Nel
discorso poetico del tardo Novecento sono venuti a cadere le grandi narrazioni
(della decadenza); restano i piccoli racconti dell’io solitario che accudisce
la reificazione del discorso poetico ad uso privato del soggetto poetante (e mi
chiedo quanta poesia dell’«io» che poeteggia intorno all’io abbia ancora un
senso). La crescente inflazione di episodi biografici in poesia, che dovrebbero
essere difesi dalla privacy e, se non altro, da un senso del pudore e di
rispetto, almeno per il lettore (il quale ha almeno il diritto di non vedersi
investito da confessioni eccessivamente pruriginose), va di pari passo con il
crescente fenomeno di «de-realizzazione» del testo poetico oggi molto diffuso.
Una volta abolita la cubatura spazio-temporale della versificazione, il
discorso poetico si riduce ad alati aliti, disincarnati effluvi dentro una
scansione narrativa che rende superflui e arbitrari gli a capo. La
«derealizzazione» che ha colpito gran parte della poesia contemporanea fa sì
che i contenuti di verità siano tra di loro indistinguibili in quanto contigui
alla esperienze denaturate del «valore di scambio». Nei libri di poesia di
autori anche acclamati si trovano un gran numero di esperienze virtuali,
immaginarie, oniriche, insieme a quelle esperienze ad alto tasso di
improbabilità statistica, che riscuotono una altissima percentuale di non
accadimento.
Si
parla oggi molto spesso di esperienze «non-reali», che l’autore non ha mai
provato, delle esperienze del padre, del nonno e così via. Ma allora si scriva
un romanzo! Ben più idoneo alla ricostruzione di una esperienza mai esperita.
Nel romanzo questo è possibile, in poesia, no. Se nell’ipermarket tendono a
scomparire i confini tra le varie tipologie di merci in un susseguirsi di
produzione indifferenziata fondata sulla minima differenza e sul minimo scarto,
si assiste al medesimo fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del
genere, tra i singoli sotto-generi, de-vitalizzati a «genere indifferenziato».
Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i
connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la
identificava, per trasformarsi in un «contenitore», un «palinsesto», tenda ad
un «genere indifferenziato», ad un non-stile
indifferenziato, cosmopolitico e transpolitico:chatpoetry, pettegolezzo da lettino psicanalitico
(Vivian Lamarque),pettegolezzo da intrattenimento
ludico-ironico (Franco Marcoaldi), flusso di coscienza reificato e disconnesso, utopia agrituristica,
monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione
intellettuale per assecondare gli utenti di una cultura di massa (Valerio
Magrelli). Ma il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto
distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del
superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso
corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1
afferma Vattimo; ma se la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento
della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica
dell’ideologia del Progresso e alle istituzioni culturali che in tutto il
Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno.
Nell’odierno
orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è
più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno
quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso.
Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento,
dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre
narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro
problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della
propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità» (come il
concetto del «nuovo») è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad
acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena
lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è l’unica
situazione immodificabile dalla quale bisogna ripartire. Ricominciare a pensare
in termini di Discorso poetico significa porre stabilmente il Discorso poetico
entro le coordinate della sua collocazione post-moderna.
Per
Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza
post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è
un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il
modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a
che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei
“grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non
si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare».
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Possiamo
allora affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in
opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo
abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero. Se intendiamo in
senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del
nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo
comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte
considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo
delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che
scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di
scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso
della «via inautentica» per accedere al Discorso
poetico nei
termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso
della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che
migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in
accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che
cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona
in una gelatina stilistica, arrestandone, solo per un attimo, la dispersione
verso e l’esterno e la periferia.
La
poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle
grandi narrazioni. Queste poesie di Mario Gabriele partono da qui, sono il
tentativo di ripartire dal significato di una immagine come effetto di
superficie ed effetto di lontananza. Che cos’è l’effetto di superficie?
Qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario:
l’essenza, la coscienza, e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né
nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie»,
relitto linguistico che galleggia nel mare del linguaggio, il reale subliminale
che sta appena al di sotto della superficie della coscienza linguistica. Non
bisogna con ciò intendere, né vorrei darlo ad intendere, che il senso sia
qualcosa di diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se fosse
un segno o un sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro
che ha contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa); né bisogna
intendere la stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile»,
ovvero, non modificabile almeno per un certo periodo. Infatti, mi chiedo, può
esistere qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale? –
Ciò di cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, appartenente al
sensorio (e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il
senso abita l’immagine, il significato, ovvero, il sensorio? Forse. I
personaggi delle poesie di Mario Gabriele sono gli equivalenti dei quasi-morti,
immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero
sono le categorie dello spirito (le categorie dello scambio simbolico), essi sì
che corrispondono allo scambio economico-monetario al pari delle pagine di
un medesimo foglio bianco che attende la scrittura. Al pari della moneta
anche la parola poetica vive ed è reale soltanto nello scambio simbolico (ma qui il discorso si allungherebbe)
. Anche se è da dire che nel tessuto fisico-chimico di questa poesia penetrano
(osmoticamente, e quindi ideologicamente) lacerti, lemmi e immagini del
linguaggio poetico orfico che si sono sedimentati appena sotto la superficie
del testo, indebolendo (più che rafforzando) il passo della sintassi
(claudicante in quanto non più originaria, non più ordo rerum né piùordo
verborum).
«Effetto
di superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze
il senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma
è un evento, sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di
frammento (in rovina), ed è il prodotto di una «assenza» costituita (non
originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce
il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei
Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio
elegiaco o la poesia che si aggrappa agli «oggetti» come un naufrago al
salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello
«Spirito», non c’è nessuna «utopia» che ci riscatti dal «quotidiano» o dal
viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che
si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffé, un aperitivo e un
chinotto, o in un improbabile bosco con tanto di margherite e vasi di geranio
ben accuditi). La poesia di Mario Gabriele non sfugge a questa problematica, ci
sta dentro come nel suo elemento marino.
1Gianni
Vattimo La fine della modernità Milano,
Garzanti, 1985 p. 114
2 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21
2 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21