prosaicismo lirico gestualità affettive e memorie incancellabili.
In molti poeti l’atteggiamento correlato alle stagioni dell’autunno e dell’inverno, che meglio esprimono metaforicamente le età mature della vita rievocate tra delusioni e inganni, tra sogni e luoghi della memoria, è spesso sentimento di difficoltà nel cercare varchi di salvezza al di là di ogni inconfessabile dubbio davanti all’imperscrutabile. Ecco allora la scelta di correlativi oggettivi nel tempo che passa e nella stagione che scolora o che annulla la visione dell’orizzonte con elementi fisici quali la pioggia, la nebbia e la neve. E’ la metafora della desolazione della vita e di un male di vivere portati al limite di una tensione spirituale sincera e fortemente elegiaca come in questi testi dal titolo “Autunno” di Vincenzo Cardarelli e di Adriano Grande e in “Fuga di giovinezza” di Hermann Hess.

VINCENZO CARDARELLI

AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento di agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

ADRIANO GRANDE

AUTUNNO
Autunno la tua musica!
Un’uguale tristezza in me discende
a quella che t’avvolge, o età dell’anno
che scendi a morte con mesta allegrezza.
Concedi ch’io mi accordi sui tuoi flauti.
Prestami una tua forma.
Dammi i tuoi frutti accesi :
una vite arrossata; od una pergola
dove io mi stenda e dorma.
Mi cullassero i rami di una quercia,
nei tuoi profumi passeggeri e blandi
si placassero, come a un oppio nuovo,
l’aspro pensiero teso,
il vivere penoso
e l’obbedire inutili comandi.

HERMANN HESSE

FUGA DI GIOVINEZZA

La stanca estate china il capo,
specchia nell’acqua il biondo volto.
Io vado stanco e impolverato
nel viale d’ombra folto.

Soffia tra i pioppi una leggera
brezza. Ho alle spalle il cielo rosso,
di fronte l’ansia della sera
e il tramonto e la morte.

E vado stanco e impolverato
e dietro a me resta esitante
la giovinezza, china il capo
e non vuol più seguirmi avanti.


EUGENIO MONTALE

L’itinerario poetico di Eugenio Montale è tutto un descrittivo tomo intorno al “male di vivere”, che dall’iniziale testo dal titolo: “Meriggiare pallido e assorto” in “Ossi di seppia”, è venuto via via, a fissare i termini di un percorso esistenziale di ansia metafisica e di recupero dei luoghi della memoria, approfonditi nelle successive opere, testimoniando con la sezione “Xenia” del volume “Satura”, il rapporto affettivo con la moglie scomparsa, chiamata “Mosca”:
” Caro piccolo insetto/ che chiamavano mosca non so perché / stasera quasi al buio / mentre leggevo il Deuteroisaia / sei ricomparsa accanto a me , / ma non avevi occhiali, / non potevi vedermi / né potevo io senza quel luccichio / riconoscere te nella foschia
o ancora…
"Al Saint James di Parigi dovrò chiedere / una camera “ singola”(Non amano/ i clienti spaiati) … per poi cercare subito / lo sgabuzzino delle telefoniste, / le tue amiche di sempre, e ripartire, esaurita la carica meccanica, / il desiderio di riaverti, fosse / pure in un solo gesto o un’abitudine./
Il discorso con le ombre è sempre, pudicamente sommesso, volto a recuperare “l’assenza” che per il poeta è richiamo alla vita, pur nella singolare illusione della finzione, attraverso il recupero memoriale del volto, e dei gesti, come estremo rapporto affettivo dei vivi verso i morti.
La poetica montaliana, complessa ed eterogenea di fronte ai fatti della Storia, si è sempre adattata alle domande che più distruttivamente azzerano la ricerca esistenziale dell’uomo, portando su punte di estrema disperazione la ricerca della Verità, tra momenti di ansia religiosa e impennate illuministiche, al fine “ di scoprire uno sbaglio della Natura, / il punto morto del mondo, l’anello / che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente / ci metta / nel mezzo di una verità./ “ Il suo manifesto poetico, già dichiarato in “meriggiare pallido e assorto” è la dichiarazione della Vita come Nulla.
“Arsenio”, “ I limoni” ,“Stanze”, “Iride”, ”L’orto”, sono soltanto alcuni dei percorsi “aridi” di Montale, che affida alla memoria l’unica via di fuga dal vivere quotidiano.
Luciano Minguzzi, tracciando uno schizzo del poeta sul letto di morte, ci fa vedere un Montale pacificato con le sue inquietudini, con i suoi tremendi quesiti esistenziali, con i suoi dubbi e le sue incertezze, solo, in quel gorgo che accomuna uomini e cose, mentre il “girasole impazzito di luce” si allontana per sempre dal “terreno bruciato dal salino”, ultimo emblema di una felicità e di un possibile barlume che non ci è dato di avere o di scoprire.
Ora che Montale è fuori da questa “amara tortura senza nome”, apprendiamo con sorpresa la sua grande lezione di poesia e di umanità. Il varco o il punto di fuga che Montale ci ha additati, è nella nostra coscienza, nella nostra solidarietà e pietà fuori da ogni turbamento che ci proviene dalla nostra condizione di esiliati incapaci di trovare il senso della vita “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Come per Giorgio Caproni, poeta della ricerca metafisica, in continua lotta con se stesso e con Dio, che ne “ Il muro della terra” ha mirabilmente scritto: “Ho provato anch’io. / E’ stato tutto una guerra / d’unghie. / Ma ora so. / Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra.” / ; così anche per Montale il doloroso problema del Dio assente o presente, si riaffaccia costante in tutta la sua poetica. “Nelle mie poesie”, ha scritto il poeta, “ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta.” E Montale la risposta non l’ha trovata, nessuno gli è venuto incontro, neppure il “Volto insanguinato sul sudario”, come nella bellissima “Iride”, un’altra poesia onirica, dove il poeta si rivela come un maudit, fortemente conscio delle umane ferite e delle profonde contraddizioni del vivere e del morire.
L’umano dolore e il senso estremo della vita sono stati espressi da Montale con ironia e tragedia, in un notturno dolcissimo che ha suggestionato intere generazioni di lettori e di poeti. La sua poesia si è sempre esposta allo scoperto, nei confronti degli inganni e delle illusioni del momento, se il poeta, già a sedici anni, riesce a dare una rappresentazione esatta del mondo e delle cose, come in “meriggiare pallido e assorto”, dove disperazione e senso del Nulla sbarrano la via a qualsiasi ipotesi di fuga o di salvezza.

Nella disgregazione cosmica delle cose, perenne ed eterna, Eugenio Montale si è identificato, ha tracciato il segno effimero delle stagioni, ha mosso con decenza e dignità, la catena del nostro purgatorio quotidiano, con un rigore morale e culturale sul grande tema delle negazioni e dell’esistenza per farci superare la “dannazione” come una “amara oscurità che scende su chi resta”.
“ La poesia di Montale si propone come discorso sulla poesia stessa e sulla sua tradizione e sui suoi segni, ma anche, al tempo stesso, allegoria della condizione umana e del rapporto con la morte e con la sempre più improbabile divinità. Penso a …. “Ti libero la fronte dai ghiaccioli”, dove c’è la contrapposizione fra l’angelo sceso in terra e le ombre di qui, le solite ombre dei morti (dei morti / vivi, degli uomini ormai ridotti a ombre, ormai coinvolti tutti in una finzione di esistenza fantasmatica), fra il viaggio cosmico fra nebulose e cicloni che ha un che di pascoliano e il vicolo di qui, lo scantonare nel vicolo come unico e infinitamente degradato cammino quale possono compiere le ombre.” (Giorgio Bàrberi Squarotti: La poesia del Novecento", Salvatore Sciascia Edizioni, Ottobre 1985, pag.220).


TI LIBERO LA FRONTE DAI GHIACCIOLI

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.


ALFONSO GATTO

Poeta ermetico della seconda generazione, ma con moduli linguistici dichiaratamente meno oscuri e più aperti all’emozione, Alfonso Gatto ha fissato, sin dalla sua prima raccolta dal titolo “Isola”, i parametri poetici dai quali traccerà, in seguito, delle bellissime pagine poetiche, allusive e disincantate, sensuali e malinconiche entro i limiti di una descrizione dell’amore e del ricordo, musicalmente recuperati tra surrealismo e metafora. La sua “isola” è un lembo d’anima nel grande azzardo della vita, che si dilata di fronte alle vicende della resistenza e della guerra con poesie di ampia partecipazione e sofferenza .Cromatismo linguistico e disposizione emozionale al ricordo e all’amore, caratterizzano questa poesia psicoemotiva che si lega e si scioglie, di fronte alla morte, all’interno di una poetica sempre “solare” e “azzurra”, attraversata dall’immagine della “sera”, vista quasi sempre con malinconia e come limite temporale del vivere quotidiano.


A MIO PADRE

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

PAROLE

“Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: - io lo dicevo all’ombra
ch’eri nel vano della stanza — attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo”.
Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna)


CESARE PAVESE

L’avventura poetica di Cesare Pavese si circoscrive in un unico progetto strutturale e linguistico che il poeta stesso volle proporre come documento alternativo all’ermetismo, riunendo in “Lavorare stanca” (1943) i suoi versi in forma di poesia-racconto, opera unitaria e massimamente rappresentativa dello sperimentalismo realistico, anche se le ”Poesie del disamore” (1934-1938) e quelle riferibili al periodo 1931-1940 ne prolungano il clima letterario senza, tra l’altro, farne parte.
Né i versi di “Poesie d’amore” 1934-1938, né quelli di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” 1945-1946, possono essere considerati organicamente attigui a quelli di “Lavorare stanca”, perché riflettono situazioni esistenziali molto forti, che non hanno nulla di paragonabile alla solarità della prima raccolta dove è insistente il desiderio di fuga dalla vita di provincia , con le sue problematiche sociali e politiche nel conflitto generazionale che si viene a determinare nel dopoguerra, tra mondo contadino e mondo industriale. Pavese inaugura una stagione poetica del tutto nuova all’interno di una rappresentazione delle cose e della natura che, pur ricollegandosi alla civiltà contadina, se ne allontana dai suoi miti per indagare su una realtà extrarurale fatta di nuove tensioni e aspirazioni in un quadro sempre più dinamico della società fortemente dilacerata dai desideri e dalla voglia di cambiare.
Il mondo delle fabbriche, le verdi colline delle Langhe, le osterie, i rossi vigneti di S.Stefano Belbo, sono gli “ esterni” più rappresentativi della sua poesia racconto, che con l’interno “esistenziale” forma un unico canto epico intorno alla triste condizione umana. vista come “stanchezza” , ovvero come “tensione drammatica dell’uomo contemporaneo” , definizione quest’ultima che si rileva in una nota del volume “Poesia non poesia- anti poesia del 900 italiano” di Vittoriano Esposito, Bastogi 1992, dove tra l’altro si precisa: “Altra spiegazione, forse un po’ capziosa ma ugualmente interessante, è data dal Fernandez, in una sua altrettanto ponderosa quanto celebrata monografia, là dove scrive: ”Riassumendo le nostre scoperte, giungeremo a questa conclusione, che il personaggio principale di “Lavorare stanca” è la morte. Ma domandiamoci innanzitutto il senso di questo titolo. Per Pavese, allevato da una madre sola, portata a tanto più rigore verso suo figlio quanto l’esiguità del suo bilancio la renda più austera, l’identificazione tra la vita e il lavoro, il lavoro ingrato che affatica, cioè la madre che si affatica al lavoro (vita = madre),non è inevitabile? La morte, confusa con l’immagine del padre scomparso e rimpianto, scintilla nella notte come una stella magica. Non è tanto lavorare che affatica, quanto vivere.
Vivere, quale usura inutile: la sola maniera d’esistere che non sia assurda è attendere la morte” (cfr. L’èchec de Pavese, Editions B. Grasset, Paris, 1967)
La fine dell’avventura di “Lavorare stanca” è dichiarata da Pavese nel secondo dei suoi due scritti posti in appendice al volume “ A proposito di certe poesie non ancora scritte, datato febbraio 1940) E se “Lavorare stanca” nell’edizione 1943 includerà parecchie poesie scritte dopo questa dichiarazione, è un fatto che esse sono molto diverse dalle precedenti. E’ il distacco da quell’ideale di poesia racconto che Pavese perseguiva dal 1930 e che dal 1936 già dava segni di stanchezza. Dopo la dolorosa esperienza di tre anni vissuta al confino di Brancaleone Calabro, e ad una intensa attività narrativa". Il bisogno di scrivere per Pavese tornerà solo in occasione di episodi della sua vita amorosa; e saranno sempre versi per una donna presente nella raccolta “La terra e la morte (1945) e “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. (E' quanto si rileva in una nota dal titolo Il distacco dal mondo di "Lavorare stanca" a cura dell'Editore e in appendice al volume: Cesare Pavese- Poesie del disamore, Einaudi, ottobre 1968, pag. 96).

PROPRIETARI

Il mio prete che è nato in campagna, è vissuto vegliando
giorno e notte in città i moribondi e ha riunito in tanti anni
qualche soldo di lasciti per l’ospedale.
Risparmiava soltanto le donne perdute e i bambini
e nel nuovo ospedale — lettucci di ferro imbiancato —
c’è un’intera sezione per donne e bambini perduti.
Ma i morenti che sono scampati, lo vengono ancora a trovare
e gli chiedon consigli di affari. Lo zelo l’ha reso ben magro
tra il sentore dei letti e i discorsi con gente che rantola
e seguire, ogni volta che ha tempo, i suoi morti alla fossa
e pregare per loro, spruzzandoli e benedicendoli.
Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto
Una vecchia coperta di piaghe, era stata sua madre.
La donnetta era morta al paese, perché l’ospedale
le faceva paura e voleva morir nel suo letto.
Il mio prete quel giorno portava la stola
dei suoi altri defunti, ma sopra la bara
spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche più a lungo.
Nella sera già calda, la terra rimossa odorava
Sulla bara dov’era un marciume; la vecchia era morta
per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre
che - rimasta sola — spettava a lei sola salvare.
Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate
che , da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta
s’eran messe in miseria. E il mio prete pregava
che potesse venir perdonata la temerità
della vedova che, mentre il figlio studiava coi preti,
s’era — senza cercar consiglio — presunta da tanto.
L’ospedale ha un giardino che odora di terra,
messo insieme a fatica, per dare ai malati aria buona.
Il mio prete conosce le piante e i cespugli
Anche più dei suoi morti, chè quelli rinnovano,
ma le piante e i cespugli son sempre gli stessi,
Tra quel verde borbotta — a quel modo che fa sulle tombe —
negli istanti che ruba ai malati, e dimentica sempre
di fermarsi davanti alla grotta , che han fatto le suore,
della Natività, in fondo al viale. Si lagna talvolta
che le cure gli han sempre impedito di dare un’occhiata
degli alberi secchi e che mai , da trent’anni,
ha potuto pensare alla requiem eterna.


GIORGIO CAPRONI

A leggere bene tutte le opere di Giorgio Caproni dall’iniziale “Il passaggio di Enea” 1956, a “Il seme del piangere” 1959 , da “Congedo del viaggiatore cerimonioso” 1965, a “Il terzo libro” 1968 , fino a “Il muro della terra” 1975, si rimane alla fine di fronte a tre topografie spirituali che hanno come riferimento: la città natale, il ricordo della madre e il tema assiduo della ricerca di Dio.
Insolita è la struttura poetica che si rifà alla ballata del duecento con vigore linguistico novecentesco particolarmente documentabile nel “Congedo del viaggiatore cerimonioso” e ne “Il muro della terra.”
Per le considerazioni di carattere tematico attinenti a questa antologia, si reputa opportuno indicare alcuni esiti poetici che riguardano il tema del “viaggio” che il poeta intraprende, di volta in volta, nelle pluralità delle cose e degli eventi , anche dolorosi, che lo portano a chiedere, a fare domande, a insistere su alcuni aspetti “oscuri” della vita e dell’esilio di ognuno di noi: tutti “viaggiatori” in procinto di partire o già partiti “ Sono partiti tutti.” / Hanno spento la luce; / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno dopo l’altro /…… “ E io, / io allora, qui, / io cosa rimango a fare, / qui dove perfino Dio / se n’è andato di chiesa /”
Quella di Giorgio Caproni è una denuncia amara dell’esistenza che ci conduce alla fine nello stesso luogo dove si è partiti per cercare un senso a questa vita. Il luogo è spesso oscuro e misterioso. I segni sono pochi e tra l’altro anche indecifrabili .
La ricerca di Dio diventa affannosa e inconcludente.
“Caproni non ha fatto altro che “ congedarsi”…. dalla terra e dalla speranza, come se davvero fosse venuto per lui, poeta viaggiatore, il momento di “chiedere l’alt (La citazione è di Giovanni Raboni che ha firmato la prefazione al volume L'ultimo borgo, di Giorgio Caproni-Poesie1932-1978,Rizzoli Editore, Milano1980, pag. 13),. come se fosse uno di troppo , un intruso in un mondo di rovesciamento dei dati delle mappe nautiche il cui Zenit è sempre puntato davanti a un “Muro”, che va comunque scalfito per aprire una breccia che possa alla fine porci nella condizione di rimanere “viaggiatori” in una città di sole. Il risultato è soltanto una avvilente avventura al di qua di tante rese e sconfitte:“ Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia / Anche se non so bene l’ora / d’arrivo e neppure / conosca quali stazioni precedano la mia”.
Il “viaggio”, assai disorientato, non può che portare al fallimento dell’avventura iniziata senza alcun progetto metafisico: “Ho provato anch’io. / E’ stata tutto una guerra d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra” , pervenendo semplicemente a: “Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato” /. In questo suo “congedo” di “viaggiatore cerimonioso”, Caproni riesce , pur nell’assenza di guide sicure e di indicazioni precise per tutti, a picchettare un territorio dell’anima dove aridità e desolazione, amarezza e spaesamento, lasciano alla fine un messaggio di umana partecipazione al dolore degli uomini.

GIOVANNI RABONI

Con “Parti di requiem”, apparse nell’Almanacco dello Specchio, n. 4, a cura di Marco Forti , Mondadori 1975, Giovanni Raboni riesce a creare tutto un mondo di sensazioni e sentimenti, dentro e fuori l’ambiente familiare visitato dalla morte, che mette a soqquadro la “normalità” della vita e la stessa privacy domestica dalla quale emerge un dolore filiale, al limite dell’annichilimento e del grido soffocato.
Protagonista di “Parti di requiem” è la madre del poeta che finisce con l’essere l’unica dialogante prima di interrompere per sempre il discorso quotidiano con il figlio poeta, che percepisce a fondo l’attimo estremo della vita: “Sempre c’è / poco tempo quando dobbiamo fare / i conti con i morti. E così dico / a mia madre di aver pazienza — a lei / che vicina a morire, ancora / vuol sapere com’era la mia cena…/. E’ un discorso di lucido dolore intorno alla eccezionalità di un “evento” percepito in tutta la sua inevitabilità, che dura anche dopo la scomparsa della madre, con gli oggetti da recuperare, da salvaguardare, da portare altrove e per sempre, come in “Trasloco” / Bisognava rincorrerli — gridare / slittando sulla ghiaia / abbattersi sui platani, volare / sui tre gradini di graniglia /…. prima che qualcuno / (la Gondrand, anche allora?) bestemmiando / per troppo noce, / ansando cieco per le scale /, portasse dentro - prima la testata, poi le molle, le sponde / - il letto di mia madre /.Da qui il senso altissimo e fortemente umano di opporsi all’inevitabile distacco: ” Mi chiedo se una bara / può essere così calda, davvero, come è stato / questa notte in un sogno - / dico calda da dentro se per ridere / cerco di sollevarla, se la tolgo / al furgone, alla fossa, / se l’abbraccio, sapendo nel legno che sei viva/.. . Anche nell’ultimo volume di Raboni dal titolo ”Quare tristis”, Mondadori, Milano, 1999, la tematica del dramma della vita e della Storia si configura in un ampio scenario di nebulosa presenza, come una minaccia su tutta l’umanità.
Il registro poetico è costituito da toni bassi che riecheggiano le vibrazioni del pensiero e dell’anima sempre vigili nell’innescare il ricordo doloroso del passato e le incertezze del presente. : ”C’è luce di purgatorio in questo libro. Le cose sono spiate da pupille socchiuse — / come uno che sta sognando e sa / di sognare e nel sogno si ribella /., per la consapevolezza che “la vita è senza varco liberatorio”, “guardata dal punto di vista della morte” come ha scritto Luigi Baldacci a proposito di “Quare tristis”, perché / “ nessuna storia si può scrivere / se non nella cenere” . (La sintesi riportata che fa parte di un più ampio discorso critico su "Quare Tristis", è di Enzo Siciliano su La Repubblica, giovedì, 18 marzo1999, pag.42.)

TRA FEDE E RAGIONE

Le risposte al problema della dialettica vita-morte hanno costituito da sempre un’ampia campionatura di documenti poetici strettamente correlati ad una visione teistica e atea dell’esistenza.
Rientrano in quest’ambito alcuni poeti dell’area cattolica come Giovanni Testori, che con “Conversazione con la morte”, Rizzoli (1978) grida il suo fervore poetico con un linguaggio dichiaratamente mistico e ossessivo, lo stesso di Davide Maria Turoldo , e che in Mario Luzi ne: “Il giusto della vita ” -Garzanti 1979, si fa sommesso periodare , tra monologhi e dialoghi in una attesa tutta cristiana della vita ’E’ qui , è in queste opere miti / e chiare che trascorre e brucia / quel che non ho e che pure dovrò perdere/ Tempo passato e prossimo si libra…/ Io, come sia, son qui venuto, avanzo / da tempi inconoscibili , ardo, attendo; / senza fine divengo quel che sono , / trovo riposo in questa luce vuota./ Ma ancor più da vicino si seguano i risultati di alcuni poeti come Andrea Zanzotto, che nella raccolta “La beltà” e nel testo “ Sì, ancora la neve” pone inquietanti quesiti filosofici di assoluto silenzio nelle risposte : “Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso “ , e che ci riportano immediatamente per congiunzione analogica ai primi versi del: “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” di Leopardi : “Che fai , luna in ciel? Dimmi , che fai, / Silenziosa luna?…..”Dimmi…. a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? / dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortal?, e ancora alcuni spunti maudit di Dario Bellezza circoscritti in forti sigle d’angoscia e di autodistruzione: “Dio può pensare se stesso essendo / puro spirito. Ma pensando sé / ci annulla vigorosi nel corpo /a cospetto del micidiale sonno / che ci tiene e ci lascia / ma sempre inconcludente / ci depone alla fine dei giorni, / delle ere, e tutto è notte / conchiusa nel vetro stellare / della luce senza speranza ( di vivere oltre i mondi e le età “., per finire, con Pier Paolo Pasolini che , con “Le ceneri di Gramsci” , s’apre ad un colloquio sofferto e solitario davanti alle pietre tombali evocanti il passato dopo l’offesa della morte“ Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo. / Scelte, dedizioni… altro suono non hanno / ormai che questo del giardino gramo / e nobile, in cui caparbio l’inganno / che attutiva la vita resta nella morte. / Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno / che mostrare la superstite sorte / di gente laica le laiche iscrizioni / in queste grigie pietre….”
Sono questi i risultati etico-morali che s’aprono a diverse soluzioni provvisorie o definitive nella complessa ricerca della verità. L’avventura della vita è anche impatto con la morte continua ed eterna. Il Nulla presente e globale investe più da vicino la paura dell’essere - qui e ora - come momento effimero su cui fare i conti.
Permane nella nostra civiltà occidentale la certezza del cupio dissolvi, la condizione contraddittoria tra fede e ragione. Niente è definitivo e tutto è discutibile.
La Natura vive e si rinnova. Ad essa apparteniamo dal principio alla fine.
“Cercare il senso della vita? E’ il modo consolatorio che tutti in certi momenti e passaggi, adottiamo per bisogno di consolazione. Ma trovare quel senso e precluso dalla conformazione stessa della mente è domanda alla quale non c’è risposta. Il senso della vita è la vita, che non ha alternative. La natura si pone forse quella domanda? La natura vive e basta. E noi, non siamo forse natura, a meno di non compiere un atto di luciferino orgoglio che ci vorrebbe far superiori al resto della natura? Noi siamo diversi, ma non superiori. Diversi solo in alcuni aspetti, ma anche noi natura per tutti gli altri” . (E' un frammento di un articolo di Eugenio Scalfari apparso su La Repubblica di mercoledì 24 gennaio 1995, pag 30, come risposta ad una polemica di tipo esistenziale e teologico con il Vescovo di Como).
A queste considerazioni, tutt’altro peregrine e che rispecchiano il libero pensiero contemporaneo della morte di Dio, si frappone e, per alcuni aspetti sovverte le tesi eretiche dell’Illuminismo kantiano, la presenza millenaria della fede e il mistero della Resurrezione di Cristo.
Alla morte pacifica e serena si contrappone quella , violenta e orrifica, delle guerre e dei genocidi.
Qui non mancano testi esemplari per la loro drammaticità e per le sequenze di dolore e di smarrimento.
L’orrore della guerra e il senso effimero della vita sono ricondotti in un unico momento di pietà da Giuseppe Ungaretti che testimonia , nel giro di pochi versi, una realtà d’esistenza precaria :”Si sta come/ d’autunno / sugli alberi / le foglie ”che è già annuncio di premorte e di attesa dolorosa, la stessa che ha portato Salvatore Quasimodo a dire: “ E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici , per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento”, e a rappresentare con Vittorio Sereni la delusione del tempo e della Storia ne il “Diario D’Algeria” e ne “Gli strumenti umani”, due realtà poetiche scandite da un presente che è assenza e graffio autobiografico sull’esistenza, che diventa indagine prospettica del futuro, come in ”Autostrada della Cisa” in “Stella Variabile” , Garzanti Editore , 1981- “Tempo dieci anni, nemmeno / prima che rimuoia in me mio padre / (con malagrazia fu calato giù / e un banco di nebbia ci divise per sempre) /. Oggi a un chilometro dal passo / una capelluta scarmigliata erinni / agita un cencio dal ciglio di un dirupo, / spegne un giorno già spento, e addio /. Sappi — disse ieri lasciandomi qualcuno - / sappilo che non finisce qui, / di momento in momento credici a quell’altra vita ,/ di costa in costa aspettala e verrà / come di là dal valico un ritorno d’estate”.

GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

Il discorso sulla salvezza e sulla perdizione trova in Giorgio Barberi Squarotti uno dei più acuti osservatori della realtà contemporanea dove la vita è già predestinata al nulla e in questa percezione trovano ospitalità storie, profezie, ammonimenti, descrizioni di uomini e donne collocati in bolge sulfuree e senza via d’uscita, il tutto magnificamente trasposto in una ampia galleria di personaggi di dantesca memoria, che discutono ”dell’inesistenza del Nulla”, tra finzione e realtà, in un clima di sangue e orrori, di storie e luoghi non facilmente individuabili, eppure straordinariamente (pseudo)reali, collegati da un ininterrotto continuum lirico che ha nel suo interno il ritmo incalzante delle favole.
Solo quando il tema esistenziale si complica metaforicamente allora si fa più complesso il discorso di Squarotti che affida al significante ogni forma di messaggio posto come veicolo di indagine sui grandi temi contemporanei e metastorici.
Ciò che colpisce è la capacità del poeta di riproporsi come soggetto abilitato a trasmettere il codice della realtà secondo le proprie chiavi di lettura, con la presenza di Dio che, secondo un verso di Barberi Squarotti, “c’è capitato in mezzo da sempre”.
In quest’ambito si colloca una delle sue opere : “Notizie dalla vita”, Bastogi Editore, 1977 , a metà strada tra la poesia-racconto e le infiltrazioni sperimentali dell’Avanguardia.
Trattasi di un dossier-poetico sull’agonia di eventi storici e sociali nei quali la spinta emozionale di tipo privato forma un’unica e organica rappresentazione della vita, vista come una via crucis con tante stazioni di dolore.
La fustigazione e lo strazio delle carni sono il risvolto metaforico di un clima politico e sociale concomitante agli esiti storici che caratterizzarono la presenza al potere dei colonnelli in Grecia, “il Cile di Pinochet, la guerra del Vietnam e la nostra stessa esistenza in Italia, fra sussulti , rinnovamento e complotti oscuri e crisi economica”.
Più in specifico si può dire che il volume è la rappresentazione di corpi violati e battuti a sangue, in un passaggio di anime destinate al dissolvimento e avviate verso un luogo “ove è tenebra e stridore di freni e fiamme”..
Certamente in una operazione poetica dove l’occasionalità dei dati a disposizione è spesso molteplice e pseudoreale, la letterarietà assume un ruolo egemone sui sentimenti a tutto vantaggio di un prosaicismo lirico per una grandiosa visione della realtà riportata come Storia e Commedia.
Ma già con le raccolte successive riunite nel volume antologico “Dalla bocca della balena”, Genesi Editrice, 1986, si assiste ad una personale adesione ad un codice linguistico tutt’uno con l’io narrante che si sviluppa attraverso una ”scrittura straordinaria, che dà fondo al massimo delle risorse psicolinguistiche per denunciare l’onnipotenza della “Morte” nel suo globale aspetto del “Nulla”, ma anche della “Vita” come tale, a partire dalla megavita cosmica a finire a quella microbiologica dell’uomo e della sua storia e fino alla cronaca del suo “non essere” spicciolo e quotidiano”. (Giuseppe Zagarrio, da "Febbre, furore e fiele" Mursia 1983, pag. 577).

DA UN TRENO

La ragazza nuda (dal treno, mentre andavo a Milano
per parlare di Gozzano o di altri prodotti di bellezza,
non ricordo), fra i rami giallo-rosei dei salici e
le fogliette pallide, appena esplose dalle piogge
di primavera, non altro che un’immagine, e già più non ricordo

forse bionda o, e rosei i capezzoli, la mano
sopra il pube oppure sotto le pallide mammelle? soltanto
ormai una macchia bianca nella memoria come dentro il verde

del fosso, dopo Vercelli, non altro e presto una
vuota voragine che inghiotte questa giornata di aprile (o
di dolce autunno, ancora tiepido?) come quarantaquattro anni di

quasi vita e troppe parole scritte e dette e altre non
pronunciate quando era il tempo, tutto quello che
non ho fatto o ho visto o non saputo, e
anche questa ragazza che
forse soltanto un luogo letterario o un’occasione per
parole parole parole sulla pagina in realtà sempre bianca dove

dovrebbe essere scritta una storia mal raccontata ma viva
almeno un poco,
e tu allora, così chiara distesa sopra il letto
nel tramonto quieto di Pasqua, dopo la grandine livida nei fossi

dove? o la luce del tuo corpo nudo nella notte di?
o fra l’erba e le canne, quando? Dieci
inverni prima o domani? O solo una confusa fantasia,un pò

morbosa, un sogno di solitario? Ecco: restano poche
parole sopra fogli
quasi illeggibili, il fantasma di un aprile improbabile
di gioia e lacrime (quanto diverso da questo e da ogni altro,

qualche reminiscenza letteraria, ma nulla della vita se mai ci

fu vita, neppure un’ombra, dentro o fuori, di
ciò che è stato o ho creduto di vedere, chi sa dove.
aprile-agosto 1974



*
Tre soli anni, e già più non ricompongo i
tratti del tuo volto che per quarant’anni e più mi ha vegliato,
e allora che posso dire ormai di te, di me, di una vita d'amore e
pena per un’altra di parole e vento e gesti
venuti sempre troppo tardi, all’orlo di
una stanchezza mortale o anche un poco oltre, dove è
lo scherno dell’inutile e del vano, e non c’è più risposta,
da nessuno ?
Se ti riporta il sogno, ma sei tu se ora
il tuo passo è così lieve e rapido, i capelli neri il
volto senza rughe, la voce non interrotta dall’affanno?
Mi dicono che ora sei così, nell’altro spazio
dove nulla si perde, e nella noia dei vizi ripetuti, delle
viltà moltiplicate nello specchio di ogni anima,
nei rancori, nelle ire, nelle quotidiane crudeltà
così uguali per tutti che neppure Dio distingue vittime e
colpevoli, il bene che solo è tuo risplende. Io non
vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro
a sé, e
preferisce le voci d’altri libri i cataloghi gli archivi;
ma so forse che questi colpi da basso, fitti contro la
porta, e i passi più numerosi nella strada delle
scarpe chiodate, e i lamenti e le grida e i colpi di
frusta e anche questa primavera stenta e le tempeste
che abbattono alberi e uccelli e l’acque torbide,
sono perché il mondo t’ha perduta, e
il giudizio di Giona può ormai compiersi.
(in treno, 18 aprile 1974)


LO SGABELLO DI DIO

ad Angelo Jacomuzzi

Sì, è vero, anche se accumuli a migliaia
fogli su fogli scritti ai margini
(e anche qualche disegno d’angelo, una rondine
in un angolo del cielo bianco), il tremore di una foglia
dove è caduta una riga, forse, un volto
vecchio si affaccia da una macchia bruna,
sembra voler parlare, poi gli occhi come se
per la prima volta avesse visto davvero il libro scritto
del mondo, troppo lungo e confuso, pieno
di storie senza senso e tutte di morti da chi sa
quanto tempo o uno traballa un poco, poi si lascia
cadere troppo lentamente a terra,
allargando le braccia, mentre ancora
in una mano convulsamente stringe
una bandiera vuota); ecco, neppure —
mettendo l’uno su l’altro tutti i sogni
sognati sul Parnaso e altrove si può giungere
anche soltanto a intravedere lo sgabello
dove i suoi piedi a volte posa Dio —
un passo lento, un’orma pesante sul broccato
rosso, la punta di una pantofola un po’ lisa
nel tremare dell’aria come dopo
il primo tuono della primavera
proprio niente di tutto questo, solo un muro
di carta o di cartone, e quale spazio
può rimanere oltre un angolo d’aria muta e morta,
un lembo di tenda grigia che un vento
inesistente a volte spinge fino
ai fogli, una mano di bambino che saluta
in un’alba d’inverno, il punto animato di una mosca
che cerca a lungo la parola fine
dove fermarsi.


Squarotti si serve dei dati minimi della quotidianità per approdare ad una sorta di spartito teatrale dove i personaggi sono presenti con tutte le loro pene e le loro confessioni, che la Storia o il semplice Caso mettono a centro di una Commedia nella quale sempre più incisiva e persistente è la denuncia del Nulla .
Il risultato è quasi sempre una sconcertante ed epica rappresentazione della realtà nella quale si vengono a inserire alcuni rapporti autobiografici come consuntivi di una vita .
A ciò si aggiunga una insistente accentuazione del racconto tra “finzione e dolore”, dove i dati esterni sono sì denunciati con vigore e ironia, ma si propongono anche come visione dell’occhio interno del poeta che non concede nulla al patetico o al mimetismo emozionale.


XXXV

Una lenta vecchiaia, lunghi anni vuoti ormai
di lamenti di ire, di perdute profezie, di
affannose occasioni, e anche della fatica di vivere:
in riva a qualche collina senza venti
o accanto a un antico fiume che non varia
con le stagioni e nulla scorre in esso né
foglie né le ore della luce e dell’ombra né barca più
che l’attraversi carica di anime tenere e nude e un po’
piangenti
al contrario di te, aveva molta paura della morte
o forse troppo amore per i corpi nuovi in ogni primavera
subito
scoperti un poco nella luce ancora cruda senza
verde di foglie, per la ripetizione delle
albe, per l’arrivo dei merli, per le viti
nere sullo sfondo di neve, per i ritorni trepidi di te,
per la fuga della ragazza bionda avanti al dio che ride:
troppo poco ti ebbe, il tempo fu quasi
tutto sprecato senza che se ne accorgesse, scrivendo
parole come chi beve vino per stordirsi di
qualche cosa che neppur più ricorda: ecco, anni
avrebbe voluto per guardarti con i suoi occhi sempre
meno capaci di riconoscere quel che non c’è oppure non esiste
una vecchiaia anche con tutti i mali e uno spazio esiguo,
una finestra, una poltrona, pochi passi pieni di fatica fino al letto .e
anche un lungo tempo per morire in una nebbia
lentissima, ma per riempirsi la memoria di te,
e le carezze e i baci e la tua anima
più chiara della luce di quell’alba di luglio, quando
capì che l’ironia di Dio lo avrebbe inviato molto
lontano da te, in qualche nobile castello d’anime
eloquenti, che discutono dell’inesistenza del nulla.
(Venezia, 5 settembre 1975)

XXXIX

Ecco che cosa ti lascerò: questi cinque altri morti
dopo un’infinità di altre morti che neppure
tutte le foglie di tutti gli autunni di tutti i
tempi da che c’è l’autunno; in fila, di corsa o
legati a qualche albero, bendati o con gli occhi pieni della
luce splendente del mattino o trascinandosi ai piedi
di Creonte
o nudi e già mangiati un poco dalla morte e quale
scriba nella cancelleria di Dio più ne tiene il
conto per l’improbabile resurrezione della polvere:
la Storia, insomma, che anch’io ebbi da mio padre,
ufficiale sul Carso e su chi sa quali altre montagne dell’
inesistenza, questo dominio del nulla dove tutti
(anche tu, dopo di me) abbiamo un posto
inutile.
Porto Sant’Elpidio, 28-29 settembre 1975)

SCRIVERE NON VIVERE

Non riuscì a fare molto più che scrivere,
eppure sapeva che ben altro bisognava
perché meno dolore fosse al mondo
e un poco più di pace , per te, dopo le fatiche della sera.
Non capì mai se quello era davvero l’ordine di Dio
in cui credette troppo poco per
non avere dubbi sopra la giustizia delle piogge
d’autunno sull’auto rovesciata per la strada
di Narzole, con dentro gli occhi ancora aperti
di non si sa se bambini oppure vecchi,
o per non scendere al Campo dei Miracoli
a porre i quattro talenti (ma se ne dimenticò,
poi, e non ritornò mai a vedere se la Volpe
li avesse dissotterrati, oppure il Cane
fedele, che è amico dell’uomo, come è noto).
A metà della pagina si alzò
per baciarti, uscì nella nebbia smorta della
sua città d’anime zoppicanti, quasi mute
per il male alla testa, non capaci
più neppure di un saluto, in qualche luogo
illuminato bene pronunciò
le solite parole, e nulla fu mutato nulla
nel mutare della storia, nel tuo sonno
agitato, nel respiro un poco affannato dei
bambini, come per un brutto sogno.
(Roma. 7 maggio 1977)


I LIBRI

Dicevano di lui che troppi libri
e poi ancora i sogni di altri libri
e tutta una biblioteca di Babele
versi smisurati storie di minimo
poeta di qualche osteria di Cesenatico
o scriba nel comune di Monforte,
fantasmi appena citati negli archivi
di Apollo, righe, righe di parole
poco comprensibili, descrizioni del nulla, il
nulla che l’acqua limpida del fiume
porta insieme con le foglie le nuvole
le barbe delle capre il volto stupefatto
della ragazza nuda, sorpresa mentre contempla
nel tremolio delle acque il tremito del corpo
troppo ancora bianco nel primo sole d’aprile;
il nulla che viene a galla nello specchio
in un giorno di pioggia, mentre attendo
il tuo ritorno a casa, e non rivela
nessun futuro, non illumina nessun passato che
non ci attende, in nessun luogo; ecco:
ma pensate a ciò che non ho scritto,
eppure i tempi gli chiedevano, inni
ai marinai di Odessa, carrozzine
di vecchi giù da strade in discesa da
colline, bandiere secondo le ore del giorno e gli umori
dei troppi capi nelle piazze, la
Verità nuda per i fotografi sul palco
del comizio, sorridente, girandosi
con lentezza perché tutti le vedessero
bene le lunghe cosce, il pube biondo,
i trionfi di carta e legno trasportati
per le strade sui camion rossi, le sentenze
dei vescovi, elenchi di puttane, il prezzo
degli operai beatificati su tutti gli altari,
discorsi in versi sopra i versi mai
scritti da nessuno, il suo cuore un po’ pavido,
le vicende di un’infanzia in campagna,
con troppi compagni morti giovani per non
piangere dolcemente sui ricordi, e tutto il resto che
la Morte invano in quegli anni contendeva alla
Moda: lodatemi per quel che non ho scritto e avrei potuto
scrivere, chiese alla fine, citando
a memoria, e bruciò la sua vita in mille
falò nel prato di Monforte, non i libri, non
i libri nei quali è noto che non c’è nulla se non morti
e qualche verità non molto utile.
(Marina di Carrara, 29 giugno 1977)


XLIII

Visse in una città, per lo più poco accorgendosi di vivere
(un margine di pagina, non più, gli bastò per quasi
quarant’anni,
cercando un posto ma fatica fra
Baltusaraj e Baudelaire nei dizionari, poi tu
gli desti un po’ di disperazione e un po’ d’errore, e
s’accorse delle foglie rosse d’autunno, delle mura
macchiate della stanza, di te a poco a poco nuda nella
lunga spiaggia di primavera, nella stenta luce del
crepuscolo, del
resto non si hanno notizie (ebbe figli? Visitò
l’Averno? vide Dio o, miope com’era, per Lui scambiò
Giordano
Bruno o un ignoto poeta dei seicento? Conobbe erbe
boschi le
orme della volpe? o si smarrì fra le case le nebbie le
rapine
alle banche le povere anime ignude le foglie lievi di
Sibilla?, è
certo che non scrisse libri, forse qualche poesia per nozze o per
monacazioni, non altro risulta a questo archivio.
(Padova, 18 maggio 1974)

*

Sotto una quercia o fosse anche soltanto
un tiglio o un gelso, ma che c’è mai di male
se vedeva in quell’ombra esigua voli d’angeli
che venivano a porgergli bicchieri
colmi di latte e miele e mormorii
di parole quasi già ordinate in versi,
o la luce di colpo vi si apriva
di un giovane corpo nudo, sorridendo
la ragazza restava a lungo lì,
a farsi guardare, fra rapidi rossori,
non chiedendo nulla più di uno sguardo sereno,
ed era forse più grave se era un cane
con grandi macchie brune sul mantello
candido, si sedeva ai margini del foglio,
come in un’attesa festosa che poteva
durare anche tutta una giornata e forse più ancora,
perché una gioia deve pure giungere
da oltre il muro che circonda il giardino
quieto, e se davvero ha visto il volo rumoroso delle gru,
davvero l’acqua scura della fonte
della vecchiaia che dà finalmente la saggezza,
o il volto di Dio in tutta la sua terribile potenza:
si dice che abbiano parlato insieme a lungo (no,
non da solo, non al vuoto del vento,
non alle ombre delle nuvole che passano
sullo specchio lucido del prato
e vi lasciano macchie un po’ sfrangiate,
come tracce di perdute anime a cui non disse nulla
quando era tempo), e dopo, allora, come
non rimanere lì, ad attendere se mai
volesse ritornare, o almeno un segno
di lui, se s’alza ancora la brezza della sera,
se il tramonto si riflette rosso su una foglia
tenera (e non c’è altro segno, non altro, ormai,
cancellato com’è quello di Giona),
se una colomba becca nella terra
bruna, se giunge il richiamo di un ragazzo
dalla strada, risponde forse un sussurro,
forse solo il brivido della vita che sfugge,
al di là di tutti i muri del paese di pianura,
nel sogno della folla irosa di domenica
che passa calpestando rose alberi
cespugli dove vecchi stavano nascosti
a guardare se passassero ragazze
abbracciate a caproni neri con occhi di fuoco:
ombre di vivi che si tenevano per mano
nel cieco giorno, e anche Dio che c’è capitato in mezzo
da sempre, resta in ginocchio, appoggiandosi a terra con
il braccio,
muove le labbra come per un richiamo o almeno
per una battuta finale: e credete
che sotto l’ombra di un faggio o di una quercia
nel chiuso del giardino non si possa
udire anche ciò che è quasi muto ormai?
Ecco: piega un poco il capo, anch’egli
muove le labbra e anche la mano come
per un saluto estremo, fissa le
stelle che risplendono nel cielo
pur nella luce altissima del giorno,
i re che passano in corteo, con le corone
d’oro sulle fronti sporgenti, ossute,
mutando luoghi dalle grotte del cielo,
dal trono al buio di capanne e canne
e la doppia schiera dalle due parti del sole,
infine tutto così chiaro per una volta, tutto così logico
e concluso per sempre nel delirio.
(Roma, 30 marzo 1984)

SULLA STRADA DI TRAMARIGLIO

Infine, sulla strada di Tramariglio, incontrò
il suo serpente, esiguo, stento, grigio-verde come
un misero soldato d’altri tempi,
e neppure sapeva parlare molto bene,
col suo accento un poco dialettale e una leggera
balbuzie: gli indicò appena le ragazze
che correvano nell’aria umida di pioggia
quasi nude, il libro che tirò fuori dalla borsa
di finta pelle, lo sfogliò distratta-
mente, si fermò su una pagina, lo chiuse
con un sospiro senza dirgli di leggere,
rassegnato estrasse la Morte, il Re di quadri, la
regina di Saba, il Sole, la Città inventata,
lo Scettro, l’Annegata, il Pinnacolo del Tempio
da cui tutti i deserti della Terra
e d’altri luoghi ancora e i monti magri e
le vuote cavità del Nulla (e anche due
o tre fotografie, consumate, un po’ sfuocate, di serene
foreste, di acque tranquille, di ruscelli
fra lisce pietre candide di giovani donne con abiti celesti
e pizzi intorno al lungo collo bianco
e gli ombrelloni a righe e saluti quasi
invisibili su labbra che si sfanno:
con un sorriso invitante, ripassandole
davanti ai suoi occhi, poi tristemente riponendole)
due o tre versi bellissimi, poi un lungo silenzio:
-Venga a prendere il tè (indicando il
nero antro la strada,, e dentro , a tratti,
qualche breve bagliore e qualche voce),
ma forse è tardi, forse (guardando il suolo arido)
prima di notte pioverà, ma le posso offrire anche la pace,
questa pace dell’anima nell’ora
in cui nulla accade in nessun luogo e
nessuna notizia giungerà al suo riposo se si siede
sulla candida pietra presso l’albero
di noce, neppure un alito di vento o
una foglia che cade o la fila di formiche che
interrompa un passo o il franare di un mucchio
minuscolo di terra: adesso devo andare
(toccando timido l’orlo del cappello
stinto), un po’ soffiava , era molto pallido,
gli sorrise in risposta , lo aiutò
a strisciare fra i lentischi e i sassi
aguzzi dove meno ripido ed erto era il pendio,
verso il cielo smorto del tramonto.


GIOVANNI RAMELLA BAGNERI

A spingere la tensione mentale e psicoemotiva oltre i confini dominati dal negativo, è Giovanni Ramella Bagneri che, in uno dei suoi volumi più significativi dal titolo “Il teatrino del mondo”, Forum 1984, mette in evidenza un mondo collassato e privo di luce , con visioni sulfuree e infernali di prospettiva postnucleare dove la morte occupa davvero un primo piano, per rivendicare un ruolo primario sulla vita, attraverso alcuni aspetti orrifici e opprimenti, che richiamano alla mente certe atmosfere del romanticismo inglese caratterizzate dal senso del macabro e della ineluttabilità corrosiva delle cose. Quelli di Ramella Bagneri sono attacchi a fondo portati su tutto il fronte dell’esistente. Tutto e vuoto e niente si salva davanti agli occhi del poeta. La morte è già nel nascere di ogni cosa. Niente resiste e tutto brucia o si dissolve perché questo è il luogo dove “nessuno è veramente” .
Per Ramella Bagneri non c’è neppure la speranza di un giudizio finale e collettivo. Non vi sono interlocutori, né messaggi da far pervenire per una proposta di salvezza. Siamo davvero davanti al negativo universalizzato dalla morte e al trionfo della concezione meccanicistica della vita., che coinvolge tutti, senza alcuna possibilità di fuga, nonostante le piccole felicità, e le brevi illusioni alle quali far ricorso per esorcizzare “ il luogo della paura deforme” dove qualcosa pure si scorge, ma sono soltanto / impronte, scritte oscure, arcane / segni non segni, forse labirinti”; tracce di ciò che già è stato e che non ha nessuna possibilità di rigenerarsi.
“Il suo è un mondo rigorosamente oggettivo. La fantasia opera a partire da un giudizio di annientamento della presenza dell’uomo sulla terra (come Soggetto), e delle possibilità future di ricostituzione. L’accedere storico è finito nel cul-de-sac di una palude dove pullulano solo germi mortiferi. Un poeta che, tra gli anni cinquanta e sessanta, piuttosto che dialogare col suo tempo (tutto proiettato nell’ansia dello sviluppo) si elegge a compagni di viaggio i poeti del tempo della fine (nonostante la pluralità delle ascendenze, non necessariamente limitate alla cultura mitteleuropea) si connette con questo nostro tempo di restaurazione e di crisi (di ristagno o blocco dello sviluppo) che ha restituito un potere inquietante a Hòlderlin e a Tralkl, a Baudelaire e a Eliot ,a Rilke e a Kafka, neutralizzati dallo strutturalismo a meri sistemi di segni linguistici.” . (Nota di Tiziano Salarei in quarta di copertina del volumeIl teatrino del mondo, di Giovanni Ramella Bagneri, Forum, QG, Forlì, aprile1984).

CORO

Niente può essere completo,
manca sempre qualcosa,
ma ecco la nave laggiù
e la vacanza è finita.

Prendiamo su i nostri quattro straccetti,
arrotoliamo i nostri sacchi a pelo,
è stata proprio una bella esperienza,
abbiamo visto quello che c’era da vedere:

non abbiamo visto quasi niente,
ma diventerà bello un po’ per volta,
quando saremo vecchi
ci sembrerà una favola.
Ecco la nave laggiù,
dondola dolce nell’acqua inquinata.
A bordo a bordo a bordo a bordo.

Non posso più lasciare questo luogo.

-Vieni via, vieni via:
non è posto da restarci a lungo.
Sei sceso nel profondo,
hai avuto la tua illuminazione:
che cosa cerchi ancora? Non c’è altro.
Altrove tornerai quello di prima.
Ma ecco sei già docile e quieto
e il viaggio fino a casa sarà dolce.

Quando saremo laggiù
ripenseremo a tutto questo.
Non ne caveremo forse niente
o forse , chi lo sa, qualcosa
che ci aiuti a tirare avanti un poco.
Non pretenderemo di capire.
Un sogno, forse, un ricordo, è già molto.
Noi, non siamo di più.

VOLPE E GATTO

Cercando le ossa, i due, incontrati
dove l’albero serpeggiante ha brevi,
piccoli bagliori crepitanti:
volpe e gatta, goffe curve maschere
con bastoni da cieco e mantellucci
di tela di sacco, ragnata:
tendono il piattino, lo ritraggono,
ripetono una loro cantilena
che dice: “Non si parla più di te,
non si parla più di nessuno, qui:
ormai parlare è assurdo, qui si perde
consistenza, si perde tutto, qui:
anche tu sei già nebbia,
ti guardiamo attraverso”:
vengono avanti, zampine rattratte:
ma falsi ancora una volta,
pronti a scattare, unghioni duri, aguzzi,
manico di coltello da una tasca;
respinti frignano un poco;
“Non mi lascia cavare gli occhi, lui,
non si lascia striare:
ma crede di essere vivo,
crede di esserci ancora”;
se ne vanno, si voltano ogni tanto,
scendono per la china
fin dove sprizzano piccoli fuochi
azzurrini di rocce;
nebbia dissolta, cielo
che fiorisce di stelle:
vorticano scintille nel vento
gelide stelle bianche palpitanti,
compongono figure geometriche;
ora come una frana,
cielo vuoto, di nuovo
gremito, un luccichio che brucia,
le voci dal basso : “Tu, ci sei?
No, qui nessuno è veramente”.

DOPPIO CANTO D’AMORE

(A)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
uscirò sotto la pioggia a cercarti una corona
di ortiche e penne di corvo e un manto di carta di giornali
e, preso l’anello regalo trovato nel detersivo,
ti condurrò a un altare ornato di corna di becco.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
con una borsa di tue fotografie proibite
andrò a propagandarti per i quattro punti del mondo
finchè tutte le camere le cucine delle casalinghe
non siano piene di strilli e di pantofole scagliate.

(B)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
mi alzerò dalla panca all’angolo del camino,
mi toglierò il grembiule cenerentolo,
mi laverò la faccia e mi riavvierò i capelli
e farò passi di danza fino a te.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
tornerò al mio cantuccio e spingerò via il camino,
mi leverò il vestito da ballo e le scarpette di cristallo,
m’infilerò i blue-jeans e accenderò il televisore
e aspetterò che venga qualcuno più bello di te.

(A)
Se ti amerò, da mattina a sera sarò in giro
a cercare fuscelli per il nido,
ti coverò le uova perché tu prenda respiro,
insegnerò ai pulcini a far pio pio
e sarò tutto fiero e soddisfatto di me.

Se invece non ti amerò, butterò all’aria il tuo nido,
non ci saranno più uova e tanto meno pulcini,
ti beccherò e ti caccerò via,
poi sul ramo più alto starò io
a fare in modo che non torni più.

(B)
Se ti amerò, ti darò da mangiare
sempre la stessa minestra, ma con una tal grazia
che non sentirai più bisogno d’altro,
e se alla fine sarai grasso e sazio,
sarò tranquilla e sicura di te.

Se invece non ti amerò, quella minestra
diventerà un’acquaccia mal salata,
buttata lì senza un minimo di grazia,
sbrigarsi perché poi c’è da fare altro,
e se non sei contento prenditela con te.

(A)

Da gennaio a dicembre ti amerò per il sì
e ritornando indietro ti amerò per il no.
Ti amerò con la pioggia e con la neve ,
col caldo e il freddo e il bello e il brutto tempo.
Amerò in te ciò che passa il convento,
quello che prendi perché non c’è altro,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.


Amerò in te gatta e capra e gallina,
quella che morde e quella che ti becca,
quella che graffia e quella che t’incorna.
Amerò in te la notte e il giorno,
ma così rassegnati tutti e due
che non mi accorgerò nemmeno della morte
quando verrò a riprendersi la museruola e la catena.


(B)
Dal lunedì alla domenica ti amerò per il diritto
e ritornando indietro ti amerò per il rovescio.
In ogni settimana mese stagione anno ti amerò.
Amerò in te ogni mia sconfitta, ogni vergogna,
il brutto della vita, il disgustoso,
ciò che si vorrebbe dimenticare,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.

Amerò in te il caprone, l’asino, il topo e il pidocchio,
il viscido, lo sporco, ciò che ti salta addosso
e mai riesci a scrollare da te.
La paura, il sonno della ragione.
Ciò che ti rode, ti strania e ti svuota.
Alla fine sarò così contenta di morire
che quasi non sentirò cadere a terra la catena.


DON GIOVANNI

L’aria greve, rossastra ,aveva lampi
e nembi si addensavano su quella
fine di settimana. Risalivano
soffi caldi la valle accesa e rombi
attutiti, da un indistinto inferno,
si protendevano. Sopra
poi piombava la notte.

Si riscosse ed accese
a sigaretta. Poi fissò una luce
angolata, in un brivido, e gli chiese
l’ora. Il tempo moriva: sprofondava
torpido (-siamo vivi
come morti-) nel luogo: case
di cartone, palazzi
altissimi, campagne,
il riarso vallone del giudizio
e penitenti in bianchi paesaggi
invernali rigati di acque gelide,
immagini di copula e parto,
travolte, ora pianure e treni fino
alla sala da ballo, corpi come
torce accese, qualcosa che bruciava,
si contorceva, un atto di possesso
e ritmici tamburi, come cuori,
nella nebbia, brandelli di giornali,
in una piazza un comizio; nel luogo
sdoppiato, lei nervosa,
luce radente sugli occhi, parole
rapide, lui con la catena al collo,
quieto, forse felice, nell’ombra
calda, automobili ferme, qualcosa
da acquistare, possedere e squilli
di cornetta, feroci,
da sala da ballo,
giardino di delizie, vuoto dietro,
il Demonio e la Morte
in una superficie liscia, fredda;
invecchiare con faccia senza rughe;
corpi elastici, eretti
una maschera in faccia,
catena al collo: il tempo
divampava, ardeva lingueggiando,
contorcendosi: e ancora
quel torpore infinito,
giù nel pozzo delle delizie, immersi
in un vento in un suono sempre uguale,
la stessa nota tenuta, dolcissima,
acqua mossa, ninfee sull’acqua trepida,
larghe foglie sull’acqua,
gesti grevi: e la stella
cadente, l’ora affondata nell’ombra
calda, il materno battito di cuore
nella notte estenuata, lunga,
popolata da sogni, regredendo,
nebbia e nebbia, gente per una strada,
fuoco dall’alto, la notte materna,
la punizione, oh la punizione,
catena al collo, sognando,
maschere nel luogo vuoto dietro.

- Questo è tutto: il futuro è incerto ed io
non posso vivere così. Una qualche sicurezza
e sempre meglio di niente. Ti seguirò in capo al mondo,
ma una casa è una casa
e un anello al dito è pur qualcosa.

II
(Nella casa)

Questa è la nostra casa,
la bella ,solida casa
dove potrai vivere tranquilla.
La bella casa sicura
con le finestre aperte sulla strada
per guardar fuori la gente che passa
per guardare il traffico fluire
guardarti la civiltà
far passare il tempo in qualche modo,
o accendere il televisore.
Seguire il tuo programma preferito,
con le spalle protette,
al calduccio d’inverno.

Qui c’è il televisore
e anche il frigorifero,
c’è la cucina elettrica
e la lucidatrice e il frullatore
e il giradischi con gli ultimi successi.
Ti ho comprato tutto, proprio tutto.
Potrai vivere bene,
almeno fin che dura.

Fin che dura? Come fin che dura?

E’ così. Ti sbatteranno fuori
e non protesterai nemmeno.

- Tu dici fuori di qui?
Chi mi sbatterà fuori?

Tutto quello che c’è dentro.
Tu credi che una casa
sia fatta solo per te.
Una casa è una casa
e tu sei solo una donna.
Se non obbedirai,
ti sbatterà sulla strada


Non mi sbatterà sulla strada.

Dovrai lasciarla sfogare
E poi chiedere scusa.
Una casa è una casa
e noi siamo di troppo.
Da queste parti è difficile vivere.
Occorre rassegnarsi, amore,
perché ne abbiamo bisogno.
Forse, una volta o l’altra
ci brucerà il paglione
e allora sarà finita.

Perché? Finita?
Perché non siamo niente.
Poi verrà qualcun altro e sarà uguale.
Non siamo proprio niente.
Gente che va e che viene
e che non può mettere radici.
Una casa sente queste cose
e allora ti brucia il paglione.

Non voglio andarmene di qui.
Ho lottato tutta la vita
e non mi lascerò cacciare.
Dovremo fare qualcosa.

La lasceremo sfogare,
poi torneremo con la faccia allegra.
come se non fosse stato nulla.

Non possiamo vivere così.
Questo non durerà a lungo.
Occorre essere forti,
dire quello che pensiamo
Tu credi che una donna
non sappia ciò che vuole.
Volevo un anello e ce l’ho.
Volevo una casa e ho anche questa.
Saprò farmi obbedire in un minuto.
Lascia alla donna il suo posto
è fatta per queste cose.

- Ti brucerà il paglione.

Non me lo brucerà.

La prenderai di punta
e ti farà filare.
Una casa è una casa:
chi non si adatta va fuori.
Poi fai la barba e rientri,
ma trovi tutto cambiato
e nemmeno più di tuo gusto.
D’altronde non sarai la prima.
Qui succede sovente.

- Che succede? Che succede?

- Quando ti sbattono fuori,
puoi rientrare dalla parte sbagliata.
- Io non mi sbaglierò.

- Ci farai l’abitudine.
Tu credi di essere davanti
e invece ti ritrovi dietro.
Aspetti di vedere il traffico
e invece non passa nessuno.
C’è solo un vallone di cespugli.

- Un vallone di cespugli?

- O forse è la parte giusta.
Quando rientri, non c’è niente.
Allora accendi il fuoco
e metti i panni ad asciugare
Tireremo avanti in qualche modo.
Coltiveremo la terra,
alleveremo bambini,
almeno fin che dura.
Quando sbaglierai entrata
non ci farai più caso.
Ogni tanto di qua,
ogni tanto di là:
in fondo non c’è differenza.


- Non coltiverò la terra
e nemmeno laverò i panni.

- Coltiveremo la terra
alleveremo bambini.
Quando siamo di qui
è già molto se si mangia.
Ci guadagneremo il pane
col sudore della fronte.
Andremo a dormire presto.
Ascolterai la notte
dilavata. Andrai fuori
se lo vorrai. Non sei la prima che
vi resista.
- Resistere?
- Resistere. Questo è
il luogo della paura deforme
che strepita e impedisce di pensare.
Qui si vive in attesa,
qui si stenta e si spera
di andare via, qui sale il freddo e c’è
chi urla a lungo e ha sempre fame e sete
e di notte si leva dal suo angolo
e ringhia e raspa sulla porta se
nessuno scende: questa è la mia parte
d’eredità e la tengo preziosa.

- Chi è? Chi è?

- Qualcuno , e tutto. Sono due, e tutto.
La Morte e il Diavolo.
Vivono qui da tempo. Sono amici.

- Io non li voglio per amici. Dove sono?

- Nella stalla.

- Nella stalla?

- Ruminano in pace
e mi dànno da vivere e ne ho cura.

- Io non ne avrò cura. Tu, ci penserai.
Anzi, no. Dovrai mandarli via.
Voglio dormire tranquilla.

- Tu non dormirai.
Io non dormirò.

- Perché? Perché?

- E’ così: non dormirai.
Io nemmeno.
Noi non dormiremo né qui né fuori,
potremo al più ripararci dal freddo,
perché quando la Morte ha fame
e il Diavolo ha sete,
perché quando hanno fame e sete
e la Morte urla
e il Diavolo risponde,
e il Diavolo urla
e la Morte risponde,
fanno un frastuono per la casa
e raspano sui muri e sulla porta
e cercano la botola per salire
nella stanzaccia dove stiamo col
lume acceso e rabbrividiamo stretti,
e gridare non val nulla perché
quando vogliono balzan fuori e corrono
per la terra e nessuno può fermarli:
poi tornano quieti
e se siamo fuggiti
ci vengono a cercare.

MA DOVE SONO
LE OSSA DELLO SCRICCIOLO?

Nel luogo oscuro, basso,
la domanda, in affanno,
sempre la stessa, insistente.
“Dove sono le ossa dello scricciolo?”.
Poi le tre piccole piume
portate fino a me
da un breve soffio rischiarante.
Cercare ancora, ancora, ancora.
Non ci saranno ossa qui,
non ci sono mai state.
Ma dove sono le ossa dello scricciolo?
Il percorso segnato
che rade gocce di sangue
fino al cespuglio spinoso,
fino alla pietra piatta, a niente..
“Dove sono le ossa?” Sono qui.
Cerca bene, cercale a lungo, a fondo.
Ti diremo acqua, fuochino fuoco.
“Ma cerca bene, cerca bene,
perché se non le trovi
anche tu sei in bilico

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