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lunedì 14 giugno 2010

La parola negata (rapporto sulla poesia a Napoli)

Seconda parte
ALBERTO MARIO MORICONI

Desiderando in questa sede superare il discorso di una eventuale linea napoletana della poesia in lingua, vogliamo porre l’attenzione su alcuni poeti che, con le loro proposte linguistiche, si sono collocati al di sopra e fuori dell’ambiente regionale, sollecitati da una comune voglia di adeguarsi alle istanze riformistiche della lingua avanzando proposte, idee, soluzioni alternative e tutto ciò che è riferibile al concetto di nuovo o di metasperimentale, già in atto negli anni Sessanta-Settanta, come materiale innovativo.
In quest’area si distingue Alberto Mario Moriconi (1920), per il suo vitalismo linguistico in cui l’ironia e il sarcasmo si associano ad un persistente stato di verifica dei dati presi in esame e provenienti da un protocollo poetico storico e contemporaneo, sottoposto a continue indagini e prelazioni di verità. Da qui l’uso del significante dalle diverse affinità culturali: un vero e proprio assemblage di tecnica letteraria e di coesione con i ritmi popolari e giullareschi, fino a trovare le ragioni di una poesia estetica ed etica, giocosa e malumorosa, che rimettono in gioco i segni del mondo e un pessimismo esistenziale come nel testo Fortuna del volume Decreto sui duelli, Laterza, 1982, /Caddi io, così; da zero al doppio / zero: versi che ci riportano al principio delle irreversibili conclusioni riduttive del nostro essere qui e ora.
Che sia questo un carteggio di un poeta con una visione umana del mondo, non ci sembra un’ipotesi azzardata, specie se andiamo ad esaminare il volume Dibattito su amore, Laterza (1969), che è un’appassionata esposizione di fatti ed eventi di cui il testo La tedesca al bosco calabro ne è un vivo esempio di speranza e sacrificio: un dilatare del sentimento come momento di sogno e di fede con ”gli occasionali eroi e le altrettanto occasionali vittime illustri e umili, innocenti e no, che sono chiamati dal poeta a testimoniare, o confessare, con lui, su altri punti, le solitudini, le viltà, le protervie, i furori dell’homo sapiens ormai onnisciente”. (Paolo Ruffilli Q/G. nn.37-38, luglio-agosto 1977, pag..57).

Su un piano generalmente epico si colloca Un Carico di mercurio, Laterza (1975); titolo di forte impatto ecologico, che non disdegna il senso di denuncia contro l’ambiente e il potere visti come soggetti primari nel testo Le inquinature,pag.118, dove meglio si concentrano le forme del degrado. Tutto il volume è un autentico repertorio di occasioni poetiche millimetrate nella lunghezza della realtà in un procedimento verbale incisivo e autenticamente originale. Decreto sui duelli, Laterza (1982) è un ulteriore esempio e riconferma di una scrittura dal ritmo narrativo, dai diversi piani espressivi caratterizzati da commedia e tragedia, orrori e crudeltà storiche, con un suggestivo ricordo del sacrificio delle masse nomadi, come risulta nelle tre sezioni del testo dal titolo Nomadi, pag.7, anche se si tratta di storia datata, ma mai inattuale e sempre iscritta a futura memoria: ”convennero, compresse…./ in vagoni / piombati / ad Auschwitz, a Dachau… / Sempre cantarono, ballarono, incitavano, / fuori delle baracche, i bimbi, / malritti, scheletrici, / ai balli /, prima che in fumo migrassero al cielo”.
La poesia di Alberto Mario Moriconi può essere paragonata ad un diagramma supportato da un trend linguistico, che difficilmente trova assestamenti in basso verso una stasi cronica dell’azione verbale. Del tutto personale è l’attitudine ad attualizzare gli eventi esterni, attraverso l’uso reiterato degli attacchi ludico-satirico-epigrammatici, sfocianti nel più generale senso critico della riflessione morale, larvata o sottintesa. Sue ed uniche sono le frammentazioni sintattiche per accedere in diversi campi oggettivi e riportare allo scoperto temi e personaggi, sempre al centro di situazioni drammatiche in una fitta serie d’interventi stilistici, tra citazioni e allitterazioni, scambi plurilinguistici e reportages cronachistici, che vanno a caratterizzare i racconti poetici, correlati alla storia passata e a quella recente.
Ed è proprio questo il senso degli stili e dei generi letterari di Moriconi proposti in tutti questi anni, che gli hanno consentito di duellare con la poesia, con la punta dell’ironia sostanzialmente riflessa anche nel volume Il dente di Wels, Pironti (1995), che si apre ad una piccola Commedia umana, come Nella casa del Libro (Lamento a quattro voci), esposta a rappresentazioni postume, riguardanti il consuntivo della vita del poeta e il senso dello scrivere versi, il vano scrivere come dice lo stesso Moriconi: tutto un librosario da sradicare post mortem da parte dei sopravvissuti:“S’io morrò (Dio non voglia), appena fatto, / voi spianerete le costole /dei miei libri) ai vostri / muri, dico te, mòglietta, e figli; vi dite: / “Se, appena, costui sarà….ito / (oh possiamo parlarne senza scrupoli, / mica intendiamo eliminarlo, mica / l’avremo avvelenato, noi) — ne parlo! — diroccheremo quest’anomalia, che ci attanaglia / e soffoca, di casa nostra,/ sradicheremo il librosario / estirpo qui tu estirpa là”, ma è anche un messaggio di arte e vita, natura e storia, virtù e fortuna, come si legge in quarta di copertina.
Il volume affronta i fatti e i misfatti della Storia, tra inni goliardici, happening poetici e cronache di delitti eccellenti, che si vengono a realizzare all’interno di una poesia costituita da elementi espressivi diversi; gli stessi che troviamo in: Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti Pironti Editore (1999); assieme ad un piccolo album di ricordi di scrittori che rispondono ai nomi di Li-Po, Leopardi, Laforgue, Pindaro e Rimbaud, con l’autore medesimo, che con vario animo, tono e metro, li ricorda e si ricorda. (Nota editoriale). Esemplificando al massimo i giudizi espressi dalla critica sull’opera di Moriconi, riportiamo quello di Giuliano Manacorda apparso su Rinascita del 13 marzo 1970: “Non molti sono in Italia a coltivare, ad alto livello e come accento normale del proprio poetare, la poesia satirica. Moriconi lo fa con quel piglio sarcastico, con una tale imprevedibilità di sortite e una così ricca fusione di temi seri e del loro rovesciamento, da poter essere considerato forse un caso unico. In realtà, la definizione di poesia satirica, dice assai imperfettamente nei confronti della sua produzione, che è cosa assai complessa” .
Sulla poesia di Moriconi si può discutere a lungo circa l’uso dell’ironia di fronte agli orrori o alle cronache storico-sociali, ma non si può negare che in merito ad alcuni elementi seri, come per esempio la morte o l’ingiustizia, o ad altri temi di più ampio interesse, vi sia un forte sentimento umano che traspare più di quanto si pensi o si legga nei suoi volumi.
Moriconi ha posizionato la poesia su parametri linguistici che ci riportano ad un raffinatissimo aggancio con la letteratura popolare, i cui testi ci inducono a rimarcare un giudizio di Armando Maglione nella sua relazione sulla poesia a Napoli negli anni Quaranta, quando rileva già da allora, l’interesse di Moriconi per la realtà sociale, la cronaca e la storia, che animano quella sorta di “drammaturgia” poetica, moralmente risentita, e stilisticamente contaminata e trasgressiva che sarà la sua personalissima cifra confermata nel corso del tempo in tante short stories che sono libri di vita inseriti autonomamente nel complesso e variegato mondo della poesia italiana.

La mosca di Lindbergh

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota
della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico:
quello che pochissimi sanno è che egli ebbe
a bordo del fragile monoposto — lo Spirit of St.
Louis — un’importante passeggera: dico una mo-
sca.

La prima clandestina che trasvolò
New York-Paris, quella cosina,
il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,
un bambinone
biondo, una brunettina,
che dal quadrante (mossa da fame?)
dell’altimetro, tutta un tremito
e minutina come è
un dittero,
lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse
gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,
le immense lingue e schiume d’azzannìo….
(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:
la forosetta, del Kansas).
Ma il bambinone
abbozzò,
la ignorò, trasse due sorsi dal termos.
La clandestina s’occultò.
“ E stia..”
il primo “ New York —Paris”
cartone e spago
-come una vecchia valigia —
e spirito di Saint Louis

“ Stia stia, Miss. Due alucce non guastano
in più, di riserva al mono-
plano, al mono-
posto, al mono-
motore: solo bi-
pala l’elica.
E or la brunetta bïala “
rise Charlie, cercandola: “Via via,
Miss, esca. E mi dica,
che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì
graziosa e ardimentosa vola brunetta?”

soffia
soffia sull’acque,
spirito di Saint Louis,
cartone e spago

Or la compagna di Lindbergh dormiva
cinta di stelle, obliosa di tele
di ragno, che forse fuggiva
dal Kansas, da New.
E a lui, l’aquila
giovane, ancora ignara
di ragne, più truci, umane, (1)
un punto
lui solo di sangue e d’anima
sopra i notturni oceani,
ebrïetà
eterëa di stelle e sogni;
e il pulsar dei pistoni, docile faustamente
monotono, oramai
ammalïava, il remeggio fluidissimo,
a un puerile sonno…..
si riscoteva
picchiando a dritta
e a manca l’ala,
o evoluiva libellula
l’aquilotto
e canticchiava un’arietta di favola
western, di carovane.

Ventinov’ore, due sorsi al termos.
Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.
Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,
lenta la cloche, all’acque,
ma dolce cala
spirito di Saint Louis….
Guizzò, ella! via su!...
Rientrò:
lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì
gli occhi lui abbrancò
la cloche.

Digrignò
le schiumose mandibole l’Oceano.

E a dritta dell’aquilotto fiorì
un primo gabbïano,
e altri
e altri,
bianco di sé scriventi in cielo “WELCOME”.

“Ci siamo, darling,ci siamo, baby….
no, bébé, à Paris. Thanks — no, merci —
amica mia…ma come
ti chiami?... Laggiù! laggiù!
è Le Bourget, bébé !”

Trionfò
la bionda aquila degli oceani.
- Il nome,
però, almeno, della compagna….Sparì. —
Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:
lei vi sparì.

Chi sa se la mosca del Kansas
trovò chi cercava a Paris.
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(1) Cinque anni dopo patì il rapimento e l’uccisione del figlioletto.

Fortuna

Gridar “Fortuna! ficca
un chiodo d’oro nella tua ruota” (1)
non potei, non la scorsi
neppure girar la ruota. Quando
godetti l’attimo
- vorticare
vorticare il suono
d’essa non colsi —
lo volli merito
mio: nessuna
bontà del Cielo, sull’idiota
nessun influsso
di luna

Cade così l’impero
a uno scettro ebro di sé, derisi
gli astri:
così l’Empire
all’ivre
Empereur, (2) all’impérieux
mépris.

Caddi io così : da zero al doppio
zero.
E ricaddi. E sempre,
col mio sprezzo, nel mio stazzo,
ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo
in me, e che sia
virtù una cosa, e uscir dal brago stia
in me:
mai

mi son visto tuo ragazzo,
guercia.
(da: Decreto sui duelli, Laterza, 1982)

(1) Così un personaggio di Lope de Vega.
(2) Napoleone.



Piromani d’agosto

Nell’aria, un pianto…..d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
Zvanìi Pascoli “La quercia caduta”


Evoluivano pazzi fischiavano
intorno ai due alberelli fatti torce
nugoli insupponibili d’uccelli.
Allo sconvolto strido,
accorsi, d’alcuno di loro,
padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido
arso e svanito.
Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio
crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica
musica, una scomposta rabbïosa farandola
di ali e ali, quanti….

I due incendiarii
di più si ritraggono,
ma più eccitati, il perché si domandano
di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,
perplessi un po’….”turbati: non sospettano
il nido incenerito”. Che hanno fritto.
“Chi poco cuor sortì cuor non sospetta
in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,
i tuoi, qui, uccelli i tuoi….!” (*)
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(*) I terribili pennuti del film “The Birds”.


FRANCO RICCIO

Individuare una scrittura poetica diversa dalla fitta platea degli sperimentalisti napoletani sembra difficile, perché gli esempi autentici da proporre non sono molti e per di più collegati alle forme linguistiche ermetico-neorealistiche, che sembrano quelle verso le quali si è indirizzato Franco Riccio (1923), sempre vigile nella propria esposizione semantica, come a voler salvaguardare la parola dalle intrusioni metasperimentali e dalle contaminazioni plurilinguistiche, riuscendo alla fine a fare un tipo di poesia che scorre tra esposizione autobiografica ed espressionismo.
In effetti, Franco Riccio si muove in un’area che gli è molto congeniale: quella della registrazione del quotidiano e delle cifre del vissuto, con ampie raffigurazioni che mettono in luce testi di malinconico codice esistenziale, all’interno di un agglomerato urbano a cui si accede per trasposizioni umorali e sentimentali, che si fissano come su una pellicola fotografica riproducente i colori del tempo e lo sfondo ambientale, in una variegata metamorfosi dell’oggetto poetico che lascia nell’occhio-anima l’effetto-luce delle stagioni e i frammenti di una vita minore e interiore. L’universo esterno permette la rappresentazione di elementi ipertematici in visibili segni che scandiscono i tempi della rimozione e induzione del dolore.
Lacerazioni, (1989), Parole per dirsi, (1994) e Vita Minore, (1999), tutti pubblicati presso le Edizioni del Leone, brillano come tanti flash back su I giorni dell’ansia, un altro volume di Riccio, fatto di piccole cose e grandi abrasioni. E sono propri i dati quotidiani, con tutto l’apparato esplorativo delle rivisitazioni, che fanno di questa poesia un canovàccio propulsore di spiragli e appuntamenti con gli affetti ricercati, che mettono allo scoperto personaggi e volti illuminati dalla luce dell’amore e del ricordo.
Franco Riccio da anni misura il proprio rapporto umano con il mondo esterno, restituendo alla parola il potere autobiografico delle sintesi dell’anima, lasciando alla purezza del verso l’allarmante profezia dell’effimero, con un’onesta e sincera affabulazione quintessenziata in una poesia prevalentemente novecentesca, che è nello stesso tempo, puntismo cromatico rivolto ad attenuare le cupe ombre sottostanti, distribuite per sensazioni soggettive e labirintiche esposizioni; le stesse che confluiscono nel recente volume dal titolo Canzoniere, Edizioni del Leone, Venezia, Aprile 2003, che racchiude nella sua proposizione antologica, testi di diversa datazione e di estrema leggibilità.
Questo osservare le cose dal loro ambiente naturale costituisce, il più delle volte, l’accesso ad un mondo dove ogni mutamento è occasione di un procedimento poetico ”caratterizzato da un’inquietudine sottile, da una mobilità dinamica, da un contiguo far festa e far lutto per ogni diversa cosa che passando dagli occhi arrivi al cuore o nella mente”. (Paolo Ruffilli, Prefazione al Canzoniere).
La città, in questo caso, Napoli, diventa luogo privilegiato nella poesia di Franco Riccio che sa cogliere la sorprendente metamorfosi della realtà, fino a rendere percettibili la solitudine e il piccolo gaudio, in una scrittura che passa dalle conversazioni intimistiche ad un più aperto spazio colloquiale, come storia di un uomo e di una vita segnati da un precario orizzonte e da ricorrenti fantasmi di tristezza.
Alla fine ciò che emerge è una sorta di esilio urbano dove il poeta annota fatti e accadimenti traducendoli con la voce dell’anima che evoca sia il momento storico sia il mistero dell’attimo, fissandoli tra il cronachistico e l’aneddotico.
Ma se questi sono i tratti specifici su cui si basa gran parte della poesia di Franco Riccio, altri sono i dati che vanno a incidere i tornanti della memoria e i rapporti con il quotidiano, riportati con sapiente referenzialità in testi che si pongono in un procedimento accumulativo di presenze-assenze, funzionali ad una poesia che ripristina la tecnica compositiva dell’esterno e dell’interno di cui Passato per Firenze. Non c’eri, ne è un modello esemplificativo pari ad altri testi rivitalizzati da una sorta di stream of consciousness, attraverso il soprassalto dell’Io che rimarca i tratti psicologici, con velate nostalgie e topici sentimenti. “E in questa forza di trasfigurazione risiede l’originalità di Franco Riccio, la non contrabbandabilità della sua cifra”. (Walter Nesti, Quinta Generazione, nn. 149-150 novembre-dicembre 1988).

Sisma 1980

Nel paese si sono creati
spazi imprevisti, ombre
impervie, prospettive
inconsuete.
Si svegliano
macerie che furono case,
scuole, chiese
(intimi pudori,
segrete povertà denudate).
Si resta,
nondimeno, sulla terra
che ha rullato pérversa per gli ottanta
lunghi infiniti secondi.
Si piange di rabbia e di dolore:
in silenzio o gridando, s’impreca.

Altrove, ripristinate pareti
scoprono nuove mutilazioni.

La luna, innocente, sta sulle rovine.
(da: Lacerazioni,1989)

****
Questo aprile filamentoso di nebbie
incostanti se n’è finalmente andato.
Pure se lascia pause ad incisivi squarci
di sereno per fugace apparizione.
La primavera è in agguato, disposta
ad instaurarsi stabilmente dopo
i primi inattesi indizi sugli alberi.
Timidi, interrogativi gli sguardi
al cielo per scoprirne gli umori;
già si pensa di alleggerire il peso
dei vestimenti.
Tentano le vetrine,
precoci, i primi chemisier multicolori.
Si ha voglia di sorridere al passante
che incrociamo; mentre, un’occhiata ai giornali,
e subito riappare la furibonda minaccia
dell’acqua per nuove alluvioni.
(da: Vita minore, 1999)

Passato per Firenze. Non c’eri

Passato per Firenze. Non c’eri.
Forse- era di sabato — a cena
con amici o in riunione
a ragionare con lena
di cose astratte e concrete:
o, più sicuro, un concerto.
Lasciati
in un angolo dell’orto, vuoto,
il bidone del “solfato”, il grembiule,
gli occhiali da saldatore.

Era rinato
il pesco dalle tue mani accorte.
Forse il ciliegio, se s’innesterà….
(stavano già “incannati” i pomodori,
esalavano acri sentori).
Cresciuta la sera
nella pescaia era
riflessa la luce puntigliosa
che declinavano le stelle.
C’era ancora una pace sull’umida,
liscia criniera dei prati:
l’accarezzavamo beati.
(da: I giorni dell’ansia, 1984)

ARISTIDE LA ROCCA

Un poeta che ha affidato il proprio canto a strutture metriche tradizionali, in particolare all’endecasillabo, come induzione espressiva verso gli aspetti drammaturgici del presente e del passato; è Aristide La Rocca (1925), che riscopre un mondo appartenente ad una civiltà letteraria e storica dagli autentici valori, repertati nel Frammento LXXX da Scene Augustee che, con accurata ricostruzione dell’epoca, ripropone la vicenda umana del poeta Ovidio e una interpretazione di fantasia, singolarmente utile allo sviluppo della trama, dei motivi dell’esilio decretato da Augusto.
Si accede con questo volume ad un ambiente poetico classico che rimette in circolo schiavi, danzatrici, senatori, liberti, guardie, sudditi dell’impero a fianco dei personaggi maggiori in una Roma tra il 30 a. C. e l’8 d. C. nei pressi di Nola 14 d. C.
Il risultato è il sorprendente connubio tra la fiction e la realtà di un medaglione storico che ha nell’esposizione delle scene la riscoperta del teatro di poesia all’interno del quale si viene a realizzare un’unità semantica, che ci riporta indietro nel tempo e nel reportage di un evento. Ma è con “La casa nel sole”, Cappelli 1969, e con “I soli”, Loffredo 1971, che La Rocca si avvicina al mondo linguistico contemporaneo, per rientrare nei canoni di uno stile parasperimentale e simbolico, con stilemi che irrompono nella struttura del testo e ne fanno un esempio di autentica proposizione linguistica.


“I soli” rappresentano un giudizio severo sopra le istituzioni e i fenomeni del mondo in cui viviamo (Giorgio Bàrberi Squarotti), dove il linguaggio transita in partiture poetiche che comprimono la realtà in flussi dinamici, raggiungendo una cifra espressiva in cui si vengono ad inserire improvvisi colpi d’ironia nel ritmo percussivo di giunture strofiche, a sbalzo intermittente.
Nel 1979, per le edizioni Hyria, vedono la luce Dieci Frammenti che riprendono sul piano formale le condensazioni drammaturgiche, specie nel Frammento X riproducente il clima letterario delle Scene Augustee, come momento isolato, posto all’interno di un più organico e complesso discorso nel quale diversi sono i passaggi tematici collocati in un sistema di figure e sentimento, dall’inarrestabile flusso narrativo e scenico, come nel Frammento VIII, che riporta l’estremo passaggio del paziente in un’atmosfera di forte dramma e delicata privacy:“e per le quattro del pomeriggio il carro / sarà puntuale anche il prete la gente / senza avvisi poca solo qualcuno / del vicinato lo sapranno dopo / diranno e potevate anche avvisarci / per non dare disturbo la domenica / forse eravate fuori per distendervi / non abbiamo creduto non abbiamo/ ritenuto scusateci scusateci /”.
Ci troviamo di fronte ad un autore dalle ampie aperture poetiche, capace di “captare” i segni della quotidianità e del passato con umana introspezione e sensibilità culturale, fino ad armonizzare gli elementi concettuali e meditativi, parodizzando pregiudizi e comportamenti umani, secondo un avvolgente schema di rapporti e storie di grazia figurata e di armoniosa musicalità.
Con L’amore randagio,2000, si entra in un piano poetico a più mitografie, con il tema dell’amore, trasposto con intensa luminosità e tristezza, come nell’ipnotico Frammento LXI, che brucia nel nulla il sogno finale del poeta, e che segna una svolta di grande penetrazione realistica nella cadenza ossessiva anaforica (L’amore è passato); proclive, altresì alla nostalgia delle passate cose e della lingua materna; aperto a un futuro imminente transitorio nel quale è la fretta del “secolo breve” e (“le domeniche passano passano”) che sta per passare la mano: doloroso nell’asseverante constatazione della fine dell’imperium cordis. (Gennaro Mercogliano). Le più recenti Scene bizantine — Teodora, (frammento XC), (2001), recuperano figure e fatti del mondo classico verso il quale La Rocca sembra essere oggi l’unico erede e relatore di una cultura dal grande fascino sommerso. Oltre ai volumi di poesie e di racconti, citiamo gli atti dei Convegni dell’84, curati e pubblicati da La Rocca: Le ragioni del Sud nella vita e nell’opera di Rocco Scotellaro, del 93 Il Mezzogiorno da Scotellaro a oggi. Economia, Letteratura, Società, Liguori, Napoli., e Il mare ciclope-Terzo Concerto Spettacolo per una identità mediterranea, in collaborazione con A. De Crescenzo, Liguori, 2003.

Taccuino 68

Ritonfano acque terremoti
sui giornali è tuttocchi
la negra col bimbo stremato
solo ossa e ginocchi.
Sorrisi frontali a Parigi.

Giusto per un fucile lontano
come John ora è King poi Bob
a svolgere pensieri
eredità di fratelli
destino di fratelli
“lo uccideranno un giorno in qualche luogo”
(il video allunga l’orario
ed abbassa la voce)
ma è già stato per Cesare
chi si rammenta di Cesare
senza monete né fede?

E’ sempre il terribile giugno.
Accorsata all’inutile urlo
dell’ambulanza d’Amalfi
(quasimorto salvarlo
ma i medici che sono padreterni?)
smentisce la morte
“Più nessuno mi porterà nel Sud”
(era Napoli il Sud
quattro ceri affiammati
quattro poeti che piangono).

Chi parte dal cielo per nuovi
pagani dissolto amore di tutti
alloquisce in divisa esperanto
ma amore reiettano a gesso
destino di fratelli
i fratelli agostani
Palach brucia e non sta all’inferno.

Sabato sale alla rampa
chi vive un sepolcro di luna.
O mia luna schiomata
il silenzio ti passa
come a un fitto d’alberi
il colloquio del merlo.
Siamo d’ali. In cielo c’è Borman.
(da: I soli, 1971)

Frammenti di stagioni

Più dolgono ombra i boschi
alla collina ogni sole è in questa
vertigine luce ottobrina.
Immota l’aria accicca
gioie speranze foglie.

Un rosso di tramontana
un terso caldo ai vetri
la scuola per mano a due passi
suonava lontano il tramonto
invernava così senza neve
(ora commiato l’atteso sabato
s’arrissa di rientri la domenica
e di piangere).

Nelle canne gravi del silenzio
irrompono pioggia
tuoni caldi odori
primaverano larve seni sangue.

Si straccia di nubi
la canicola faccia del sole
linda d’acqua l’erbetta
sfiata calura.
Vestiamoci pettiniamoci.
(da: I soli, 1971)

Frammento VIII

Crepita a scaglie e chicchi nel silenzio
pesante delle gomme il ghiaccio poi
si scurisce in fanghiglia aggruma cicche
bucce d’arancio vendono prolunghe
per la corrente accendini pupazzi
all’uscita carica a porta sci
mezzo intontito da rumori e gas
l’esattore occupato a sistemare
moneta ma scontento del lavoro
del suo prossimo tanto risentito
che pilucca la fila dà il biglietto
col denaro e guarda al piazzale libero
sente nel palmo ricacciato il resto
ha la prima già dentro imballa allenta
spinge forte appena svincolato
e lascia a ghirigori sui lunotti
bimbi amore saluti maninplastica
agli sportelli certe occhiate come
si dice solo con lo sguardo è grave.
Ma chi scorge luci avanti l’alba esce
presto di casa parte con le stelle
nel pensiero l’albergo prenotato
con l’acqua che nel bagno è poca e sputa
se rivede le stelle accosta gente
che fuma beve gioca a carte ascolta
hifi racconti s’accovaccia in cori
pensa alla strada al ghiaccio alle catene
alla stufa di casa all’ammalato
che a portata di mano ha quel che resta
della sua vita una bottiglia farmaci
boccette un vecchio libro di preghiere
una forbice nuova un po’ di zucchero
al fondo d’un bicchiere un bastoncino
per scostare la tenda il copriletto
un cuscino la speranza d’apprendere
la nuova cura della malattia
viene la notte torna il giorno il sole
lo ristora di caldo e di splendore
lo consola la pioggia e ricantuccia
il vento un po’ maldestro e fracassone
sembra smarrirsi il freddo a uno sbaraglio
di nuvole disfatte di scirocco
che accenna ad altra pioggia si fa tardi
questo sabato sera appesantisce
di sonno il lume schermato di carta
il respiro s’approfonda dirada
in lunghe pause riprende svanisce
torna impigliato tra bocca e narici
inarca il collo ad occhi spenti il capo
ricade inerte s’impenna poi tenta
un estremo sospiro che non termina
crolla resta si fissa nessun tratto
più muta è fisso e immoto anche chi scruta
e pensa ecco è finita domani
è domenica l’accompagnamento
è per le quattro al pomeriggio il carro
sarà puntuale anche il prete la gente
senza avvisi poca solo qualcuno
del vicinato lo sapranno dopo
diranno e potevate anche avvisarci
per non dare disturbo di domenica
forse eravate fuori per distendervi
non abbiamo creduto non abbiamo
ritenuto scusateci scusateci.
(da: Dieci Frammenti, 1979)

CARLO FELICE COLUCCI

Carlo Felice Colucci è nato a Riccia (Campobasso) nel 1927, ed è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico e di ricercatore. Fra l’altro, nel corso degli anni Settanta, ha svolto originali ricerche sui ritmi circadiani, ricevendo consensi internazionali. Ha pubblicato le raccolte di versi: Fenèste’int’o scuro, (Roma, 1960), Una vita fedele (Guanda, Parma, 1963), La pagaia, (De Luca, Roma, 1967), Poésies, (Millas-Martin, Paris, 1969), Placebo, (Lacaita, Manduria, 1975), Preghiera occidentale, (Guida, Napoli, 1981), Check-up, (Almanacco dello Specchio Mondadori, Milano, 1983), La bella afasia, (Lacaita, Manduria, 1983), Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1987), A fuochi spenti, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1992), Il viaggio inutile, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia.2003), Selected poems, Edizione bilingue italiano-Inglese, (Gradiva Publications, New York 2003). Ha pubblicato i romanzi: La corsia, (Rebellato, Padova, 1972), I figli dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma, 1979), I fuochi di Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna, 1985), Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi, Milano, 1993), ed una cospicua raccolta di saggi ed elzeviri dal titolo: La parola perduta, (Guida, Napoli, 2001). Sono in corso di stampa una raccolta di racconti (Non sparare all’ombra) ed un romanzo breve (L’appello). Per cui riteniamo che il Colucci abbia già al suo attivo-decisamente- la doppia veste di poeta, nella quale è nato alla letteratura e di narratore tout court (a partire dagli anni Settanta), appartenendo di diritto alla sparuta schiera di scrittori in utroque del nostro Novecento che va da Palazzeschi a Saba, Pavese, Bassani, Compagnone, Tobino, Scotellaro, Volponi, Pasolini, Rimanelli, Bevilacqua ed a pochissimi altri. Ciò che caratterizza la poesia di Carlo Felice Colucci è il costante lavoro sul significante a cominciare da la Pagaia dove già si formulano i primi contatti linguistici innovativi, che si faranno più chiari e distinti in Placebo, “in una temperie stilistica di ironia tragica di sequenze appositive e comportamenti verbali nel rispetto però delle forme linguistiche e del nucleo del sintagma.”(Lanfranco Orsini, Otto-Novecento- tra poesia e prosa, Napoli, S..E.N., 1980, pag. 358); per poi “passare”, “attraverso l’avanguardia con grande intelligenza e saggezza”,(G.B. Squarotti: dai Postermetici alla postavanguardia, in Letteratura Italiana Contemporanea, Lucarini, 1982 vol. III, pp.545-546); pervenendo con Preghiera occidentale ad uno dei documenti poetici tra i più significativi degli anni Ottanta. La poesia di Colucci, prevalentemente logica e antropocentrica, gira intorno al tema della memoria e al dramma della vita in cui vengono esaminati e ritracciati i filamenti della realtà con conclusivi epitaffi e infausti pronostici per tutti. Si fanno così strada gli spazi del tempo dove mancano i giorni per seminare o per sperare e la Morte ha le sembianze dell’arrotino nel volume Il viaggio inutile. Questa visione culturale e psicologica viene correlata alla vita, con l’occhio spietato del medico-poeta che ricorre ad un glossario scientifico per analizzare, con metafore e sintagmi, il destino dell’uomo.
In questo caso, l’unica solidarietà possibile di fronte al negativo, è la propria testimonianza esposta a quelle scarne profezie / tumori adiesse denutrite magie. Il futuro si identifica con il lessico del nichilista tout court, e il risultato è un evidente schiacciamento dell’esistenza fuori da ogni considerazione metafisica, in un pessimismo che “appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò l’Universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”.(Giancarlo Rugarli, Il Mattino, 20 luglio 2003).
Il paesaggio esterno è marcatamente sassoso, tragico, freddamente lunare, ma di una luce che rischiara la memoria e gli immutati affetti verso i cari estinti, attraverso il recupero antologico di figure e volti che transitano in un’atmosfera sempre più mitica e sacrale, franta ed epigrafica, in vicende che rimarcano il senso proustiano del tempo, dove i suoni dell’anima si amplificano in un umanesimo esistenzialistico. A questo punto si potrà parlare di Colucci pure come di un poeta sotterraneo, in grado di sondare a fondo il vissuto esistenziale, fino a sezionarlo, penetrando “lo sguardo o il bisturi nella tragicità della vita”. (Giuseppe Zagarrio, da Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983, pag. 328), in una sorta di “veggenzialità postuma” (idem, pag. 346). Ma forse non si capirebbe appieno il substrato più riposto e pregnante di codesta poesia, senza mettere mano ad un’altra icastica citazione:”Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe, rivela un sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad organizzare fra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto se non di salvezza, almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò che abbiamo definito il “folclore medico”: definizioni di stati patologici senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali (e non ultime, di recente, le serie patologie personali dell’Autore n.d.r.). Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di profondità spirituali insospettate”. (L.Sbragi, Nostro Tempo, 1982-1983, pp. 25-26). E’ codesta la “centralità concettuale” di Colucci, donde partono le onde “psicoespressive” dentro un’operazione poetico/testamentaria che, attualizzando l’effimero dell’umanità, ci restituisce il caos delle cose e degli eventi: da cui è impossibile il tentare di uscire, se non dopo aver conosciuto (e vissuto) tutto il dolore possibile, che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi.

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette
ho finito i gettoni, altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva si
l’uniforme, da Lotta continua
ed uno vorrebbe alla spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza gioco di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre,
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia,
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie
(da: Preghiera occidentale, 1981)

Detto tra noi

Io sarò sempre incerto semmai,
degli uccelli hanno preso a cantare
in modo così orrendo da angosciarmi,
se con la penna col bastone o con
se una lunga fila d’auto e requiem
diagnosi prognosi e autopsia
ritornare nell’Acqua Primordiale
con tanti miti e qualche fiore in tasca,
è metafora sublime
il vostro guano ubiquitario
popolo eletto degli uccelli addio
la vita scelta fra mali
e tu a darmi ragione torto niente
nessuno ci offriva più niente più mance
solo una debole nenia di futuro
le iniziali sul destino e si disfiora
l’hashish nel vaso dei gerani,
vi troveranno vi prenderanno sempre
fin dentro malfide riserve;
non me, la breve avventura
nell’epitaffio di riguardo
io traverso sempre sulle strisce
fedele nei secoli nei vicoli
quelle farse per sopra e sotto su e giù,
il resto è tutto sul fondale disfatto
una toga d’ermellino per giustizia
la città sul banco degli accusati
adoro fresche basiliche d’estate
le donne di statura media
e il sorriso idiota del vicino,
decidono domani i sindacati
non io, né mai troverò le siepi
dove imberbi ci masturbammo né
mio nonno il biroccio e la cavalla
venduta anche la stalla d’adozione,
misura il volo compagno di paura,
io sarò sempre incerto semmai
il verso lungo o la memoria corta.
(da: Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983)

Totem, tabù e infanzia

Totem annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroschima, Dio mio, Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino
(da Il viaggio inutile, 2003)

FRANCO CAVALLO

Nato a Marano nel 1929, e morto a Cuma nel 2005, Franco Cavallo è stato protagonista dell’attivismo culturale napoletano con Stelio M. Martini, Felice Piemontese e Luciano Caruso, durante gli anni di fervido sperimentalismo neoavanguardista. Ha pubblicato: Fétiche, (Guanda, Parma 1969); I nove sensi, (id. 1971); Flusso, (Altri termini, Napoli, 1976); Ziggurat e Frammentazioni (id, 1979); L’alfabeto dei numeri, (id. 1981); La nascita del Principe (Edizioni del Vicolo del Pavone, Piacenza, 1988); L’animale anomalo, (Altri Termini, Napoli, 1992); Nuove Frammentazioni (Anterem, Verona 1999, Premio Lorenzo Montano 1999 e Premio Feronia 2000); Nuvole e Angoscia, (Orizzonti meridionali, Cosenza 2001). Ha curato le Antologie poetiche Zero. Testi e antitesti di poesia (Altri Termini, Napoli, 1975) e la serie di Colibrì, 1979; Coscienza & Evanescenza, Antologia dei poeti degli anni ottanta, S.E.N. Napoli, 1986, Poesia Italiana della contraddizione (Newton Compton, Roma 1988), in collaborazione con Mario Lunetta.
Ha scritto anche di narrativa: Le memorie del Professor Zarathustra, (Altri Termini, Napoli, 1987); Racconti volanti e altri racconti Manni, Lecce, 1996. Ha fondato nel 1972 la Rivista di poesia e teoria critica Altri Termini che ha diretto per circa un ventennio, rimuovendo il vuoto culturale venutosi a creare dopo la neoavanguardia. La rivista terminò le pubblicazioni nel 1992, dopo gli ultimi numeri monografici dedicati a Corrado Costa e ad Aldo Palazzeschi, intervenendo sulle variazioni della scrittura di Roland Barthes; uno dei tanti critici presi in esame.
Molto intenso e vivace fu il rapporto dialettico intorno allo sperimentalismo, come necessità di nuovi agganci con la letteratura e adesione alle avanguardie storiche.
Non c’è dubbio che Altri Termini colse il senso di disagio e di dispersione poetica in un momento di forte crisi del linguaggio negli anni Settanta, aprendosi ad interventi non privi di polemiche e di spunti contraddittori sulla risemantizzazione del testo, come proposta di scrittura creativa; il rilancio, insomma, di una nuova fisiologia della parola, che potesse venir fuori dalle diverse anime chiamate a dare un contributo costruttivo per la ripresa del concetto stesso di poesia, chi riconsiderando le forme obsolete della tradizione, e chi proponendo l’esperienza dello sperimentalismo.
Si trattava di operare su un progetto o linea di tendenza capace di dare il senso vivo ad un’azione poetica autre, superando l’onda del riflusso.
In questo senso il dialogo aperto da Altri Termini, costituì la base di confronto e di analisi intorno al significante e al concetto stesso di autonomia ed eteronomia dell’Arte, liberando nella discussione pluralismo e pragmatismo.
Discorso alquanto complesso per la polivalenza delle tematiche riportate in un’ampia vetrina d’opinioni, per verificare le diverse voci e ipotesi di ricostituzione della lingua, che la rivista affrontò, tra tesi e controtesi da parte d’illustri critici come Sanesi, Vassalli, Squarotti, Pedullà, Conte, Lunetta, D’Ambrosio, Baudino, Carlino, Vitiello, De Angelis, Esposito, Carandente, Perrotta, ecc. fino a giungere ad una comprensibile conclusione da parte dello stesso Cavallo, quando in uno degli ultimi numeri della rivista, fece notare la situazione di stagnazione e di impaludamento, e la condizione di riflusso, con i suoi caratteri orrendi e quasi irreversibili;senza rinnegare per questo la sua fede nella poesia e anche un certo amore verso le avanguardie storiche e il surrealismo.In un passaggio da Aborigeni, Riflessione dell’Autore, Cavallo parla della necessità di “un ritorno alle origini della specie, al pensiero prelogico…per ricominciare tutto da capo, come se nulla (o quasi) fosse mai accaduto: non con la citazione, ma con la memoria a brandelli (o con i brandelli della memoria); e con il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato; questo potrebbe risultare uno dei segni possibili della parola poetica. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il “mito”, anche se a volte il canto “frammentato” può sfociare — ed è un pericolo che bisogna scongiurare ad ogni costo — in nostalgie affabulatorie di natura mitologica: è cultura del passato che si ripropone al presente in tutta la sua storica e drammatica attualità”.Su questo terreno si è venuta a confrontare la sua poesia che si è arricchita di composizioni logo-iconiche oltre che logo-ironiche, individuate da Lamberto Pignotti nella sua relazione su La Poesia visiva a Napoli, a cura di Matteo D’Ambrosio, pag.204.
I testi di Franco Cavallo si avvalgono di bioritmi linguistici, pluricellulari ed espansivi, oggettivamente puntati verso un apparato verbale, che non si chiude in formule monotematiche: tutto è indagabile e tutto è assoggettabile all’idea di una poesia realizzata con diversi messaggi che diventano immagini dell’Io centrale.
Da qui il senso dei significanti che danno vita ad un’ampia sfaccettatura poetica portata avanti a livello di acquisizione del reale e dell’immaginario.
Pensiamo per esempio, a Ziggurat (1979), che si espone ad una ardita proposta segnica nella più sfavillante dissipazione stilistico-strutturale dove si innestano brani di prosa lirico-riflessiva, elementi iconici, calligrammes, in un continnum a andamento rigorosamente dialettico (eppure a cadenza arbitraria, ricca di effetti a sorpresa (Mario Lunetta), o all’Alfabeto dei numeri, (1981), definito da Manacorda una sorta di cabala o di aritmetica poetica (o poesia aritmetica), o alla silloge antologica Nuvole e angoscia, (2001), che proietta in profondità testi indirizzati verso le notazioni partenopèe, l’onnipresenza e l’incombenza della morte che assecondano il fluttuare dei pensieri, riportati in una grafica personalissima, quasi ad esprimere il fluire immediato, e la concatenazione delle immagini nel verso (Maristella Dilettoso).
Metafore e ironie, risorse linguistiche e surrealismo nell’ambito delle relazioni con il testo e i suoi caratteri ludico-allusivi, riflessivo-liricizzanti, scissi in soluzioni fonometricofigurative, sono le forme rilevanti delle categorie grammaticali di questo poeta, sfocianti in un’estensiva appropriazione dell’universo interattivo del discorso sociale, esistenziale, morale, e quant’altro riferibile ai flussi di coscienza. Cosicché ibridismo semantico e fusione dei codici di scrittura si ricostituiscono in un verbum sperimentale, per analizzare ogni frammento e campione della realtà nel rapporto uomo-società e uomo-mondo, come ne: I nove sensi, Guanda 1971,”che fa seguito a Fétiche e che sviluppa nel senso che chiarifica di più l’operazione di prassi liberatoria contro gli istituti-tabù della civiltà: contro l’uomo —fétiche, appunto.” Il personaggio simbolo resta Edipo visto nel suo segno mito di un uomo destinato dalla sventura (dei suoi complessi o paure) alla sventura della sua schiavitù storica e istituzionale. Non c’è dubbio che la proposta poetica di Franco Cavallo gli ha permesso di innestare perfettamente, sul tronco dell’avanguardia storica più provocatoria, tutta la passione (e tutto il tormento) delle nostre più attuali illusioni-delusioni (o viceversa), e di incrinare per questa strada tutto il castello che le nostre neoavanguardie degli anni sessanta avevano innalzato sulle basi del proprio accademismo filologico e/o schizofrenico (da: Febbre, furore e fiele, Giuseppe Zagarrio, Mursia 1983 pagg. 166-167).

Nottesuburbio. Colpisecchi di tosse
nel buio, - di pistola.

Vocelontana, - un canto gregoriano?

Vicolo delle Femmine
mangiato dalle donnole.

Odore di fogna e di
muffa. Scatarramenti notturni.

L’ombraferita annaspa. Vacilla.
Si accascia sul selciato….

E poi la voce, in uno
sfinimento tenue, quasi
ala di colomba ra-

dente: “ E’ come sprofondare
nella neve — a settembre!”
(da: Suburbio, 1993-1998, in Nuvole e Angoscia, 2001)

****
a precipitare, precipitano:
ma poi s’alzano, - precipitati.
dai loro occhi si diparte un fato
torvo, dal profilo d’unicorno.

c’è gran silenzio lì intorno.
i mestieri non hanno futuro.
lungo la spiaggia c’è un muro
che si apre a raggiera:

è gremito di fiere….
e il vento? è proprio
il vento un alimento divino
che copre santuari e sentine.

rose e glicini
non avranno dimora:
c’è chi la sua origine
non conosce ancora.
(da: Ultime frammentazioni, 1998-1999 in Nuvole e Angoscia, 2001)

****
5, 6, 7, 8,

per Cinque
per Sei
per Sette
per Otto
lo spostamento verso est
avviene
attraverso una palude misteriosa
costellata di scheletri
di
mohicani
)
cupi suoni di liane

si snodano nel tuo corpo
- fondamentale panteismo indù-
&
l’acqua sale
sino alle vertebre
del
silenzio
:
una placenta violacea
si stacca
dalla tua luce
di solstizio
e cade
in particelle silenziose
.
o nube
sovraccarica
d’aceto
o scorza delle mani
avvinghiate al tuo seno
(elaborato nella mia frequenza)
o particola
che rotoli tra i pioppi
o vuoto
color di salnitro
o raganella
che t’incagli nel fondale
di uno sperma nebbioso
- assapora
il frammento aspro della parola
che non raggiunge
il tuo centro
poi
lo raggiunge
e il tuo centro
è
la
Morte
(da: L’alfabeto dei numeri, Altri Termini, 1981)


ANTONIO SPAGNUOLO

Non sono pochi nella nostra letteratura i casi di scrittori e di medici-poeti che hanno fatto del corpo-vita un’anamnesi metaforica, ristretta in pochi nuclei di realtà negativi, proponendo, a volte, soluzioni alternative, ad effetto placebo, per una terapia d’urto contro il male di vivere che, quantunque bypassato dagli alibi della memoria e delle illusioni, resta pur sempre un dato di primissimo piano, per trasfigurare la condizione umana oppressa dal Nulla e dalla provvisorietà. A questa schiera di poeti fa parte Antonio Spagnuolo, (1931), il quale, attraversando due generazioni poetiche: quella ermetico-neorealista e quella della Neoavanguardia, con qualche eccezione e partecipazione a mostre di poesia visiva, si è sempre tenuto nei limiti della chiarezza poetica e lontano dalla suggestione plurilinguistica degli avanguardisti, gestendo un proprio vocabolario medico-scientifico e novecentesco, per denunciare, metaforicamente, gli aspetti esistenziali, fino ad immettere la poesia in un probabile e ipotetico Oltre.
E’una scrittura reticolare, che si manifesta attraverso numerosi procedimenti tematici nella scomposizione del quotidiano, tra microstorie pubbliche e private.
Amore e Morte sono i termini di confronto sempre inconciliabili o dicotomici. La visione del Mondo, vista come corrosione cosmica delle cose, apre scenari inconsueti e imprevedibili, mettendo in tensione le fibre dell’inconscio e del paesaggio mentale, che si muovono intorno ad alfabeti materici e analogici, fortemente percussivi nell’attimo in cui la parola tende a misurarsi con l’effimero e l’assoluto, per cercare uno spazio, tra sogno e illusione, nel tempo dell’Attesa.
E’ questa la parabola poetica di Antonio Spagnuolo che si riflette in in un ampio repertorio di procedimenti psicologici, consequenziali ad una ricerca religiosa, torturata e sofferta, specie quando il discorso si fa più meditativo e sincero nella plaquette, dal titolo “io ti inseguirò” (venticinque poesie intorno alla Croce), Luciano Editore, Napoli, (1999), che rivela un’ansia metafisica non comune, con un controllato uso del linguaggio, mai sfociante nell’innologia o nelle laudi da oratorio: cosa non certamente facile quando si accede ad un universo poetico di tipo teistico o si cerca una identificazione allegorica con la Croce e la poesia; come “mediazione tra il dolore e la catarsi, la sconfitta e la vittoria, il buio e la luce”; sintesi di un’autentica dichiarazione di poetica, sempre più laboriosa e antropocentrica, nel momento in cui l’imperscrutabile diventa appiglio psicanalitico di fronte alla questione esistenziale indagata tra affondi psicologici, riflessi di luce e mezze ombre, in una solitudine privata e di arida denuncia del nonsense della vita, anche quando si scelgono le vie provvisorie dell’Eros, a sorreggere il mondo, a lievitarlo dalla sua caducità, che è poi un modo abbastanza mimetico d’essere dentro il mistero delle cose e delle loro dissolvenze, per testare la formula del dolore legata alla salvezza.
Da qui alcuni repertori lirici che si aprono come squarci in una sequenza intima di riflessione e di progressione autobiografica Finché a sera, in un remoto sacrificio delle ore,/ vecchio bizzarro, per raggiungere il tempo ormai indeciso, / crudelmente, restandone alla larga, / mi trasferisco a sognare; / tra scomparti e cancelli; / tra le note di una incerta anestesia / incredibile viaggio in pungenti fantasie / ecco moltiplicarmi / nell’esistenza di Dio. / (da: Ronzio: inedito).
La fitta produzione poetica di Antonio Spagnuolo pone in evidenza un esplicito approdo ad un universo metafisico dichiarato con una parola che non è soltanto la poesia-Croce: oggetto e forma della Speranza e della Inquietudine del nostro essere -qui e ora- ma è anche la fusione di nuovi “alfabeti”, per sondare altri terreni d’uscita dalla poetica del dolore e del male di vivere. La titubanza e il dubbio, che pure fanno parte di tanti reperti poetici, si innestano come pause di frattura nel procedimento etico-morale in Spagnuolo, specie quando egli ricorre a insalvabili e illusori percorsi provenienti dalla quotidianità.
Infatti “ E’ costante nella poesia di Spagnuolo la rappresentazione di nuclei tematici, come la centralità dell’eros, la relazione eros/tanatos e libido/morte, cui corrisponde il ricorso ad una terminologia clinico-psicologica, evidente soprattutto in “melania”, sezione centrale del volume Candida- prefato da Mario Pomilio”- (da: Dizionario della letteratura italiana del novecento — Ediz. Einaudi, a cura di Alberto Asor Rosa, 1992).

C’è un silenzio dove ripeto abbandoni,
tra gli infissi,
tra sguardi irriverenti e giochi di colori.
C’è un silenzio per l’alba che non torna
fra i labili corpi ancora stupiti,
tra pilastri di tenebre,
ove distendo appena i miei discorsi,
a ripetere avventi di speranze
contro l’orologio del mondo,
che rintocca troppo lentamente il tempo.

Sarà la volta dell’ultima vicenda:
sempre più lento e fioco
lo scorrere del sangue nell’aorta,
perché gli occhi affamati di resurrezione
s’affrettano a socchiudere le palpebre.

C’è un silenzio per nuove dimensioni,
per le siepi ritrovate intatte,
per il dissolversi delle nebbie,
Signore,
nel timore che tu possa sparire
un’altra volta.
(da:”io ti inseguirò”, 1999)

****

Rapinando alfabeti
decompongo lo spazio di ginocchia,
nella spanna di sillabe e cesure.
Le mille intemperie della mente
hanno intermezzi,
e le memorie,
a recuperare il mio gesto,
hanno sponde al rovescio.
Nello squarcio di alcune liturgie
riproduco tue spezie
solcate a frenesie nella vecchiezza.
Forse scivola il numero al tizzone
o la festa a scomporre
un recente passato,
ed io vorrei tornare agli anni
della luna
per trafugare la riga del tuo nome.
(da: Rapinando alfabeti, 2001)

Ronzio

Tutto è ronzio, un crepitio elettronico di zufoli
e d’amore
per fulmineo abbrivio delle nuvole a farsi parole
della immaginaria corsa, accennata in segreti.
Dietro gli anni l’azzurro necessario a fuggire
l’abete, una strada, una stazione, una sosta sbeccata,
o la meraviglia dell’angolo fra le dita tue a contare
ritorni.
Dove l’enigma del nostro tempo urbano
schiaccia sfumature, pari ad una immagine
o misura dei cerchi risucchiati:
va e vieni, voli vertigini, giorni senza giorno,
temo, in attesa del volo che ti imbianca,
di spalancare ali, volteggiare al difuori del letto,
mai sazio di cicale o sussurri.
Spartiti che non posso raggiungere, mutilato da fili,
per blandire le sbarre giusto al punto interrotto.
Abbeverarmi a ferite un milione di volte,
tutto esatto e preciso in un febbrile impatto,
è poca cosa l’aria di rigore o le sfolgoranti luci.
Finché a sera, in un remoto sacrificio delle ore,
vecchio bizzarro, per raggiungere il tempo ormai indeciso,
crudelmente, restandone alla larga,
mi trasferisco a sognare,
tra scomparti e cancelli,
tra le note di una incerta anestesia
incredibile viaggio in pungenti fantasie
ecco moltiplicarmi
nell’esistenza di Dio.
(Inedito)


G. BATTISTA NAZZARO

Fondatore della rivista Es assieme a Sergio Lambiase, e attivo promotore di iniziative culturali, G. Battista Nazzaro (1933), appartiene al ristretto team di scrittori e artisti del Nucleo Operativo 64, che nel 1965, presso la Galleria Guida tenne la prima mostra di poesia-visiva, con opere di Bonito Oliva, Felice Piemontese e Antonino Russo, per testare sensibilità e umori, come nuovo rapporto culturale con il pubblico, in un momento di estremo interesse per le arti innovative e trasgressive.
La sua adesione alla poesia visivo-tecnologica pone da subito una intenzione progettuale, come modello di mediazione figurativa, con lo scopo di far coesistere la parola con gli innesti grafici e creare così alcuni rapporti interattivi tra le due forme oggettivate, integrandosi con il concetto di avanguardia nei diversi segni simbiotici, statici, spaziali e iconici. Qui rimarchiamo alcuni risultati importanti raggiunti da Nazzaro, in particolare, le opere presentate alla mostra: Il Messaggio ribaltato del 69, Casoria, Circolo studentesco e vari scritti critici, di rilevanza nazionale come: Introduzione al futurismo, Guida, Napoli, 1973, Marinetti futurista, Guida, Napoli, 1977, Marinetti e i futuristi, Garzanti, 1978, Futurismo e politica, 1987, che lo pongono tra i più seri studiosi di questa corrente. Ha collaborato alla Nuova Rivista Europea di Giancarlo Vigorelli, con articoli e recensioni riuniti in Il carteggio Prezzolini-Soffici.
Sul discorso verbo-visivo, che pure ha coinvolto e interessato G. B. Nazzaro e tanti poeti napoletani, Filiberto Menna in: La poesia a Napoli (1940-1987), pag. 211, rileva che molti di questi operatori, si sono posti il problema di creare delle intermittenze… dei disturbi. mettendo in evidenza il carattere oppositivo e alternativo della poesia tecnologica, rispetto alla cultura dominante di quegli anni.
Attualmente, e per i pochi documenti poetici consultabili, ci pare di rilevare nel primo volume di Nazzaro - Roditore e cancro SIC, Napoli, (1973) -, un non comune desiderio di inserirsi a carte scoperte nel gioco della poesia, con estrema cautela e responsabilità.
Il clichè poetico ruota intorno alla nevrosi del dire, che corrisponde ad una continua verifica del senso della vita. Roditore e verme, sono, infatti, le figure metaforiche che rendono inattive tutte le possibilità di comunicazione della parola nell’indagine esistenziale.
Da qui un uso parsimonioso della produzione poetica da parte di Nazzaro e un equilibrato senso di riservatezza giustificati da una sua dichiarazione:“Anche se ho pubblicato pochissimo, per star fuori dalla vischiosità solipsistica, la poesia occupa per me un posto elevato. Mi sono reso conto, confessa Nazzaro, che le altre attività letterarie diventavano ideologia, esercizio critico, esternazione erudita, tutte cose preziose ma che avevano poco a che fare con l’immaginazione e la fantasia. Così di nascosto scrivevo poesie, che ho atteso molto (per pudore) prima di pubblicare” (da una Intervista a G.B. Nazzaro su Il paradosso dell’evidenza di Alessandro Carandente, Marcus Edizioni,pag.132 Napoli 2002). Il che equivale già ad un esplicito impegno culturale riattivato con i“Frammenti per poema”, risalenti al 1983-1984, apparsi su Secondo Tempo, Libro tredicesimo 2001, che si distinguono per la tramatura flegrea, le suggestioni marinaresche, il senso del tempo ad irradiazione coscienziale, in un effluvio di suoni e di espressioni accumulative, che ne fanno un pastiche di lussureggiante sperimentazione tecnica e stilistica, specie nell’ultimo volume dal titolo Melusina, Marcus, 1997, che si apre ad una tenuta di canto più consistente, nel senso che la voce si affida al racconto d’ambientazione romanzesca, riscoprendo un mondo magico e poetico, attraverso le ragioni dell’amore e dell’incanto di Melusina, la protagonista del Roman de Melusine di Jean d’Arras, riportata alla vita da una parola convocata nell’attrito dei lessemi attigui fino a produrre un senso luministico e etico (Ciro Vitello, da: l’ossimoro ossia le opposizioni come generazione del mondo poetico in G. Battista Nazzaro), e che pure connotano desideri d’immaginazione letteraria mimetizzati nel tempo e nella storia umana.
Ma Melusina offre anche altre chiavi di lettura espresse tra sensibilità e civiltà culturali diverse, come mutamento della poesia, che in questo caso “viaggia a ritroso, dall’esaurimento immaginativo dei nostri giorni, fatti di attesa e silenzio, fino alle radici del pensiero occidentale — soprattutto frequenta il mito del mondo greco ma anche la ritualità romana e la religiosità cristiana, attraverso i miti della vegetazione, del sacrificio”, come rileva Alessandro Carandente in quarta di copertina. Ed è proprio su queste connessioni che nascono storie di vita e di morte, fino a determinare un formalismo del gesto magico nel dissolvimento dell’incantesimo.

dire:
la vita dissipata in similpelle,
e la barriera, come forma distaccata:
un senso che sospinge:
un mondo, un mondo:
paralume con astuccio per nessuno:
e si assottiglia lo sforzo per ridurre
all’interno dell’oggetto la membrana,
fibroma nel dissesto, e
ripetere il messaggio:
dire:
altro dettaglio della mano,
un naso e lingua
who did you say (?):
parallelamente,
ed è produzione,
o immagine che nasce dissossata
nell’emblema:
un ciclo elastico,
ripetibile per gli esterni in buona luce.
(da: Roditore § Cancro, 1973)

****
Non farne un dettaglio: la mano
è la grù: uccello bellissimo
in un grido verde: un grido in un
deserto.
Sette milioni di anni
analoghi a quelli in cui la mano
trivella ruotando e vanta esemplari
chimismi: dunque in perdenza:
eternamente in fuga: dispersa
nei mutamenti della terra.
Un giorno
sul bordo vennero messi dei segnali:
astrazioni lunari fatte passare
lentamente: più deboli anche,
in traiettorie, e pulsa e respira,
osso protervo di voci ammonitrici.
Ma si ostina: giorno per giorno:
lievito vivo di eventi futuri.
(da: Roditore & Cancro, 1973)


Il nocchiero stanco

1

navigando il nocchiero tra spenti roseti;
seduto, su fasci di antico cordame,
salato come odisseo l’astuto; col capo
fasciato; la bocca e le orecchie ulcerate;
sguscia lumache; tuorli rimuove dal guscio;

narrando, occhio fallace, lamelle di onde
e di sale, attecchite alla chiglia del mare;

ma è un uomo tarlato; reo confesso d’accidia;
sogna bonacce; dune di sabbia assolate,
rive di sassi stecchite; esche di carne,
focacce mielate e voli radenti di gabbiani;

nell’ora ferona che vide mercurio suonare
bianchi liuti, e l’orca danzare sul mare;

2

dorme sognando, insania cattiva e spettrale;
sopra scoscese pareti; che sale, l’orrido
nano, folletto, stridore di stelle spezzate;

la donna cannone che ride mostrando
mutande all’amante macchiate di sangue;

che c’era nel porto fumoso indomabile
veglia; nelle vetrate c’era un famelico
urlo; e il ventre scavato da cime; all’umile
albergo, la vergine assisa tra gli assetati;



c’era l’assenzio la nebbia la lingua tagliata
nel rosso boccale; il seno schiacciato
sul vetro e la mano che spinge il boccale;

navigando tra mare e taverne, topo roso
dal mare (………………………………)
(da: Frammenti per poema)

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