Mario Gabriele
Armonie in sonno, in attesa del risveglio
Questa recente raccolta di poesie, Ritratto di Signora (prefazione di Luca Landolfi, Nuova
Letteratura, Campobasso 2014, pp. 101) conferma ed esalta la lunga, motivata,
fedeltà alla poesia moderna di Mario M. Gabriele. Gli assi di riferimento sono
sempre quelli: la specola della cultura anglosassone, l’esistenza come verifica
di una condizione di partecipazione sospesa ad eventi che portano un nome
preciso e un profilo netto, anzi perentorio, ma che in sostanza veicolano
meraviglia e mistero, l’interrelazionalità fra i linguaggi (innanzitutto fra
letteratura, una letteratura che, come dice Eliot, è suggestiva di una lingua
dei vivi dentro le espressioni dei morti, e comunicazione mediatica, - dalla televisiva
alla radiofonica, alla giornalistica, quella costituita sulla cifra della
cronaca-cronaca).
La cultura anglosassone, dunque, è il filtro fondamentale. A
cominciare dal titolo. Questo Ritratto di
Signora cita intertestualmente ed esplicitamente tanti altri analoghi
“ritratti” (Portrait of a Lady di
Eliot, The Portrait of a Lady di
Henry James, ecc. ecc.). Naturalmente, concordanze, non possono non attivarsi
anche con la semiologia della ritrattistica nelle altre culture e negli ambiti
extraletterari: scultura, pittura, cinema. Le consonanze, tuttavia, si
intrecciano soprattutto a livello semantico e simbolico con l’acquisizione
squisitamente moderna dell’arte del ritratto autentico, come sottolinea Alberto
Savinio, che è inquisizione di ciò che non appare e finora non è apparso in
superficie e nell’evocazione alla vita di qualcosa che non si sarebbe potuto
altrimenti conoscere. Così, questa “Signora” di Gabriele è essa stessa
personaggio nuovo e in divenire, in quanto metapersonaggio che si riflette per
accenni, per guizzi improvvisi e inattesi su tanti personaggi disseminati nel
quotidiano di qua e di là (soprattutto in ambito anglofono): si lascia appena
sospettare o intuire, ma non si concede mai nel concreto palpabile e a tutto
tondo. Essa, chiaramente, è l’esistenza, in tutto il suo intrigante fascino di
enigma e di bellezza che si rivela, senza chiedere licenza ai superiori.
Anche la scrittura è quella che conosciamo di Gabriele,
asciutta, essenziale, franta, in mimesi della coseità e, insieme, frammentarietà
e occasionalità dei segni della vita. Questa volta, però, essa si offre a una
plasticità, ad avvolgimenti più complessivi e di maggiore tenuta, a una
sintagmaticità oggettiva che si avvale perfino dei frammenti eterocliti per
comporre uno spartito ricco di reciproci richiami e di rinvii ad armonie
profonde. Come in questa umanissima, commovente poesia dedicata a una donna
amata, ma strappata soffertamente alla vita:
“Non è stato giusto lasciarci / in un gioco che non era
nostro. / Peggio di così stanno i pensieri / e la foglia che ingiallisce. […]
Ma l’hai amata davvero questa vita? / Il giallo, l’amaranto, il pallore del tuo
viso, / tutto si decideva in un vetrino, / stillante turbamento il codice nel
sangue, la sfortuna di non essere tra i centenari. / Antiossidanti d’occasione
il selenio e il Q10 / non sono bastati a darti un giorno di bonaccia; la scia
delle flottiglie abbandonate, / l’infanzia, turbolenze di vento e di dolore
poi, / ma come si fa a credere alle pattuglie d’angeli, / che fosse questo il
disfacimento della tua memoria?” (p. 16).
Ugo Piscopo
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